A volte ritornano: il caso Ryanair di nuovo al vaglio della CGUE

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Bollettino ADAPT 1 febbraio 2021, n. 4

 

È possibile interpretare la nozione comunitaria di «persona occupata abitualmente nel territorio dello Stato in cui risiede», di cui all’articolo 19, paragrafo 2, lettera a), ii), Regolamento CEE 1408/71, nel modo analogamente ampio inteso dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea in un caso recente (Nogueira, C-168/16 e C-169/16 ECLI:EU:C:2017:688), e quindi quale «luogo in cui svolgere abitualmente la propria attività lavorativa», di cui al medesimo articolo 19, lettera a), i), facendolo coincidere con quello in cui è svolta la parte pregnante e più significativa della prestazione lavorativa?

 

È questo, in estrema sintesi, il quesito che la Corte di cassazione, con due ordinanze (la n. 29236 e la n. 29237, entrambe del 21/12/2020) , ha rivolto al Collegio europeo per potere decidere in ordine ai ricorsi proposti dall’Inps avverso le decisioni di secondo grado – Corti di Appello di Brescia e Bologna – che, nel confermare le sentenze dei Tribunali di Bergamo e Bologna, avevano annullato i verbali ispettivi con cui la compagnia aerea irlandese era stata richiesta di versare i contributi in Italia. In particolare, le richieste ispettive si erano fondate sulla considerazione per cui, nel periodo dal 30/03/2009 al 30/04/2012, gli hub aeroportuali bergamasco e bolognese costituivano luogo di esecuzione della prestazione lavorativa, con conseguente invocazione dell’articolo 13 Regolamento CEE 1408/71 sull’applicazione dei regimi di sicurezza sociale ai lavoratori dell’aviazione civile che si spostano all’interno della Comunità, ai sensi del quale per il personale dipendente viaggiante vale la legislazione di un solo Stato membro, di norma coincidente con quello in cui ha sede il datore di lavoro.

 

Tuttavia, nei rispettivi due precedenti gradi di giudizio, il luogo di esecuzione della prestazione lavorativa non era stato considerato «base di servizio» o «succursale», tale da comportare l’invocazione dell’eccezione sancita dall’articolo 14, citato Regolamento 1408/71, che, appunto, individua due fattispecie derogatorie alla regola generale sancita dalla disposizione precedente: la prima, rappresentata dalla presenza di una succursale o base di servizio datoriale nel Paese in cui il lavoratore svolge la prestazione (articolo 14, paragrafo 2, lettera a), ipotesi i); la seconda, costituita dalla residenza del lavoratore nello Stato in cui prevalentemente lavora (articolo 14, paragrafo 2, lettera a), ipotesi ii).

 

Altresì, i giudici di merito nazionali non avevano aderito alle richieste ispettive nemmeno accogliendo il criterio di collegamento rappresentato dalla nozione di «base operativa» ai sensi all’allegato III, Regolamento 3922/91, concernente l’armonizzazione delle regole e procedure amministrative nel settore dell’aviazione civile, posto che soltanto dal 1°/05/2010 tale ultimo atto normativo comunitario era stato esteso anche alla sicurezza sociale per effetto del Regolamento 883/2004.

 

La questione posta al vaglio della Cassazione verte, a suo avviso, sull’interpretazione da fornire agli illustrati articoli 13 e 14 Regolamento 1408/71, alla luce dell’orientamento ermeneutico espresso dalla giurisprudenza comunitaria. A riguardo, infatti, la CGUE aveva già precisato (Vueling, C-370/17 e C-37/18 ECLI:EU:C:2020:260) che le condizioni applicative dell’eccezione contenuta nell’articolo 14, paragrafo 2, lettera a), ipotesi i), Regolamento 1408/71, consistono nell’esistenza di una succursale o rappresentanza permanente datoriale nel Paese diverso da quello di stabilimento e nel rapporto di subordinazione intercorrente tra il personale navigante di una compagnia aerea e la medesima compagnia.

 

Con riferimento a quest’ultimo presupposto applicativo, nel decidere una precedente controversia di trasporto aereo avente ad oggetto l’individuazione del giudice competente a pronunciarsi sulla legge lavoristica applicabile a personale svolgente la prestazione lavorativa in più Stati membri, la CGUE, nel respingere l’ipotesi ermeneutica proposta dal giudice remittente, aveva chiarito che il criterio di collegamento del «luogo abituale di esecuzione del contratto di lavoro» di cui all’articolo 19, paragrafo 2, lettera a), Regolamento CEE 1408/71, non era equiparabile, a livello semantico, alla nozione di «base di servizio» di cui all’allegato III, Regolamento 3922/91, dovendo al contrario emergere da una serie di elementi fattuali indiziari1, pur potendo la nozione di «base di servizio» essere utilizzata per determinare il luogo in cui il dipendente svolge abitualmente la propria attività.

 

Sulla base della giurisprudenza comunitaria fin qui consolidatasi, quindi, per la soluzione delle questioni oggetto delle ordinanze la Suprema corte ha suggerito  alla CGUE una doppia opzione ermeneutica: innanzitutto, di invocare l’applicazione del diverso criterio di collegamento contenuto nell’articolo 14, paragrafo 2, lettera a), ipotesi ii)2, Regolamento CEE 1408/71, e quindi del luogo di prevalente occupazione del lavoratore, coincidente con quello in cui il lavoratore risiede; altresì, di poter declinare la nozione di prevalente occupazione individuando il luogo in cui o da cui il lavoratore adempie la parte più importante delle obbligazioni assunte verso il datore di lavoro.

 

Tale interpretazione, ad avviso del Supremo collegio, comporterebbe un duplice effetto vantaggioso: da un lato, garantirebbe l’applicazione, in casi analoghi, del criterio fattuale accolto dalla CGUE nell’individuazione del giudice competente a decidere sulle controversie di lavoro (Nogueira, cit.) dall’altro assicurerebbe una tutela sostanziale al lavoratore, parte debole del rapporto, evitando interpretazioni elusive della disciplina comunitaria. In particolare, l’applicazione della legge di sicurezza sociale così individuata avrebbe l’indubbio pregio di «far prevalere, sul criterio di collegamento riferito al luogo ove il datore di lavoro ha la propria sede, quello del luogo ove effettivamente si realizzano gli aspetti essenziali della prestazione lavorativa, soluzione che meglio garantisce l’effettivo controllo da parte degli enti preposti sul rispetto delle misure di sicurezza sociale, la loro piena operatività e la migliore fruizione delle prestazioni sociali da parte degli interessati (ordinanza n. 29237, cit. punto 15).

 

In questo senso, quindi, il luogo di prevalente occupazione del personale navigante di compagnie aeree, inteso, in osservanza delle decisioni della CGUE, alla stregua di luogo in cui il lavoratore svolge in modo abituale la propria attività, permette di valorizzare, sulla base degli elementi fattuali raccolti, il luogo in cui il lavoratore svolge la parte sostanziale, pregnante e più significativa delle obbligazioni assunte verso il datore di lavoro. Luogo che, come argomentato dalla Corte suprema remittente, non può coincidere con quello della nazionalità dell’aereo – come la difesa Ryanair ha spesso sostenuto – per almeno due ordini di ragioni: in primo luogo, perché, trattandosi di personale di volo, giocoforza la prestazione è eseguita a bordo degli aerei datoriali; altresì, atteso che il luogo di occupazione prevalente, di cui al più volte citato articolo 14 Regolamento 1408/71, deroga alla regola generale (articolo 13) dell’applicazione della legge dello Stato in cui il datore di lavoro è stabilito.

 

Se la questione pregiudiziale sollevata dalla Cassazione dovesse trovare esito positivo, i dipendenti della compagnia aerea occupati in Italia nel periodo considerato andrebbero iscritti all’Inps, cui il datore di lavoro dovrebbe versare i relativi contributi: tuttavia, come già fatto notare da alcuni commentatori, la procedura in parola non sarebbe affatto automatica, avendo la CGUE già precisato che la disapplicazione del certificato A1 – che individua la legge di sicurezza sociale applicabile al lavoratore mobile fra i vari Paesi europei – è consentita soltanto alla duplice condizione di ottenimento/rilascio fraudolento del documento A1 e di inerzia dell’Autorità emittente detto certificato, entro un ragionevole lasso di tempo, a fronte della procedura amministrativa attivata dall’Ente previdenziale del Paese ricevente il lavoratore verso l’ente straniero che ha emesso il certificato A1, affinché lo ritiri o l’annulli.

 

Appare pertanto evidente che, nel caso di specie, pur concedendo che la compagnia aerea abbia ottenuto il rilascio del certificato A1 in modo fraudolento – in quanto i lavoratori ubicati presso gli aeroporti italiani, in base all’interpretazione del diritto comunitario proposta dalla Cassazione ed accolta dalla CGUE, avrebbero dovuto esser iscritti all’Inps sin dall’inizio –, l’Ente previdenziale italiano dovrebbe prima chiedere all’omologo irlandese di ritirare ovvero annullare il (già emesso) certificato di appartenenza al proprio sistema sociale in relazione a detti lavoratori, e solo a causa di un’inattività protrattasi per un tempo ragionevole procedere d’ufficio all’iscrizione di detti lavoratori presso il sistema previdenziale nazionale.

 

L’esposta criticità non è di poco conto, stante il notevole lasso di tempo – dovuto alla prevedibile ritrosia del sistema previdenziale irlandese a dover rinunciare per il futuro ed a restituire i contributi versati dalla compagnia aerea in relazione ai lavoratori occupati in Italia – che potrebbe ragionevolmente intercorrere tra la decisione della CGUE e la sua attuazione pratica.

 

Un’alternativa solo in apparenza migliore sarebbe rinvenibile nella proposta di modifica del Regolamento 883/2004 sul coordinamento della normativa sulla sicurezza sociale e del relativo Regolamento attuativo 987/2009, avanzata alla Commissione europea per individuare criteri di collegamento meno complici nella selezione datoriale di ordinamenti giuridici nel cui sistema sociale iscrivere i propri dipendenti, sopportando così costi ridotti, a prescindere dal luogo in cui i medesimi effettivamente lavorano.

 

L’apparente preferibilità di tale soluzione riposa su due non trascurabili circostanze: la prima, costituita dalle inevitabili modifiche per così dire compromissorie che il testo originario subirà per poter essere approvato nell’UE, in ragione delle indubbie differenze di natura politica, economico-sociale e culturale esistenti tra i suoi componenti; la seconda, per la quale le nuove regole potranno valere soltanto per il futuro, nei fatti non accelerando la soluzione di casi concreti già risolti, a meno di non voler considerare un’attivazione in tal senso ad opera della European Labour Authority.

 

E sebbene quest’ultima sia una delle sue principiali attività, l’esito è ben lungi dall’essere prevedibile.

 

Giovanna Carosielli 

Funzionario ispettivo ITL Bologna*

@GiovCarosielli

 

*Il presente contributo è frutto esclusivo del pensiero dell’autore e non impegna l’Amministrazione di appartenenza.

 

1 Tali indizi sono rappresentati dal luogo da cui il lavoratore riceve indicazioni/istruzioni in funzione della prestazione da svolgere, dal luogo da cui effettua la missione di trasporto ovvero organizza il proprio lavoro, dal luogo in cui sono ubicati gli strumenti di lavoro o, infine, dal luogo in cui il lavoratore rientra di solito al termine della propria attività.

2 E non, piuttosto, dell’alternativo (e precedente) criterio di collegamento riferito alla «succursale» ovvero alla «rappresentanza permanente», per il quale sono mancate evidenze probatorie nei giudizi di merito.

 

A volte ritornano: il caso Ryanair di nuovo al vaglio della CGUE