La disoccupazione dei lavoratori anziani

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Nei dibattiti di politica economica e del lavoro che si svolgono, tra una partita di biliardo ed uno scopone scientifico, nei Bar Sport della provincia italiana, una delle teorie più accreditate si riassume così: “I giovani non trovano lavoro perché gli anziani – per colpa della legge Fornero – non vanno più in pensione”. Qualche avventore più informato, per aver fatto zapping sui talk show del martedì sera, si avventura in talune considerazioni maggiormente approfondite e ricorda come le rilevazioni statistiche denuncino da tempo che le coorti di occupati anziani presentano variazioni in aumento. Non è che queste considerazioni siano del tutto infondate; soffrono anch’esse, però, del vizio capitale di fornire risposte semplici e banali a problemi assai complessi. Per cogliere i trend reali occorrerebbe fare i conti con la componente demografica che condiziona anche il livello di impiego di tutte le coorti. Al netto degli effetti di tale componente, l’incidenza degli occupati sulla popolazione è in crescita su base annua in tutte le classi di età (+4,2% tra i 15-34enni, +0,6% tra i 35-49enni, +1,9% tra gli ultracinquantenni). Il calo della popolazione tra 15 e 49 anni influisce in modo decisivo sulla variazione dell’occupazione in questa fascia di età, attenuando l’aumento per i 15-34enni e rendendo negativa la variazione per i 35-49enni. Al contrario l’incremento della popolazione degli ultracinquantenni ne raddoppia la crescita occupazionale.

 

Sul piano politico, poi, non va giudicato negativamente un aumento del tasso di attività nella popolazione ultra55enne che, peraltro, era un obiettivo assunto in modo prioritario tra quelli individuati in “Lisbona 2000”. Ma prima che i “soliti noti” tentino di ridurci al silenzio affermando che a loro dell’Europa non gliene può fregare di meno, mettiamo subito le mani avanti assicurando che non è questo il problema che intendiamo affrontare. A prendersi la briga di leggere il recente Rapporto sul lavoro (Ministero, Inps, Inail, Istat, Anpal) ci si accorge che la condizione dei lavoratori anziani è tutt’altro che tutelata da regole più severe per quanto concerne l’età pensionabile e che molti di costoro anziché restare incatenati controvoglia al posto di lavoro, corrono il rischio di perderlo e di finire in una situazione priva di prospettive.

 

“Nel periodo 2008-2016 – afferma il Rapporto – risultano in forte aumento, in particolare tra le donne, gli individui di 55-69 anni occupati, ormai il sottoinsieme più consistente della popolazione di questa fascia di età (37,1% rispetto al 25,9% del 2008)”. Bene. È un’ulteriore conferma di quanto sta avvenendo nel mercato del lavoro. Ma è tutta qui la realtà? “Oltre agli occupati – prosegue il Rapporto – sono in sensibile aumento gli ex occupati che non beneficiano di una pensione da lavoro: tra il 2008 e il 2016 questo segmento è cresciuto circa del 20%. L’incremento è stato trainato dalla componente maschile (+71,5%) e dai residenti nel Mezzogiorno (+42,7%), l’area che sconta il maggior deficit di partecipazione. In questo gruppo aumenta la quota di chi è in cerca di lavoro in maniera più o meno attiva (disoccupati e forze di lavoro potenziali), circa il 30% nel 2016, mentre diminuiscono gli inattivi non disponibili a lavorare; la propensione alla partecipazione è più intensa tra gli uomini (52,2%). Riguardo alla classe di età il gruppo più numeroso è quello dei 55-59enni con una quota del 44,1%, stabile rispetto al 2008; in aumento i 60-64enni che nel 2016 presentano un’incidenza circa del 38% mentre risulta in calo la quota dei 65-69enni, scesa al 18,0%”. Più in particolare – segnala ancora il Rapporto con il linguaggio un po’ astruso delle statistiche – tra i 2,1 milioni di ex occupati senza pensione il 43,8% ha smesso di lavorare da almeno 15 anni, il 15,7% tra gli 8 e i 15 anni, e il 40,5% (851 mila unità) negli ultimi sette anni, ovvero dall’inizio della crisi; nel 2016, tra questi ultimi oltre i tre quarti (649 mila unità) hanno smesso di lavorare non per scelta, una percentuale in forte aumento rispetto al 2008 (54,6%). Inoltre, tra gli ex occupati senza pensione usciti in maniera involontaria negli ultimi sette anni aumenta la quota di disoccupati e di forze di lavoro potenziali (dal 18,8% al 26,4% e dal 29,8% al 33,3% rispettivamente), accompagnata dalla discesa degli inattivi non disponibili a lavorare (dal 51,4% al 40,4%). La classe di età più colpita nel 2016 è quella dei 55-59 anni, seppure la sua incidenza sia in forte diminuzione (il 56,0% rispetto al 67,3% nel 2008), mentre cresce sensibilmente la quota dei 60-64enni (dal 25,7% al 37,0%). L’età media è salita lievemente nel 2016: supera i 59 anni ma è ancora lontana dall’età prevista per il pensionamento. In quest’ultima constatazione sta il cuore del problema. A considerare i valori assoluti, il numero degli anziani privi di reddito e di pensione, non per loro scelta, è assolutamente competitivo con quello dei giovani disoccupati, con la differenza che questi ultimi spesso possono contare sull’appoggio di una famiglia che i primi invece hanno a carico.

Il fatto è che un “blocco sociale” così ragguardevole – che storicamente ha sempre trovato un’uscita di sicurezza nelle diverse forme di anticipo del pensionamento – finisce (come se subisse un riflesso pavloviano) inevitabilmente per cercare una soluzione nel sistema pensionistico, con la complicità delle parti sociali. L’Ape – nelle sue tipologie – contribuisce a risolvere il problema di chi perde il lavoro da anziano; ma i dati di fatto dimostrano che la soglia dei 63 anni non garantisce una copertura a chi quell’evento lo subisce ad un’età inferiore. Ma il sistema pensionistico non può più essere quello che “fa tana per tutti”.

 

Come affrontare, allora, la discrepanza che può determinarsi tra cessazione involontaria dell’attività lavorativa e pensione, al netto degli interventi già individuati sul versante degli ammortizzatori sociali e dell’Ape? Questa funzione, negli ultimi anni, è stata svolta in larga misura dalle salvaguardie (ben otto) per i c.d. esodati che sono divenute ben presto un ammortizzatore sociale surrettizio che, per di più, ha garantito e garantirà, a regime, il pensionamento anticipato secondo le regole previgenti ad almeno duecentomila persone. Anche questa strada, tuttavia, è preclusa, a meno che nella prossima legislatura non prevalgano le forze che hanno fatto dell’abolizione della riforma del 2011 (già mutilata nel corso di quella che è appena giunta al termine).

 

A suo tempo, nel pacchetto di proposte avanzate dall’Inps, era prevista anche una misura che affrontava quella possibile discrepanza. La proposta normativa consisteva nell’istituire un reddito minimo garantito pari, a regime, a euro 500 euro (400 nel 2016 e nel 2017) al mese per una famiglia con almeno un componente ultracinquantacinquenne. Il trasferimento, che prendeva il nome di Sostegno di Inclusione Attiva per gli ultracinquantacinquenni (SIA55), assumeva come riferimento la famiglia, intesa come nucleo che condivide la stessa abitazione. A questa fattispecie possono essere ricondotte le diverse proposte che – con scarso interesse per la stabilità dei conti pubblici – ossessionano la campagna elettorale. Ammesso e non concesso che iniziative di questo tipo possano essere compatibili con le varie tipologie di Ape o quanto meno sommarsi ad esse, tutte, seppure di sottecchi, non possono esimersi da una precisa condizionalità: il beneficiario è tenuto a svolgere attività formative e a non sottrarsi alle proposte di lavoro che gli vengono rivolte dagli uffici competenti. Sarà una foglia di fico, ma anche i fautori delle nuove vie assistenziali al socialismo non se la sentono di escludere che a 55 anni il disoccupato non sia più in grado di trovare un altro posto di lavoro, tanto da doverlo mettere, in modo esclusivo e permanente, a carico della collettività. Si pone, dunque, anche in questi casi estremi – spesso pretestuosi per loro proponenti – un problema di politiche attive che sarebbe, nei fatti, la soluzione vera a fronte dei tanti cambiamenti demografici che incidono sul mercato del lavoro – dal lato dell’offerta prima ancora che della domanda – e sul sistema pensionistico.

Ma è in questo passaggio che “casca l’asino”. Perché non bastano norme, incentivi, assegni di ricollocazione, corsi di riqualificazione, organizzati dalle agenzie del lavoro e dai centri per l’impiego, per affrontare diversamente un problema che le parti sociali – all’unisono – hanno sempre caricato sullo Stato. È indispensabile che anche la contrattazione collettiva ai vari livelli svolga il compito di delineare un assetto dell’organizzazione, degli orari di lavoro, di politiche salariali che siano compatibili con la permanenza in azienda dei lavoratori anziani, senza cadere in una sorta di assistenzialismo privatizzato. È importante, per questo, un impegno più diffuso e costante nel campo della formazione che è da tutti indicato come la priorità a fronte dell’avanzare delle nuove tecnologie. Non è un caso, infatti, che una ricerca dell’INAPP (ex ISFOL) condotta su di un ampio campione di aziende allo scopo di valutare gli effetti dell’incremento dell’età pensionabile sulle loro politiche del personale abbia riscontrato un aumento del 9% delle risorse investite e impiegate nella formazione.

 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

 

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