Le parole del lavoro: un glossario internazionale/19 – La nozione di disabilità nel contesto italiano e internazionale

La nozione di disabilità è un concetto non universale e in costante evoluzione, che cambia a seconda del contesto di riferimento. Dare una definizione di disabilità è tuttavia imprescindibile, poiché da ciò dipendono i tipi di intervento che vengono realizzati per la promozione e protezione dei diritti delle persone definite disabili e “utilizzare termini impropri e fare confusioni linguistiche può essere un modo per aumentare la disabilità, invece che ridurla” (A. Canevaro, Le parole che fanno la differenza, Roma, 2000). Molto spesso si assiste all’utilizzo improprio dei termini disabile, handicappato, invalido.
Per meglio comprendere il significato del termine occorre analizzare l’evoluzione storica del concetto tanto a livello nazionale quanto sovranazionale. La disabilità è infatti una condizione che non coinvolge soltanto le limitazioni nelle funzioni fisiche e mentali di un individuo, ma anche i fattori ambientali e culturali che lo circondano (ISTAT, La disabilità in Italia, Roma, 2009).
 
Nell’ambito del dibattito dottrinale sull’accezione assegnata alla disabilità, si ritiene che essa venga comunemente intesa come sinonimo di menomazione, cioè una perdita o anomalia strutturale o funzionale che afferisce al fisico, alla mente, ai sensi. Si tratta di uno scostamento dalla media della normalità valutabile con logiche sanitarie. Essa riguarda e risiede esclusivamente nella persona che ne è affetta. Gran parte del corpus normativo ricalca tale accezione che assume la forma del paradigma, ossia del modello interpretativo della realtà.
 
Con il termine invalidità, handicap e disabilità ci si riferisce a status diversi. Le leggi italiane che si sono succedute nell’ultimo trentennio, hanno però creato spesso confusione terminologica in particolare con riferimento al concetto di disabilità di cui non esiste un’unica ed uniforme definizione.
 
L’invalidità è la difficoltà a svolgere alcune funzioni tipiche della vita quotidiana o di relazione a causa di una menomazione o di un deficit fisico, psichico o intellettivo, della vista o dell’udito. L’esatta definizione di legge risale al 1971, legge n. 118/1971, ed è disciplinata all’articolo 2: «si considerano mutilati e invalidi civili i cittadini affetti da minorazione congenita e/o acquisita (comprendenti) gli esiti permanenti delle infermità fisiche e/o psichiche e sensoriali che comportano un danno funzionale permanente, anche a carattere progressivo, compresi gli irregolari psichici per oligofrenie di carattere organico o dismetabolico, insufficienze mentali derivanti da difetti sensoriali e funzionali che abbiano subito una riduzione permanente della capacità lavorativa non inferiore a un terzo, o se minori di anni 18, che abbiano difficoltà persistenti a svolgere i compiti e le funzioni proprie dell’età». L’invalidità è civile quando non deriva da cause di servizio, di guerra o di lavoro.
 
I termini disabilità ed handicap sono e sono stati utilizzati alla stregua di sinonimi. A livello giuridico il concetto di disabilità si riconduce alla legge n. 104/1992, la quale all’articolo 3, comma 1, utilizza il termine “persona handicappata” – e non disabile – che definisce come «colui che presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione». Tale nozione, pone l’accento sugli elementi che condizionano in negativo la vita della persona, ossia le minorazioni e lo svantaggio sociale che ne deriva. In questa definizione non viene tuttavia preso in considerazione l’ambiente nel quale la persona con disabilità vive e interagisce ed in rapporto al quale devono essere valutate le menomazioni.
 
Con la legge n. 68 del 1999, “Norme per il diritto al lavoro dei disabili”, è stata introdotta una definizione di disabilità a fini lavorativi. L’articolo 1 dà una definizione di aventi diritto, che la dottrina ritiene selettiva e niente affatto innovativa, poiché ripropone come disabili gli invalidi civili, del lavoro e di altra causa che rientrano in certe percentuali di invalidità stabilite dalla medesima legge, senza però dare ulteriori e specifiche definizioni. La legge n. 68/1999, utilizzando il termine “disabile” e non più “invalido” come faceva invece la precedente legge n. 482/1968, ha optato per un concetto dalla connotazione meno negativa rispetto al termine “invalido” selezionando un vocabolo che rimandasse alle abilità della persona, aprendo la strada ad un’interpretazione moderna della disabilità e allineandosi così al dibattito internazionale.
 
A livello sovranazionale, un ruolo di primaria importanza nella definizione di “persona disabile” è svolto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), che attraverso i sistemi di classificazione ha il compito di garantire la comparabilità delle informazioni di salute nei e tra i Paesi, tra gli utenti e gli addetti specializzati. L’OMS per cercare di ovviare al problema definitorio, nel 1980, ha messo a punto un primo sistema di classificazione internazionale, l’International Classification of Impairments, Disabilities and Handicaps (ICIDH), nel quale distingueva tre concetti tra loro interdipendenti ossia, la menomazione, la disabilità, l’handicap. In base a questa classificazione la menomazione veniva definita come la perdita di una funzione psicologica, fisiologica o anatomica, la disabilità come la limitazione della capacità (conseguente a menomazione) di compiere un’attività in modo normale per un essere umano e, infine con handicap, la condizione di svantaggio (conseguente a menomazione o disabilità) che limita l’adempimento di un ruolo in relazione all’età, al sesso e ai fattori socioculturali. Tra i limiti di questa classificazione, è stato evidenziato il fatto che il modello di disabilità era consequenziale: la presenza di una malattia comportava una menomazione, una disabilità ed un handicap. Le numerose critiche e revisioni di questo modello hanno portato l’OMS nel 2001 all’adozione di una nuova classificazione, l’International Classification of Functioning, Disability and Health (ICF). Con l’ICF si realizza una rivoluzione nella definizione e quindi nella percezione della salute e della disabilità. L’ICF classifica la salute e gli stati di salute correlati prendendo in considerazione tre differenti prospettive: il corpo, la persona e la persona in un contesto (fisico, sociale, attitudinale, ecc…), definendo la disabilità come “la conseguenza o il risultato di una complessa relazione tra la condizione di salute di un individuo e i fattori personali e ambientali che rappresentano le circostanze in cui vive l’individuo” (WHO, World Report on Disability, 2011).
 
Tra le fonti internazionali contenenti una definizione di disabilità è opportuno ricordare la Convenzione OIL n. 159 del 1983, sul reinserimento professionale delle persone disabili, non ratificata dall’Italia, la quale all’articolo 1 dà una definizione di disabilità particolarmente restrittiva poiché si riferisce soltanto alle persone affette da handicap fisico o mentale formalmente riconosciuto, in più richiede che la difficoltà di tali persone nel mercato del lavoro sia di notevole entità. I tre elementi, l’handicap, il formale riconoscimento e la notevole entità, a cui fa riferimento la Convenzione, costituiscono in realtà criteri di esclusione dal novero dei soggetti destinatari delle misure contenute nella Convenzione stessa.
 
La Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità del 2006 ha introdotto una definizione di disabilità (Preambolo, lettera e) e di persona disabile (articolo 1, comma 2) rivoluzionarie rispetto al passato ed espressione dei principi fondamentali sui quali si basa la Convenzione che definisce le persone disabili «quanti hanno minorazioni fisiche, mentali, intellettuali o sensoriali a lungo termine che, in interazione con varie barriere possono impedire la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su una base di eguaglianza con gli altri». Tale definizione è assai più ampia e consente di stabilire che le minorazioni, intese come possibili differenze, non necessariamente implicano l’insorgere dell’handicap; quest’ultimo, si produce in relazione alle condizioni esterne che impediscono alla persona di vivere nella società in condizioni di uguaglianza, vale a dire in relazione alle barriere che queste incontrano, che possono essere di natura comportamentale oppure ambientali.
 
La Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità è il primo strumento giuridico vincolante nell’ambito dei diritti umani ratificato dall’Unione europea che si applica in tutti gli Stati membri. Grazie alla Convenzione ONU, a livello comunitario, è stato colmato un vuoto definitorio poiché, non esiste una nozione di disabilità condivisa tra gli Stati membri. Tale Convenzione ha contribuito a diffondere un concetto moderno di disabilità, come condizione che si misura e si produce non tanto a priori, quanto piuttosto nel rapporto e nelle interazioni tra la persona con minorazioni e le condizioni ambientali in cui essa è chiamata ad operare.
 
Alessandra Innesti
Scuola internazionale di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro
ADAPT-CQIA, Università degli Studi di Bergamo
@AInnesti 
 
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