Il licenziamento per superamento del periodo di comporto in periodo Covid-19

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Bollettino ADAPT 17 maggio 2021, n. 19

 

Tra le tante incertezze interpretative che la legislazione d’emergenza ha posto in questo interminabile periodo di COVID-19 va annotata quella delle causali che consentono – e rispettivamente limitano – il licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

 

La disposizione è tra le prime introdotte dal Governo all’inizio della pandemia, e precisamente dall’art. 46 del DL. 18/2020 (decreto “cura Italia”), per un periodo (inizialmente previsto) di 60 giorni decorrente dal 17 marzo 2020.

 

Il “blocco” è stato prorogato dapprima al 30 giugno 2020 (Decreto Sostegni), quindi al 17 agosto 2020 (Decreto Rilancio), e successivamente al 31/12/2020 (Decreto Agosto), al 31/1/2021 (Decreto Ristori), al 31/3/2021 (legge di stabilità per il 2021). Attualmente la proroga è estesa al 30 giugno/30 ottobre 2021 dal DL 41/2021, con scadenze differenziate in ragione delle diverse tipologie e dimensioni dell’impresa e della possibilità di attivare la CIGO, ovvero la CIGD o il FIS per le imprese minori che non usufruiscono della CIGO.

 

L’art.46 del DL 18/2020, sostanzialmente reiterato dai vari decreti nella sua originaria formulazione, ha (testualmente) previsto: “l’avvio delle procedure di cui agli articoli 4, 5 e 24 della legge 23 luglio 1991 n. 223 è precluso per cinque mesi e nel medesimo periodo sono sospese le procedure pendenti…fatte salve le ipotesi in cui il personale interessato dal recesso, già impiegato nell’appalto, sia riassunto a seguito di subentro di nuovo appaltatore in forza di legge, di contratto collettivo nazionale di lavoro o di clausola del contratto d’appalto. Sino alla scadenza del suddetto termine, il datore di lavoro, indipendentemente dal numero dei dipendenti, non può recedere dal contratto per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’articolo 3, della legge 15 luglio 1966, n.  604Sono altresì sospese le procedure di licenziamento per giustificato motivo oggettivo in corso di cui all’articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604″.

 

L’articolo prosegue stabilendo, (al comma 1-bis): “il datore di lavoro può, in deroga alle previsioni di cui all’articolo 18, comma 10, della legge 20 maggio 1970, n. 300, revocare in ogni tempo il recesso purché contestualmente faccia richiesta del trattamento di cassa integrazione salariale a partire dalla data in cui ha efficacia il licenziamento. In tal caso, il rapporto di lavoro si intende ripristinato senza soluzione di continuità, senza oneri né sanzioni per il datore di lavoro”.

 

Col medesimo decreto, l’art. 26 ha inoltre stabilito che: “il periodo trascorso in quarantena con sorveglianza attiva o in permanenza domiciliare fiduciaria… non è computabile ai fini del periodo di comporto.”

 

Il combinato disposto dei due citati articoli, presenti nel medesimo provvedimento di legge, lascia ragionevolmente supporre che il “comporto per malattia” – cioè il periodo di tempo, variabile nei diversi contratti collettivi, entro il quale il superamento di episodi di malattia e/o di infortunio produce l’effetto risolutivo del contratto individuale di lavoro – resti esente dal blocco, sia in quanto estraneo alle causali tipiche del richiamato art. 3 della L.604/1933 (crisi economica, ristrutturazione aziendale, soppressione del posto di lavoro), sia in quanto implicitamente previsto nel solo caso che lo stesso si maturi a causa di malattia/quarantena dovuta al COVID-19.

 

La successiva discussione, ed alcuni interventi giurisprudenziali, hanno tuttavia creato dubbi interpretativi, che utilizzano argomenti deduttivi “a contrario”.

 

A sostegno della tesi del blocco “indifferenziato” per tutte le tipologie di licenziamento riconducibili al G.M.O. (tra i quali potrebbe essere ricompreso il comporto”) si è schierata la prima giurisprudenza di merito. Il Tribunale di Ravenna, nella nota sentenza del 7 gennaio 2021  ha stabilito che il licenziamento per “inidoneità sopravvenuta” rientri nel blocco stabilito dal DL 18/2020 in quanto “è indubbiamente oggettivo e non disciplinare, nella dicotomia dell’art.3 della L.604/1966 ” ed anche perché “per tale licenziamento valgono le stesse ragioni di tutela economica e sociale  che stanno alla base di tutte le altre ipotesi di licenziamento per G.M.O. che la normativa emergenziale ha inteso impedire”.

 

I commentatori favorevoli a questa tesi hanno anche sostenuto che il legislatore, attraverso i vari decreti che si sono susseguiti nel periodo di emergenza, abbia di fatto collegato il divieto di licenziamento per G.M.O. alla possibilità (alternativa) del datore di lavoro di utilizzare, fino al termine dello stesso, la CIGO (ovvero la CIGD e il FIS). Facendo in tal modo venir meno l’interesse – e quindi il diritto (dello stesso datore di lavoro) – di risolvere il rapporto di lavoro per tutte le causali comunque diverse dalla giusta causa, con l’unica eccezione dei licenziamenti (e contestuali riassunzioni) collegati alla successione di appalti  e delle risoluzioni consensuali conseguenti ad  accordi sindacali, generalmente preordinati a programmi di ristrutturazione/riconversione aziendale finalizzati a mantenere viva l’impresa in pendenza dell’emergenza sanitaria.

 

A favore dell’esenzione dal blocco si è invece posto l’accento sulla natura giuridica del comporto, sostenendo che “ ….sia più aderente al dettato normativo quella dottrina che reputa la disciplina dall’art. 2110 c.c. una causa speciale di recesso…..Infatti …….una volta che il periodo di comporto sia trascorso, ciò risulta “condizione sufficiente a legittimare il recesso e, pertanto, non è necessaria, nel caso, la prova del giustificato motivo oggettivo, né della impossibilità sopravvenuta della prestazione lavorativa, né quella della correlativa impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni diverse” (Cass. 31763/2018).” La stessa fonte ha richiamato una decisione della Suprema Corte in cui si afferma: “Il periodo di comporto è stato dunque efficacemente definito “un’astratta predeterminazione del punto di equilibrio fra l’interesse del lavoratore a disporre d’un congruo periodo di assenze per ristabilirsi a seguito di malattia o infortunio e quello del datore di lavoro di non doversi fare carico a tempo indefinito del contraccolpo che tali assenze cagionano all’organizzazione aziendale” (Cass. S.U. 12568/2018)” (Pepe, Ottolini, 2020).

 

Posta la questione nella sua evidente criticità, va osservato che la norma lascia incertezza non solo sotto l’aspetto interpretativo, ma anche sul come trattare, sotto il profilo contrattuale e legale, le conseguenze connesse al superamento del periodo di comporto intervenuto in pendenza del blocco dei licenziamenti.

 

Sotto il profilo contrattuale, il lavoratore potrebbe posticiparne gli effetti utilizzando il periodo di aspettativa non retribuita, variabile nei diversi contratti collettivi nazionali di lavoro. Tuttavia, nel caso che detto periodo di tempo non fosse sufficiente a “scavallare” la durata del blocco, l’eventuale concessione di un ulteriore periodo di aspettativa “extra-contrattuale”, da parte del datore di lavoro, potrebbe ritenuta dal giudice inconciliabile sia con la previsione del CCNL, sia con la effettiva volontà datoriale di procedere al licenziamento successivamente alla scadenza del blocco.

Sotto il profilo legale, il problema si pone invece sulla qualificazione giuridica del “blocco”, se cioè lo stesso debba intendersi come “interruzione” o come “sospensione” dell’esercizio del diritto del datore di lavoro di procedere alla risoluzione del rapporto. Dispone infatti il comma 9 dell’art.8 del DL 41/2021 che “fino alla data resta precluso   al   datore   di   lavoro, indipendentemente dal numero dei dipendenti, la facoltà di recedere dal contratto   per   giustificato   motivo   oggettivo   ai   sensi dell’articolo 3 della legge 15 luglio 1966, n. 604 e restano altresì sospese le procedure in corso di cui all’articolo 7 della medesima legge”.

 

Il legislatore utilizza due distinti termini: quello della “preclusione”, che sembra riferirsi a procedure non ancora avviate al momento del (primo) blocco normativo, e quello della “sospensione”, con espresso riferimento alle procedure di licenziamento per G.M.O. ex art.7 L.604/1966, già avviate.

 

Laddove si ritenga che il termine “preclusione” abbia gli stessi effetti della “interruzione”, verrebbe ad azzerarsi (o quantomeno a ridursi per un periodo corrispondente alla durata del blocco) il tempo maturato ai fini del superamento del periodo di comporto. Nel caso contrario, la sospensione dovrebbe (teoricamente) consentire al datore di lavoro di attivare la procedura di licenziamento il gorno successivo alla scadenza del blocco.

 

Le differenze – ed i rischi pratici connessi a questa decisione – sono rilevanti e sostanziali.

 

Ove infatti l’impresa decida di procedere al licenziamento accedendo alla tesi secondo la quale il licenziamento per “comporto” (per le ragioni sopra dette), costituisce una causale di blocco nel solo caso in cui lo stesso si maturi per effetto della sommatoria tra periodi di malattia “ordinaria” e periodi di malattia/quarantena da COVID-19, incorrerebbe nel rischio di una decisione contraria da parte del giudice, che potrebbe adeguarsi a quella del Tribunale di Ravenna.

 

 Ex adverso, ove il lavoratore opponga al licenziamento intimato le ragioni “dell’alternativa legale” (possibilità di ricorrere alla CIGO, alla CIGDS, al FIS), potrebbe trovarsi di fronte ad una decisione del giudice diametralmente contraria a quella dello stesso Tribunale di Ravenna.

 

Quanto agli effetti di una sentenza sfavorevole, laddove il licenziamento sia considerato nullo perché contrario a norme inderogabili di legge, l’impresa sarebbe esposta ai rilevanti rischi economici connessi (reintegrazione del lavoratore, pagamento di tutte le retribuzioni e dei contributi previdenziali ed assicurativi maturati tra la data di licenziamento e quella di reintegrazione). Nell’ipotesi che il licenziamento sia invece ritenuto illegittimo ma non affetto da nullità, si produrrebbero gli effetti previsti dall’art.18 L.300/1970 – o dall’art.3 del D.lgs 23/2015, secondo la data di assunzione del lavoratore licenziato (pagamento di un’indennità risarcitoria, variabile secondo i casi tra i 24 e i 36 mesi).

 

Nel caso in cui, invece, l’impresa decida di non procedere al licenziamento e ponga il lavoratore in CIGO all’atto del superamento del periodo di comporto, resterebbe comunque incerto il trattamento economico dovuto al lavoratore, ove stesso continui a fornire all’Istituto Previdenziale certificati di malattia anche successivamente alla scadenza del periodo di comporto.

 

Considerando che la discussione politica in corso sembra prevedere una (ulteriore) proroga del divieto di licenziamento – quantomeno di quello attualmente fissato al 30 giugno 2021 – sarebbe utile che nel prossimo decreto legge il Governo (e il Parlamento) vi fosse una definitiva chiarezza sul punto, nell’interesse dei lavoratori e delle imprese.

 

Questo tempo sospeso, indefinito, confuso e ormai incomprensibile anche a chi queste norme le scrive, ricorda infatti sempre di più una metafora hegheliana: “(siamo in piena) notte, in cui tutte le vacche sembrano nere”.

 

Antonio Tarzia

ADAPT Professional Fellow

 

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