Politically (in)correct – Rivalutazione delle pensioni: stavolta la Consulta ci azzecca

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Il 25 ottobre è stato il giorno dei Santi Crispino e Crispiniano per il sistema pensionistico italiano. Dopo il responso dell’Istat sull’incremento dell’attesa di vita – il cui effetto è quello di determinare, attraverso un provvedimento amministrativo (atto dovuto) un anticipo degli adeguamenti dell’età pensionabile a 67 anni e dei requisiti contributivi, già dal 2019 – la Consulta ha giudicato legittimo il decreto n.65/2015 con il quale il Governo Renzi aveva provveduto a correggere la rivalutazione automatica delle pensioni in base alla sentenza n.30/2015.

 

Rifacciamo brevemente la storia. Il Governo Monti, con la manovra “Salva Italia” di fine 2011, bloccò la perequazione per le pensioni d’importo superiore a 3 volte il minimo per gli anni 2012 e 2013. In sostanza restava operante l’indicizzazione al 100% del costo vita sulla quota di pensione fino a 3 volte il trattamento minimo (1.405,05 euro lordi mensili nel 2012 e 1.443 nel 2013), mentre i trattamenti di importo superiore non avrebbero ricevuto alcuna rivalutazione nel corso di un biennio.

 

La Corte Costituzionale (con la sentenza n.30 del 2015, di contenuto parecchio discutibile), non aveva cassato nella sua interezza il comma 25 del decreto Salva Italia, né aveva giudicato illegittimi, di per sé, gli interventi sul sistema di indicizzazione (se lo avesse fatto avrebbe contraddetto tutta la giurisprudenza in materia), ma i criteri e modalità di esecuzione di quella particolare misura. Nel dispositivo, infatti, la Corte aveva dichiarato “l’illegittimità costituzionale dell’art. 24, comma 25, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 […] nella parte in cui prevede che «In considerazione della contingente situazione finanziaria, la rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici […], è riconosciuta, per gli anni 2012 e 2013, esclusivamente ai trattamenti pensionistici di importo complessivo fino a tre volte il trattamento minimo INPS, nella misura del 100 per cento»”. In sostanza, benché legittima nella sua ispirazione di fondo, la norma, secondo la Consulta, era operante su prestazioni medio-basse, – in modo permanente, visto che quelle risorse sarebbero state perdute per sempre dagli interessati – tanto da mettere in discussione la loro adeguatezza (nonché i criteri della proporzionalità e della ragionevolezza).

 

In tale situazione, il Governo reagì con un provvedimento d’urgenza e rimodulò il taglio della rivalutazione automatica: col decreto n.65, infatti, furono inclusi nell’esonero altri 2 milioni di pensionati; così, in tutto, i “salvati” salirono a 12 milioni su 16 milioni di soggetti interessati e il livello di salvaguardia (sia pure con copertura parziale) fu portato da tre a sei volte il minimo, con un onere di 2,8 miliardi.

 

A questo punto, avendo posto la questione della adeguatezza e della ragionevolezza, la Corte non poteva trasformarsi in un giocatore d’azzardo che rilancia sulla posta, andando nuovamente oltre il suo ruolo istituzionale e pronunciandosi su di una problematica squisitamente politica come quella dei criteri indicati dall’art. 38 della Carta. Il contenuto dei diritti sociali, riconosciuti ai cittadini e ai lavoratori, non può prescindere, infatti, dalle condizioni economiche di un Paese e da quanto esse possono garantire in una determinata fase storica. E pur ridimensionando le cifre astronomiche che sono circolate quale fabbisogno di una copertura completa, una riapertura del caso-rivalutazione avrebbe quanto meno comportato l’impossibilità di sterilizzare l’aumento dell’Iva. Dunque, almeno per stavolta, il Paese eviterà di “gettare soldi dall’elicottero” nelle tasche dei pensionati (nel 2017 sono stati stanziati ben 7 miliardi in un triennio) per rivalutare pure le pensioni medio-alte.

 

Corre, invece, dei rischi seri l’aggancio automatico dell’età pensionabile all’aspettativa di vita che è lo stabilizzatore del sistema pensionistico. Gli esponenti di vertice del Pd – compreso Matteo Renzi dal “treno dei desideri” – si sono pronunciati per il “blocco”, mettendo ancora una volta in difficoltà il “governo amico” presieduto da Paolo Gentiloni. Ormai il Pd di Renzi sembra essere diventato il principale partito d’opposizione, disposto a giocarsi l’equilibrio dei conti pubblici, in cambio di qualche voto in più a costo di mettersi sulla scia di tutti i populismi circolanti. E addirittura i dem non esitano ad entrare in contraddizione con se stessi, dal momento che l’Ape, nelle sue diverse tipologie, era stato istituito per risolvere il problema dell’anticipo della quiescenza (in alternativa alla retorica della flessibilità). Il tutto sulla base di una logica coerente secondo la quale quanti dovessero trovarsi – da anziani – in difficoltà lavorative, personali o famigliari, potranno usufruire dell’Ape sociale in modo gratuito (magari con l’aggiunta del Rita). Chi non ha delle necessità effettive, può anticipare, anch’esso a 63 anni, l’uscita dal lavoro, avvalendosi di un prestito bancario e assicurativo, il cui “regista” è comunque l’Inps e la sua restituzione avviene nei vent’anni successivi al pensionamento dando luogo ad un credito d’imposta nella misura del 50%. Si può dire che questa “uscita di sicurezza” ha tuttora un carattere sperimentale e che, in prima battuta, si sono riscontrati taluni problemi.

 

Ma l’Ape e il Rita (ovvero la possibilità di anticipare anche la riscossione dell’assegno derivante da una forma di previdenza complementare) non sono le uniche misure adottate: ve ne sono altre di natura strutturale come la disciplina dei c.d. precoci e i benefici riconosciuti ai prestatori di mansioni usuranti. Ciò nonostante, il fantasma dei 67 anni (presentato surrettiziamente come la nuova regola generale) si agita e terrorizza al pari dell’ombra di Banquo. Sotto elezioni, tutte le forze politiche sono pronte a gareggiare in demagogia.

 

Ha ragione il presidente dell’Inps Tito Boeri, saldamente impegnato in una battaglia contro la tentazione allo sfascio del sistema previdenziale. In un’intervista di Roberto Mania su La Repubblica del 27 ottobre, Boeri è molto esplicito quando afferma che “c’è una sola ragione per non adeguare l’età pensionabile alla speranza di vita: la prossima campagna elettorale”. E aggiunge, inascoltato, che “se non si facesse l’adeguamento a 67 anni adesso e lo si facesse nel 2021, come prevede la clausola di salvaguardia della legge Fornero, senza più aggiornamenti successivi, da qui al 2040 la somma degli aggravi arriverebbe a 140 miliardi di euro”.

 

Da persona competente il Presidente dell’Inps “infilza” anche il luogo comune che circola nei talk show televisivi secondo il quale il “blocco” dell’aggancio automatico andrebbe tutto a vantaggio dei giovani. “Ciò potrebbe provocare – sostiene Boeri – un forte aggravio dei costi del servizio del debito pubblico (a causa dei rischi presenti in un momento di forti tensioni, ndr) e un conseguente aumento dello spread”. E un punto in più di tasso d’interesse sui nostri titoli di Stato costa circa 2 miliardi di euro all’anno ovvero “cinque volte le risorse destinate alla decontribuzione l’anno prossimo in una manovra che dovrebbe finalmente guardare ai giovani”.

 

Quanto ai fatidici 67 anni di età per il pensionamento, Tito Boeri conferma ex cathedra che si tratta di una leggenda metropolitana (la definizione è nostra): “Oggi la vita lavorativa media in Italia è di 31 anni, contro i 37 della media europea. L’età effettiva di pensionamento – aggiunge – è da noi poco superiore ai 62 anni. Quindi di fatto stiamo alzando l’età a 62 anni e cinque mesi”. Se non lo si farà “saranno i giovani a dover andare in pensione a 75 anni o ancor più in là”. Con buona pace di chi vuole difenderli.

 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

 

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