La parte peggiore del Jobs Act è la legge sul sindacato

Quello tra sindacato e politica è un rapporto da sempre controverso e con una lunga storia. Il Partito Comunista Italiano non ha mai concepito una possibile autonomia della CGIL. La Democrazia Cristiana, per contro, accettava malvolentieri la pretesa di indipendenza avanzata dalla neonata CISL.

 

La DC comprendeva assolutamente l’opposizione della stessa Confederazione ad una legge che regolasse il riconoscimento giuridico del sindacato. Il sindacato, nel disegno della classe dirigente formatasi dopo la parentesi corporativa, si doveva muovere in un ambito istituzionale subalterno alla politica. Eloquenti le risposte di Giulio Pastore, primo segretario del sindacato cristiano, alle pressioni esercitate da Carlo Donat Cattin e Mario Scelba nei discorsi tenuti durante i primi due congressi della storia CISL (1951 e 1955): quando una legge è inutile, meglio farne a meno. Il sindacato non deve mendicare la sua esistenza alla politica perché è strumento di democrazia sostanziale per nulla sottomesso ai partiti. Diversa e condizionata dalle stagioni politiche è stata negli anni la posizione della CGIL, tentata dalla possibilità di cristallizzare per legge (che in Italia, come i diamanti, è “per sempre”) il suo maggiore numero di deleghe. La filosofia corporativa di fondo della CGIL, sempre proclamatasi sindacato “di classe” e non “di associati”, inevitabilmente la espone a preferire regole maggioritarie formalizzate ex lege.

 

Dopo un sessantennio di astensione legislativa, il “caso Fiat” ha riaperto il dibattito. Le vicende di Fabbrica Italia – e la contrapposizione muscolare tra Landini e Marchionne – hanno spaccato profondamente l’unità sindacale dei metalmeccanici, ponendo con nuova forza il problema della esigibilità dei contratti (aziendali prima ancora che nazionali). Si può sopravvivere senza regole certe fino a quando si è tutti d’accordo; poi qualcosa va deciso.

 

Sul punto si confrontano (e sempre si confronteranno) due visioni del vivere civile diametralmente opposte: quella che individua nella legge l’unico strumento per darsi delle regole e quella di chi ha fiducia nella c.d. autonomia collettiva, ovvero nella capacità di sindacati e associazioni datoriali (ma vale per tutti i corpi intermedi) di definire internamente regole e procedure, senza bisogno del Parlamento e, ancor più, dei giudici. Come esprime significativamente un articolo 18 decisamente più importante di quello che agita i sonni dei sindacalisti, quello costituzionale, «i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente, senza autorizzazione, per fini che non sono vietati». Negli ordinamenti democratici, libero Stato e libera società si fondano sul rispetto delle reciproche autonomie. La vera rappresentanza non discende dalle leggi, ma dalla libera volontà di coloro che intendono farsi rappresentare.

 

Quasi sessantacinque anni dopo Donat Cattin, Matteo Renzi, rispolvera le argomentazioni della storica classe dirigente di Piazza del Gesù e scrive nel suo Jobs Act che è necessaria una legge sulla rappresentatività sindacale. Come allora, è il sindacato di sinistra, in questo caso la FIOM, a fare subito proprio il messaggio, sposandolo in pieno. Tanto da pensare che Maurizio Landini sia addirittura disposto a cedere qualcosa in materia di articolo 18 (quello famoso), parzialmente superato nel «contratto di inserimento a tempo indeterminato a tutele crescenti» renziano, pur di ottenere l’agognata legge sindacale, oggetto di una recente proposta legislativa di iniziativa popolare presentata dalla stessa FIOM. Va creandosi uno strano asse che Susanna Camusso, Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti hanno provato a superare sottoscrivendo con Giorgio Squinzi un dettagliato Testo Unico sulla Rappresentanza che è difficile non leggere come messaggio alla politica di capacità di autoregolazione e, quindi, di fastidio verso un eventuale intervento Parlamentare.

 

Ha ragione Landini a considerare un eventuale intervento in materia di rappresentanza della «stessa importanza della legge elettorale». Di quello si tratta: l’una regolerà le elezioni politiche, l’altra le consultazioni dei lavoratori per eleggere le rappresentanze sindacali e sottoscrivere accordi e contratti collettivi. Ambedue sono destinate a condizionare la democrazia sostanziale del Paese. Siamo ormai abituati ad osservare l’esasperazione continua della dialettica politica e il suo sbilanciamento verso le posizioni più estreme ed ideologiche. E’ quello il modello a cui guardare per la democrazia sindacale? Davvero si vuole svuotare di significato la libera scelta dell’adesione al sindacato, riducendolo a struttura parastatale che vive di rendita legislativa? Solo un sindacato debole, incapace di parlare ai lavoratori senza la rete di protezione della legge, e un sindacato a vocazione egemonica e totalitaria, che preferisce l’opposizione alla contrattazione, possono accettare l’intromissione della politica nella dialettica rappresentativa.

 

Tra i due estremi si trova la storia e la tradizione del nostro sistema di relazioni industriali che, pur con problemi e difficoltà, ha sempre saputo gestire l’ordinato sviluppo di un sistema libero e responsabile di attori che contrattano nella convinzione che lo Stato non è e non potrà mai essere la misura di ogni iniziativa economica e tanto meno sociale.

 

Emmanuele Massagli

Presidente di ADAPT

@EMassagli

 

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