Le contraddizioni del welfare aziendale: analisi di un caso pratico

Il tempo del “welfare dei colossi” è scaduto in una Regione come il Veneto in cui il numero delle PMI sfiora le cinquecentomila unità. Per la patria del famoso “modello Luxottica”, un “protocollo” di buone prassi di welfare aziendale, seguito da molte grandi realtà imprenditoriali del territorio nazionale, si rende necessario un radicale cambiamento. La svolta buona è arrivata a luglio, quando una piccola impresa di Mira, di soli quaranta dipendenti, ha inaugurato una nuova fase di welfare aziendale adatta per le imprese di piccola dimensione.
 
Indagare su quelle che sono le conseguenze legate all’implementazione dei piani di welfare significa richiamare le disposizioni del Testo Unico sulle Imposte dei Redditi, nonché le numerose istanze di interpelli, circolari e risoluzioni dell’Agenzia delle entrate, al fine di fornire una corretta e puntuale interpretazione delle norme. In tal senso il compito dei consulenti è cruciale, specie se si pensa alla valorizzazione di questi strumenti e alla loro contabilizzazione nei cedolini paga; operazioni che diventano via via sempre più usuali. Nel Veneto, ad esempio, da luglio la Regione continua a studiare e a sviluppare misure di welfare per aziende di piccole dimensioni. Pochi giorni fa Confindustria di Verona e “Iper, la grande I”, marchio del gruppo della grande distribuzione “Finiper”, hanno reso disponibile la promozione di una card di 258 euro per i lavoratori impiegati nelle imprese associate a Confindustria Verona.
 
Volendo utilizzare il “glossario” del welfare aziendale, detta card viene a configurarsi come un fringe benefit non tassabile per rispetto del limite della “franchigia”, poiché facente parte della categoria dei “buoni rappresentativi di merce” ex art. 51 comma 3 del TUIR. Questo significa che detta remunerazione non sarà imponibile ai fini IRPEF e completamente deducibile sia ai fini IRES che ai fini IRAP. In altre parole, la card in parola, sia per il suo importo inferiore al tetto massimo di 258,23 euro, sia per la sua natura, rappresenta un’eccezione al principio di “onnicomprensività” disposto dal TUIR, principio secondo il quale il dipendente nella determinazione del suo reddito deve necessariamente tener conto anche della quota parte di retribuzione erogata, durante il periodo di imposta, ai dipendenti e ai loro familiari sotto forma di beni e servizi.
 
A tal proposito preme richiamare la circolare dell’Agenzia delle entrate n. 59/E del 22 ottobre 2008, la quale chiarisce cosa si intende per erogazioni liberali in natura sotto forma di beni e servizi o di buoni rappresentativi degli stessi. Secondo quanto disponeva l’art. 2, comma 6, del decreto legge n.92 del 2008, articolo che ha soppresso la previsione di cui all’art. 51, comma 2, lettera b), del TUIR, le erogazioni liberali effettuate dal datore di lavoro e taluni sussidi economici dallo stesso concessi erano esclusi dalla base imponibile ai fini dell’imposta sul reddito di lavoro dipendente.
 
Oggi, con l’abrogazione della disposizione agevolativa relativa alle liberalità, le stesse, ove siano erogate in natura (sotto forma di beni o servizi o di buoni rappresentativi degli stessi) possono rientrare nella previsione di esclusione dal reddito se di importo non superiore, nel periodo di imposta, a 258,23 euro. Ai sensi del sopra citato comma 3 dell’art. 51, peraltro, l’esclusione dal reddito opera anche se la liberalità è erogata ad un solo dipendente non essendo più richiesto che l’erogazione liberale sia concessa in occasione di festività o ricorrenze alla generalità o a categorie di dipendenti, fermo restando che se il valore in questione è superiore a detto limite, lo stesso concorre a formare reddito.
 
Pacifico appare far rientrare la card in parola tra i buoni rappresentativi di beni e servizi, se non fosse che in alcuni risalenti pronunciamenti di prassi, riferiti ai buoni carburante e alla loro disciplina ai fini dell’imposta sul valore aggiunto, l’Amministrazione finanziaria assimila tali buoni sic et simpliciter al denaro (Circolare 30/E del 1° agosto 1974 e Circolare n. 27/E del 9 agosto 1976). L’Amministrazione ha ritenuto che il regime IVA applicabile alla cessione dei buoni fosse quello disposto per il denaro, in quanto la cessione di tali beni rientrerebbe comunque tra “le cessioni che hanno per oggetto denaro o crediti in denaro” ai sensi dell’art. 2, comma 3, lett. a), del DPR 26 ottobre 1972, n. 633.
 
Tale interpretazione, se traslata ai fini della determinazione del reddito di lavoro dipendente, non permetterebbe ai buoni in questione di beneficiare della franchigia di 258,23 euro prevista dal Tuir. Infatti, sono escluse dal particolare regime previsto dalla lettera f), comma 2 dell’art. 51, le erogazioni di somme di denaro, anche indirette, da parte del datore di lavoro che possano consistere in rimborsi o anticipazioni di spese sostenute dal dipendente. L’esenzione è, infatti, riferibile unicamente alle erogazioni in natura e non si estende alle erogazioni sostitutive in denaro.
 
A questo punto la contraddizione è palese dato che l’Agenzia delle entrate tratta lo stesso strumento in maniera completamente diversa, a seconda che si tratti di imponibilità del reddito di lavoro dipendente e di imponibilità ai fini IVA. In altri termini, se da una parte la card rientra tout court nella fattispecie dei beni e servizi, dall’altra parte è l’equivalente del denaro, con la conseguenza che sia il dipendente che il datore di lavoro decadrebbero da tutti i benefici fiscali.
 
Quindi, un caso apparentemente semplice e scontato potrebbe sollevare grandi dubbi e perplessità che non pochi imprenditori hanno presentato. Infatti, nel 2011 all’Agenzia delle entrate arrivò un interpello volto a chiarire il trattamento di un budget figurativo, offerto ai dipendenti, operante su un circuito elettronico. Si chiedeva se la somma concessa ai dipendenti per la libera fruizione di un determinato paniere di prestazioni di servizi, dovesse configurarsi come titolo di credito. L’Agenzia delle entrate si pronunciò positivamente nei confronti dell’imprenditore, osservando che l’impiego di un budget figurativo, pur operando su un circuito elettronico, non rappresentasse un titolo di credito, consentendo di individuare in tempo reale il lavoratore che attivava servizi previsti dal Piano.
 
Questa interpretazione si estende ovviamente anche alla card Insieme, anche se preme sottolineare che sono tante le latenti contraddizioni che giacciono ancora irrisolte tra i fascicoli della nostra Amministrazione finanziaria.
 

Carmen Di Stani

Scuola internazionale di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro

ADAPT-CQIA, Università degli Studi di Bergamo

@Carmendst89

 

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