Politically (in)correct – “Lavoro e conoscenza”. La lezione di Bruno Trentin

Bollettino ADAPT 5 luglio 2021, n. 26

 

Il 13 settembre del 2002 l’Università Ca’ Foscari conferì a Bruno Trentin una laurea ad honorem in Economia. In quell’occasione Trentin pronunciò una Lectio doctoralis sul tema “Lavoro e conoscenza”.  Trentin allora era ancora componente del Parlamento europeo (lo sarà fino al 2004); pertanto ebbe certamente occasioni successive a quella per svolgere in diverse sedi altri importanti discorsi. Come scrisse Giorgio Bocca “quando parla uno come lui si capisce che il duro ripensamento critico e la ricerca creativa appartengono a tutti coloro che vogliono uscire dai luoghi comuni e dalle pigrizie”. In quell’occasione, tuttavia, Bruno parlava nell’Aula dedicata a suo padre Silvio, uno dei fondatori del diritto amministrativo e uno dei pochi docenti universitari che scelsero l’esilio in Francia (dove nacque Bruno nel 1926) per non giurare fedeltà al Fascismo. La Lectio – anche per i suoi contenuti – rappresenta sicuramente una sintesi matura ed approfondita dell’esperienze, degli studi e del pensiero di una intera vita. Trentin morirà il 23 agosto del 2007. Chi scrive non intende – non ne avrebbe la capacità – riassumere un discorso tanto ricco e significativo.

 

È il caso, però, di segnalare – quasi vent’anni dopo – alcuni passaggi che dimostrano come Trentin fosse arrivato ad intravvedere processi e sfide a cui i gruppi dirigenti sindacali di oggi non sanno dare risposte, se non quelle illusorie di ripristinare un passato ancorato ad antiche regole divenute, prima di tutto, incompatibili con i cambiamenti del lavoro. Con questo scritto non intendo contrapporre un leader sindacale – che è entrato nella storia per rimanerci stabilmente insieme a pochi altri – ai sindacalisti della stagione “del nostro scontento”; mi limito soltanto ad invitarli ad una proficua lettura della Lectio. La prima segnalazione, con tanto di nomi e di titoli dei saggi in voga negli anni ‘80, riguardava una severa presa di posizione di Bruno nei confronti di coloro definiti, “profeti di sventura”, intenti a preconizzare la “fine del lavoro”.  Secondo Trentin, invece: “Non di fine del lavoro si trattava, ma, paradossalmente, nella fase in cui si succedevano i processi di ristrutturazione e di licenziamento di massa, di un’espansione su scala mondiale di tutte le forme di lavoro, a cominciare da quello subordinato e da quello salariato, con un ritmo che non era stato mai raggiunto in passato. Non di fine del lavoro come entità e come valore si trattava, ma di un cambiamento del lavoro e dei rapporti di lavoro e del ruolo che il lavoro svolgeva nell’economia e nelle società dei paesi coinvolti nei processi di mondializzazione”. In sostanza, non una disfatta, ma una sfida; non un disegno perverso del capitalismo, ma le nuove ragioni dell’economia, che non erano neutrali né oggettive, ma inevitabili ancorché passibili di un indirizzo alternativo a quello impresso dai poteri dominanti. Da qui il discorso approdava ai problemi della c.d. flessibilità, la “bestia nera” del sindacalismo tolemaico.

 

“L’uso flessibile delle nuove tecnologie, il mutamento che ne discende nei rapporti fra produzione e mercato, la frequenza del tasso di innovazione e l’invecchiamento rapido delle tecnologie e delle competenze, la necessità di compensarle con l’innovazione e la conoscenza, la responsabilizzazione del lavoro esecutivo per garantire la qualità dei risultati – secondo Trentin –  faranno, infatti, del lavoro stesso, almeno nelle attività più innovative, il primo fattore di competitività dell’impresa”. È bene però distinguere – era questa la raccomandazione – la flessibilità del lavoro come ideologia e la flessibilità del lavoro come realtà. L’introduzione delle nuove tecnologie dell’informatica e delle comunicazioni, con i mutamenti dei rapporti fra domanda e offerta derivanti dal loro uso sempre più flessibile e adattabile, la rapidità e la frequenza dei processi di innovazione, con la conseguente obsolescenza delle conoscenze e delle competenze, imponevano senza alcun dubbio, come imperativo legato all’efficienza dell’impresa, un uso flessibile delle forze di lavoro e una grande adattabilità del lavoro agli incessanti processi di ristrutturazione, che tendevano a diventare non più una patologia ma una fisiologia dell’impresa moderna. Quest’adattabilità – sta scritto nella Lectio – può realizzarsi in due modi: o con un arricchimento e una riqualificazione costante del lavoro e con una mobilità sostenuta da un forte patrimonio professionale, oppure con un ricambio sempre più frequente della mano d’opera occupata o di quella parte che non ha avuto alcuna opportunità di aggiornamento e di qualificazione. E per la maggior parte dei casi, almeno in Italia, di questo tipo di flessibilità si trattava. Intendiamoci bene – ammetteva Trentin – con questo la flessibilità del lavoro non cessa di essere un imperativo per l’impresa, anche se non esiste come patrimonio individuale della persona che lavora”.

 

Dopo aver introdotto la questione del mutamento dell’oggetto del contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato (non più solo la messa a disposizione di un tempo a fronte di una retribuzione, ma di un risultato) Trentin individuava una  possibile via d’uscita in un nuovo tipo di contratto di lavoro che potesse coinvolgere nei suoi principi fondamentali tutte le forme di lavoro subordinato o eterodiretto e tutta la giungla di contratti che prosperava con la deregolamentazione selvaggia del mercato del lavoro. Addirittura ammetteva la possibilità –  di fronte al venir meno della stabilità del posto di lavoro, e alla fine per molti lavoratori del contratto a tempo indeterminato (che era negli anni passati il contratto della grande maggioranza) –  di un diverso scambio fra un salario correlato ad una occupazione flessibile (sia all’interno di un’impresa che all’esterno, nel mercato del lavoro) e l’acquisizione da parte della persona del lavoratore di un’occupabilità, sostanziata da un investimento dell’impresa, del lavoratore e della collettività in una formazione permanente ed in una politica di riqualificazione, capace di garantire, in luogo del posto fisso, prima di tutto un’occasione di mobilità professionale all’interno dell’impresa e, in ogni caso, una nuova sicurezza che accompagnasse il lavoratore, consentendogli, dopo un’esperienza lavorativa di affrontare in condizioni migliori, di maggiore forza contrattuale, il mercato del lavoro.

 

Si può riflettere ancora – proseguiva – sul modo in cui riconoscere alla persona concreta, che diventava un soggetto responsabile e quindi attivo e non passivo del rapporto di lavoro, un diritto “allo sguardo”, cioè all’informazione, alla consultazione e al controllo sull’oggetto del lavoro (il prodotto, l’organizzazione del lavoro, il tempo di lavoro, il tempo di formazione e il tempo disponibile per la vita privata) di cui essa è chiamata a rispondere, nel risultato di un’attività che non è più cieca ed irresponsabile. Non costituirebbe – si domandava Trentin – forse questo tipo di partecipazione dei singoli o dei gruppi un modo di estendere le forme orizzontali e multidisciplinari di organizzazione del lavoro, con la partecipazione formata ed informata di un numero crescente di operatori? E non si riprodurrebbe, forse, in questo modo, la necessità di intrecciare l’attività lavorativa con l’attività formativa e con l’attività di ricerca e di costruire forme di organizzazione del lavoro capaci di apprendere, di rispondere ai nuovi imperativi della conoscenza e di diventare, quindi, organizzazioni che creano conoscenza?  Ecco dunque l’idea di un “nuovo contratto sociale” inclusivo di un welfare effettivamente universale, che consentisse l’accesso ai servizi sociali fondamentali, a cominciare dalla scuola e dalla formazione. Queste considerazioni venivano svolte da Bruno Trentin nel 2002. Ci vorranno diversi anni perché nel contratto del 2016, i metalmeccanici inseriscano il diritto alla formazione (Trentin nella Lectio aveva ricordato l’esperienza delle 150 ore per il diritto allo studio; una conquista dei metalmeccanici nel contratto del 1972, ai tempi della sua direzione).

 

Proseguendo, Bruno affrontava “un’altra sfida che richiama in causa il rapporto fra lavoro e conoscenza”: la questione demografica. “La popolazione invecchia rapidamente in Europa e particolarmente in Italia. Nel 2004 – scriveva – la classe di età dei 55-65 anni sorpasserà, in quantità, la classe di età dei 15-25 anni. E cominciavano a porsi problemi rilevanti sia per garantire la salute e l’assistenza delle persone più longeve che per garantire un reddito decoroso per i pensionati.  Pertanto – proseguiva – la sola strada, difficile ma percorribile, stava nell’aumento della popolazione attiva, in grado di finanziare lo Stato sociale. Ma questa – osservava criticamente – era ferma in Italia al 50% della popolazione totale, contro il 72-75% dei paesi nordici. Un tale sforzo comportava certamente l’aumento dell’occupazione femminile e di un’immigrazione sempre più qualificata.  Ma, già allora, a Trentin sembrava ineludibile la promozione di un invecchiamento attivo della popolazione, con l’aumento volontario ma incentivato, dell’occupazione dei lavoratori anziani e quindi dell’età pensionabile. E questa era per lui la prospettiva, con la progressiva scomparsa della pensione di anzianità. Fino a quel momento i lavoratori ultra 55enni erano infatti occupati in Italia solo nella misura del 35% contro il 70% dei paesi scandinavi. L’aumento della popolazione attiva anche per i lavoratori anziani appariva quindi come la sola alternativa alla riduzione della tutela pensionistica universale.

 

Da quel giorno di settembre 2002, nello scenario di Ca’ Foscari – lo ricordavo all’inizio – sono trascorsi anni “pesanti”, per tutti, anche per i sindacati. Ma ben pochi hanno fatto tesoro di quella Lectio di un grande Maestro. La maggioranza dei dirigenti sindacali – si veda la piattaforma unitaria sulle pensioni – è ancora impegnata a pettinare le bambole.

 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

 

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