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Se la crescita economica continua a concentrarsi in pochi grandi città, quali sono le prospettive per i centri più piccoli? Esistono diversi approcci che gli esperti indicano come validi per mitigare gli effetti negativi in termini di disparità territoriali dovuti principalmente al fenomeno della globalizzazione e all’impatto della tecnologia.
Il dibattito tra gli esperti che si occupano di sviluppo locale è vivace e, guardando oltre Oceano, è possibile individuare nella “gara” indetta dal colosso dell’e-commerce Amazon per stabilire la location ideale dove stabilire i propri quartieri generali uno dei principali argomenti di discussione con riferimento al tema dell’urbanizzazione, delle nuove geografie del lavoro da essa disegnate e delle fratture territoriali già fotografabili.
Infatti, scegliendo le città di New York e Washington D.C., la vicenda degli headquarters di Amazon ci racconta ancora una volta del crescente divario che sta venendo a crearsi fra poche città “superstar” e il resto degli Stati Uniti per quanto riguarda le dinamiche del mercato del lavoro e l’incontro tra domanda e offerta di competenze (in questo caso specifico il riferimento è a quelle abilitanti per la competitività del settore dei servizi, del commercio on-line e a quelle digitali). In questo senso, la rilevanza del luogo (geografico) di lavoro impatterebbe, attraverso la sua attrattività, tanto sulle scelte e prospettive di carriera e le transizioni occupazionali individuali, quanto sull’abilitazione dei processi di apprendimento, la concentrazione e diffusione del capitale umano (“creativo” secondo la definizione che ne dà Richard Florida) e, conseguentemente, sulle performance dei territori stessi.
Con quella che viene chiamata “resurgence of cities[1]”, verrebbero così a verificarsi due fenomeni distinti, ma strettamente collegati: l’influenza delle città-regioni di residenza sulle opportunità di avanzamento professionale (“effetto scala mobile”) e la ricollocazione tra le città e delle regioni stesse (“effetto ascensore”). Insomma, le regioni in cui sono presenti grandi conurbazioni urbane, così fornirebbero così un “escalator” per la carriera soprattutto ai lavoratori più giovani, con credenziali educative alte e, con riferimento alle attitudini personali, ambiziosi[2] (lì già residenti) e parallelamente innalzerebbero il loro stesso status, agendo come magneti per i lavoratori che vi si trasferirebbero nella convinzione di trovarvi migliori opportunità di crescita sia professionale (e non solamente in termini di remunerazione, ma anche di soddisfazione lavorativa) che personale.
Di questo aspetto si è occupato anche un recente studio dell’Istiuto Brookings, indirizzando l’analisi selle disparità , spaccature territoriali, così accentuati e persistenti negli Stati Uniti, da suggerire l’ipotesi dell’esistenza di due nazioni distinte: la zona “urban” e quella costituita dai centri piccoli e medi (“rural”). Il report, oltre a dare conto attraverso l’elaborazione di informazioni statistiche e di indicatori economici propone anche una serie di strategie per affrontare il divario e rafforzare la coesione territoriale.
Infatti, negli Stati Uniti, le 53 città più grandi (ovvero quelle in cui gravitano più di un milione di persone), pur rappresentando solamente il 2% delle conurbazioni urbane hanno prodotto più di tre quarti della crescita occupazionale dalla crisi del 2008 ad oggi in America (per una ricognizione dei dati relativi al fenomeno dell’urbanizzazione e delle c.d. mega cities si veda M. Roiatti, Nuova geografia del lavoro/5 – Il nuovo retail nelle città del futuro, nòva). Distaccando così, rispetto l’indicatore della creazione di posti di lavoro, notevolmente e progressivamente i centri più piccoli. Inoltre, i dati riportati, mostrano come, a partire dal 2010, le più di 200.000 piccole cittadine e le micro-comunità rurali abbiano visto tassi di crescita economica negativi. Come sottolinea lo studio “quasi un decennio dopo la Grande Crisi, le prospettive di crescita dei centri “lasciati indietro” appaiono tenui. Il tasso di occupazione nella maggior parte di queste aree non metropolitane è tuttora inferiore al livello di quelli precedenti alla recessione mentre le previsioni di crescita di lungo periodo rimangono buie[3]”.
Il grafico seguente, estrapolato dal report, dà conto dei trend relativi alla retribuzione e ai livelli occupazionali: è molto chiaro come è a partire dalla fine degli anni ’80 che il 2% delle città (le “superstar” – linea blu scuro) ha iniziato a scostarsi significativamente dalle dinamiche degli altri centri, con un divario ancora più sensibile registratosi negli anni 2000, specialmente allo scoppio della crisi del 2008.
Figura 1
La prossima figura illustra, invece, le variazioni percentuali dei tassi di occupazione a partire dal 2008 nelle città grandi, medie e piccole (incluse le comunità rurali sia adiacenti che non i centri urbani). I grandi poli urbani hanno registrato i miglioramenti più consistenti, seguiti da quelli medi e piccoli. Invece, le micro-aree (rurali e non) sono state caratterizzate da tassi di crescita negativi lungo tutto il periodo considerato.
Figura 2
Tuttavia, sempre secondo Florida, studioso che da anni si occupa di questi temi (come volte citato nel report), è comunque doveroso operare dei distinguo e sottolineare come, anche all’interno dell’universo delle grandi città ci siano centri in difficoltà, vacillanti e, allo stesso tempo, piccole cittadine che invece stanno vivendo un momento di crescita e si stiano adoperando per colmare il gap in termini di sviluppo. In che modo? Lo studioso individua nella presenza di università, centri di ricerca e sviluppo (privati e pubblici, federali), così come nella possibilità di accedere a una vasta gamma di proposte di intrattenimento (culturale) e svago alcuni delle infrastrutture abilitanti lo sviluppo e la sostenibilità della crescita economica dei poli urbani più piccoli.
Ciò detto, secondo lo studio del Brookings Institute, il peggioramento di questo divario sarebbe comunque il risultato, a livello di sistema Paese, di una serie di fattori e forze. Il primo tra questi è la deindustrializzazione, responsabile di aver messo a dura prova -se non proprio decimato- le economie di molte zone a vocazione industriale. Il secondo elemento individuato coincide con la globalizzazione che, nel suo propagarsi ha visto un sempre più frequente ricorso all’ offshoring (delocalizzazione) dei processi produttivi.
Non è poi trascurabile il tema dei vantaggi economici (e non solo) legati al trasferimento di conoscenza per profili professionali a più altre qualificazioni e competenze e i territori in cui essi sono prevalentemente concentrati (il riferimento nello studio in commento è principalmente rivolto allo spiazzamento legato alle competenze digitali indicate come maggiormente disponibili nei centri urbani di grandi dimensioni: “skill-biased technological changes”). Ancora, gli autori sottolineano come, senza dubbio, le industrie innovative, basate sulla conoscenza richiedano l’accesso a infrastrutture cooperative più istituzionalizzate e ricorrenti tra le industrie stesse, ma anche tra di esse e il mondo accademico, della ricerca (le c.d. dinamiche dell’agglomerazione).
Infine, non vanno trascurate nemmeno le responsabilità dei decisori politici, descritti come troppo spesso propensi a “chiudere un occhio” rispetto alle regolamentazioni antitrust (o non intenzionati a aggiornarle in virtù degli effetti connessi all’urbanizzazione spinta), parallelamente al sostegno di politiche di deregulation (principalmente nei settori finanziario e dei trasporti).
Sarebbe dunque il propagarsi di questi elementi a contribuire in maniera significativa all’inasprimento delle crescenti fratture territoriali. Ed è proprio l’intensificarsi di questa spacial inequality ad aver avuto, secondo gli autori del report, un peso consistente nell’indirizzare le preferenze di voto dei cittadini americani, in maniera differente da quanto accaduto in passato: “Durante il periodo successivo alla II Guerra Mondiale, non c’era correlazione alcuna tra la densità abitativa delle regioni ed i relativi pattern di voto. Oggi, le preferenze elettorali coincidono quasi perfettamente con la densità di popolazione regionale[4]”.
Una domanda sorge spontanea: cosa è possibile fare per mitigare le disuguaglianze fin qui descritte? Abilitare uno “sviluppo territoriale diffuso”[5]. A tale proposito, il report, analizzando nel dettaglio anche le iniziative dimostratesi finora inefficaci, propone una serie di strategie economiche e politiche “place-sensitive”: questo approccio suggerisce che l’equità territoriale non sia possibile in assenza dello sviluppo che, a sua volta può essere inficiato da un’eccessiva disomogeneità nelle possibilità di accesso ai processi di agglomerazione. Se questa strategia può essere utile ad esempio per incrementare l’attrattività delle comunità più piccole e la loro capacità di retention dei profili professionali di cui i diversi territori abbisognano, il report sottolinea come essa debba essere messa a sistema con i più tradizionali interventi “people-based” (indicati come ancora importanti ad esempio per incoraggiare la mobilità dei lavoratori per connetterli con le opportunità lavorative disponibili nel Paese).
Contestualmente al riconoscere che l’innovazione richiede prossimità e agglomerazione di conoscenze e capitali presenti nei nodi urbani, questo approccio presta una bilanciata attenzione anche ai centri più piccoli, dove lo sviluppo potrebbe essere stimolato grazie all’investimento nelle competenze e “capability” proprie delle specifiche tessiture territoriali, rafforzando i momenti di incontro e collaborazione tra le imprese e gli istituti universitari locali e connettendo i luoghi svantaggiati con quelli più efficienti attraverso le infrastrutture dei trasporti e internet a banda larga.
Quanto appena descritto non è molto dissimile dal concetto molto in voga della “smart specialization” sviluppato in seno alla Commissione Europea nel contesto delle politiche di coesione il cui obiettivo è identificare e rafforzare le nicchie di specializzazione (economico-produttiva) dei territori più in difficoltà.
Infine, nonostante il documento qui analizzato sottolinei l’impossibilità di raggiungere i livelli di coesione territoriale propri dell’America degli anni ’50 (caratterizzata da un’egemonia economica e da un sistema industriale estremamente competitivo su scala globale), sono altrettanto significative le considerazioni conclusive. Gli USA sono destinati a un“Winner-takeall urbanism”? No, nel momento in cui le politiche di sviluppo locale si concentreranno nel rendere possibile ai centri più piccoli di investire nelle proprie specifiche risorse (economiche, di capitale umano e relazionale) e, sostanzialmente, coesistere con i nodi urbani più grandi, nonostante le differenze economiche e politiche, rafforzando un sistema di sviluppo capace di dare risalto alle specificità (geografico/morfologiche, demografiche e produttive) locali.
Come? Senza provare a uniformare forzatamente le diverse regioni, ma prendendo le mosse da rigorose analisi territoriali e di impatto del fenomeno dell’espansione delle aree metropolitane e adottando un approccio capace di riconoscere tali differenze e agire per il rafforzamento di un sistema di sviluppo più distribuito ed equo.
Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro
Università degli Studi di Bergamo
[1] L’espressione, rintracciabile anche nel lessico non specializzato, è qui utilizzata così come riportata da I. Gordon et al. (2015), Urban escalators and interregional elevators: the difference that location, mobility, and sectoral specialisation make to occupational progression, Environment and Planning A 2015, vol. 47.
[2] David McCollum et al. (2018), Determinants of occupational mobility: the importance of place of work, Regional Studies, 52:12, 1612-1623.
[3] Traduzione a cura di chi scrive.
[4] Traduzione a cura di chi scrive. Rispetto ai pattern di voto: le grandi città sarebbero sempre più cospicuamente quindi espressione dei Democratici. Specularmente i piccoli centri e le zone rurali hanno espresso preferenze maggioritarie nei confronti dei Repubblicani.
[5] Ci si riferisce al “distributed development” teorizzato in geografia economica da M. Stoeper e Andrés Rodríguez-Pose.