Alcune note sul platform work in Giappone

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Bollettino ADAPT 23 gennaio 2023, n. 3
 
A seguito della quarta rivoluzione industriale i concetti di sharing economy, platform work, algorithm management e gig work sono diventati oggetto di ricerca in molti Paesi così come l’analisi dei problemi che essi portano con sé.

I temi sono centrali nelle politiche del lavoro non solo dell’Unione Europea e degli Stati Uniti, i quali detengono il primato in termine di studi, indagini e misure adottate, ma anche nel continente Asiatico in Cina, Corea del Sud e in Giappone.
 
In una prospettiva comparata, quest’ultimo Paese – per le sue peculiarità – offre la possibilità ad alcune interessanti considerazioni. Tra le particolarità più rilevanti, se messo a confronto con quanto si registra in Italia, vi è il fatto che i rapporti di lavoro sono tradizionalmente caratterizzati da contratti di lavoro a tempo indeterminato e da benefici e bonus legati alla permanenza. Tuttavia, di fronte alla rivoluzione 4.0 anche questo sistema non si è dimostrato immune dal manifestare gravi problemi di stabilità e sostenibilità causati dalle crescenti sfide economiche interne e globali aggravate, nel caso di specie, dai bassi tassi di fertilità che combinati, a loro volta, alle passate politiche migratorie restrittive hanno portato ad una carenza di manodopera e così costretto molte aziende ad offrire contratti di lavoro flessibili per ridurre i costi. Ragion per cui l’economia giapponese nel nuovo paradigma rivoluzionario si è modellata nella direzione di un maggiore liberismo economico (H. Umer, llusory freedom of physical platform workers: Insights from Uber Eats in Japan, in The Economic and Labour Relations Review, vol. 32, n. 3, 2021).
 
Uno degli sviluppi più recenti di questo processo di liberalizzazione del mercato del lavoro è stata la significativa diffusione del platform work e del crowdwork, ossia una crescita esponenziale della forza lavoro impegnata in attività di piattaforma o gig work, le cui dimensioni hanno raggiunto un’ampiezza tale da far parlare, proprio con riferimento al Giappone, di big gig economy o di boom della gig economy.
Tra le cause che hanno contribuito all’estensione del fenomeno vanno annoverate gli investimenti delle imprese giapponesi sulle nuove forme di lavoro on demand e anche una sorta di politica governativa ad esse favorevoli. L’allora primo ministro Shinzō Abe, sottolineandone la natura flessibile, autonoma ed egualitaria, annunciava le opportunità che queste nuove forme di lavoro digitali possono assicurare sotto forma di inclusione per particolari gruppi della società rimasti generalmente emarginati o esclusi dal mercato del lavoro quali le donne, i giovani, gli anziani e i lavoratori non regolari (S. Shibata, Gig Work and the Discourse of Autonomy: Fictitious Freedom in Japan’s Digital Economy, in New Political Economy, vol. 25, n. 4, 2020). In questi discorsi governativi si problematizzavano le pratiche lavorative tradizionali, caratterizzate da orari prolungati e da uno scarso equilibrio tra lavoro e vita privata, principale causa dell’esclusione di questa ampia gamma di potenziali lavoratori. Pertanto, i gig works venivano presentati come un’efficace soluzione alle sfide temporali e geografiche in quanto capaci di creare un ambiente ottimale per l’incontro tra domanda ed offerta di competenze e quale strumento ideale per assicurare la riduzione delle diseguaglianze all’interno del mercato del lavoro attraverso la promozione di nuove forme di occupazione accessibili e ricompensate adeguatamente in base al merito.
 
Tuttavia, non sono tardate ad affermarsi voci contrarie a questa politica che, per converso, si preoccupavano di rimuovere il velo d’ombra posto sull’ideale immagine del lavoro tramite piattaforma digitale come fonte di libero dominio e di eguaglianza, disegnata da una politica governativa che doveva affrontare l’esigenza di aumentare la produttività nazionale in una situazione di carenza di manodopera e di diffusione di lavoratori non regolari in modo tale da rispondere alle pressioni concorrenti del capitalismo contemporaneo (S. Shibata, Gig Work and the Discourse of Autonomy: Fictitious Freedom in Japan’s Digital Economy, in New Political Economy, vol. 25, n. 4, 2020). Esse hanno posto in luce come i nuovi mezzi tecnologi introdotti nel mercato del lavoro giapponese possono dimostrarsi, in realtà, come efficaci veicoli attraverso i quali esercitare forme di discriminazione, competizione, sorveglianza e controllo sia nel momento di reclutamento sia durante l’intero svolgimento del rapporto di lavoro. Altresì, la presunta possibilità di una maggiore conciliazione della vita lavorativa con quella privata non si mostrava sempre veritiera, poiché, proprio per la natura delle mansioni che i lavoratori delle piattaforme sono chiamati a svolgere, essi spesso si devono rendere continuamente disponibili online. Infine, queste opinioni critiche sottolineavano un ulteriore effetto infelice innescato dalla domanda consistente di mansioni omogenee: quello della dequalificazione e della creazione di forme di lavoro intercambiabili e invisibili che, in ultima analisi, portavano all’aumentato della concorrenza tra i lavoratori delle piattaforme, costringendoli a lavorare in condizioni difficili e a salari ridotti, con un consequenziale aumento dell’incertezza lavorativa e di instabilità del reddito. Secondo queste circostanze, i principali beneficiari di un siffatto mercato del lavoro digitale non erano tanto i lavoratori, ma quanto le aziende, le quali traevano vantaggio da questa maggiore concorrenza attraverso l’elusione dei propri obblighi nei confronti dei lavoratori stessi e grazie all’offerta di condizioni di lavoro poco vantaggiose, prive di valori sociali e di pratiche di autorealizzazione perché basate unicamente sulla logica del profitto.
 
In queste circostanze, il Giappone ha iniziato a perseguire misure politiche per cercare di regolare il nuovo capitalismo delle piattaforme ed affrontare le nuove sfide poste dall’uso dell’IA adottando, a seconda delle necessità, ora un approccio rigido, ossia utilizzando il quadro giuridico esistente o attraverso la creazione di una nuova legislazione, ora quello morbido che, invece, si è affidato all’autoregolamentazione locale, delle industrie e alle attività volontarie dei cittadini.
 
In particolare, vi sono state tre aree di intervento principali. La prima ha riguardato le questioni sociali e politiche, tra cui l’incitamento all’odio, i contenuti dannosi, illegali, discriminatori e le fake news. In merito, nel 2016 è stato introdotto lHate Speech Elimination Act (HSEA), ossia la prima legge contro i discorsi d’odio in Giappone il cui obiettivo è stato quello di eliminare i discorsi e i comportamenti ingiusti e discriminatori nei confronti di persone provenienti dall’esterno del Paese in modo tale da assicurare una coesistenza pacifica ed egualitaria sul piano politico, sociale, economico e lavorativo. In aggiunta, tale corpus normativo ha offerto protezione a favore dei residenti di etnia coreana in Giappone e ai lavoratori provenienti da altri Paesi dell’Asia, del Sud America e dal Medio Oriente condannando ogni forma di discriminazione e gli attacchi aggressivi migrati dal mondo fisico al mondo virtuale e delle piattaforme digitali.
 
La seconda area di interesse ha affrontato problemi economici, tra cui la protezione delle piccole e medie imprese nazionali contro le Big Tech; infine, la terza si è occupata della protezione dei consumatori, compresa la tutela della privacy e dei dati personali. Al riguardo, in coerenza con l’HSEA e la discussione globale concernente l’individuazione di un’efficace governance dell’IA anche il Giappone, nella Strategia per l’IA del 2019, ha individuato tra i principi chiave la responsabilità, la trasparenza e l’equità. In un’ottica di prevenzione dei rischi associati agli innovativi strumenti digitali, la ratio di questi principi è quella di dare importanza al contesto in cui operano e tutelare le persone interessate e la società in generale dai rischi di discriminazioni, manipolazioni, sfruttamento e perdita generale di controllo causata da decisioni poco trasparenti.
 
Tra gli interventi chiave più recenti si possono menzionare l’Act on Improving Transparency and Fairness of Digital Platforms (AITFDP) del 2021 e l’Act on the Protection of Personal Information (APPI) del 2022.
La prima legge, tra le regole di base da rispettare da parte di tutti gli operatori delle piattaforme digitali, ha previsto: la trasparenza per garantire la correttezza del funzionamento degli operatori delle piattaforme digitali; la necessità di attuare regole equilibrate, flessibili ed efficaci; la previsione di regole per la portabilità e l’apertura dei dati; l’attuazione di una gestione equa della piattaforma ed, infine, l’obbligo di informare preventivamente gli utenti della piattaforma di qualsiasi cambiamento. Il secondo provvedimento ha introdotto disposizioni per far fronte all’aumento dell’uso dei dati digitali, in particolare da parte degli operatori delle piattaforme digitali, il cui obiettivo è quello di assicurare una maggiore protezione dei diritti individuali ad essi connessi e la comprensione da parte dei cittadini di quando essi, invece, vengono violati.
 
Il quadro proveniente dal Giappone mostra come le sfide poste dal lavoro su piattaforma e dall’IA, nonostante l’unicità e la diversità connessa alla realtà economica e sociale del Paese del Sol Levante, siano in larga misura analoghe tra i Paesi ad economia sviluppata e che problemi simili potranno sorgere nelle economie in via di sviluppo e, quindi, l’importanza che i Paesi si impegnino a formulare politiche condivise al fine di regolare efficacemente le sfide che si pongono nell’era digitale.
 
Agnese Casasso

ADAPT Junior Felllow

@AgneseCasasso

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