L’abrogazione dei voucher e l’impatto sul mercato del lavoro

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L’abrogazione dei voucher disposta dal d. l. n. 25/2017 convertito in Legge n. 49/2017 è stato il culmine di una tensione anche esasperata sul tema.

Certamente la scelta inaspettata del legislatore è stato un rimedio (forse) drastico per rispondere ad una precarizzazione del mondo del lavoro cui i voucher hanno rappresentato il simbolo, anche per l’allargamento delle maglie attuato nel tempo dal legislatore che ha reso meno evidente per l’istituto  la funzione di lotta al lavoro sommerso, per cui erano stati introdotti dal d.lgs.n. 276/2003, per una platea ristretta di soggetti: studenti, casalinghe, disoccupati di lunga durata e disabili e per attività occasionali come le ripetizioni o l’assistenza alle famiglie, agli anziani ed ai disabili.  Di fatto però le previsioni contenute nel d.lgs. n. 276/2003 sono rimaste inattuate fino all’ agosto 2008 quando è partita la sperimentazione per le vendemmie.

 

Da allora assistiamo ad una apertura delle maglie per i voucher, in particolar modo con la Legge n.92/2012 che ha escluso ogni vincolo nell’impiego dei voucher e con il d.lgs. n. 81/2015 sul riordino delle tipologie contrattuali, che ne ha innalzato il limite economico nell’utilizzo da 5 mila a 7 mila euro nei confronti dei committenti imprenditori o professionisti.

Successivamente non è bastato il d.lgs. n. 185/2016 che ha favorito la tracciabilità per le prestazioni di lavoro accessorio, con la previsione di una comunicazione almeno 60 minuti prima dell’inizio della prestazione alla sede territoriale competente dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro, da parte dei committenti imprenditori non agricoli e professionisti, poiché la disposizione è leggermente diversa per i committenti imprenditori agricoli.

 

Il Governo ha infatti emanato il d.l. n. 25/2017 che contiene disposizioni urgenti per l’abrogazione delle disposizioni in materia di lavoro accessorio nonché per la modifica delle disposizioni sulla responsabilità solidale in materia di appalti, entrato immediatamente in vigore lo stesso 17 marzo dopo la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, con la previsione di un periodo transitorio fino al 31 dicembre prossimo per i buoni lavoro richiesti entro il 17 marzo.

La conversione in legge del d.l. 25/2017 è avvenuta senza modificazioni  con la legge 20 aprile 2017 n. 49 che è stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 94 del 22 aprile 2017; certamente l’abrogazione dei voucher non può cancellare la domanda nel mercato del lavoro che coprono  le esigenze di lavoro occasionale, o quelle di lavoro accessorio, o di breve durata ed è necessario partire dalle definizioni perché ci aiutano a capire l’ambito di applicazione dei voucher e come intervenire per colmare il vuoto che l’abrogazione degli stessi ha lasciato nel mercato del lavoro.

In effetti con il tempo il lavoro accessorio è andato a coprire varie domande di lavoro: dai piccoli lavoretti come le ripetizioni private o l’assistenza alle famiglie, molto diversi dai “lavori strutturati” che possono arrivare fino ad un reddito di 7000 euro nei confronti dei committenti imprenditori o professionisti. Le esigenze sono molteplici ed il mercato di riferimento è diverso: quello stagionale come ad esempio in agricoltura, o quello secondario inerente al ciclo produttivo, oppure ancora nei servizi o nel terziario, o nel terziario avanzato.

Innanzitutto quindi bisogna distinguere l’ampio ambito delle prestazioni di lavoro che i voucher andavano a coprire: sia le prestazioni di lavoro accessorio, ma anche quelle di lavoro occasionale e di breve durata ed individuare le alternative che possono essere idonee, facendo un distinguo per le imprese e le famiglie.

 

Attualmente per le imprese il “rimedio” ai voucher più opportuno è il lavoro a chiamata, il cc.dd. job on call, anche se il contratto ha una serie di limitazioni che ne rendono difficile e non agevole il perfezionamento. Infatti partendo dai requisiti soggettivi, il contratto può essere stipulato solamente con soggetti con meno di 24 anni, ma le prestazioni a chiamata devono concludersi entro il compimento del 25 anno di età, e con soggetti con più di 55 anni di età. In mancanza del CCNL i casi di utilizzo del lavoro intermittente sono fissati con uno specifico decreto ministeriale. In riferimento ai limiti di durata, il contratto di lavoro intermittente ad eccezione dei settori del turismo, dei pubblici esercizi e dello spettacolo può essere ammesso invece, per ciascun lavoratore con lo stesso datore di lavoro per un periodo non superiore a 400 giornate lavorative nell’arco di tre anni. In caso di superamento di questo periodo, “il relativo rapporto si trasforma in un rapporto di lavoro a tempo pieno e indeterminato”. Nei periodi in cui non è utilizzata la prestazione, il lavoratore intermittente non matura alcun trattamento economico e normativo, a meno che non abbia garantito al datore di lavoro la propria disponibilità a rispondere alle chiamate ed in tal caso gli spetta l’indennità di partecipazione. Tali previsioni non si applicano, tuttavia, ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni. Inoltre divieti restringenti sono previsti nell’utilizzo del lavoro a chiamata ai sensi dell’art. 14 del d.lgs. n. 81/2015, per la sostituzione di lavoratori che esercitano il diritto di sciopero; se l’unità produttiva ha effettuato, entro i sei mesi precedenti, licenziamenti collettivi, sospensioni del lavoro o una riduzione dell’orario in regime di cassa integrazione guadagni che interessano lavoratori adibiti alle mansioni cui si riferisce il contratto di lavoro intermittente; ai datori di lavoro che non abbiano effettuato la valutazione dei rischi in applicazione della normativa in materia di tutela della salute e sicurezza dei lavoratori.

 

Inoltre il contratto di lavoro intermittente ha una serie di previsioni in riferimento alla forma, infatti è stipulato in forma scritta ai fini della prova per i seguenti elementi: durata ed ipotesi oggettive e soggettive per la stipulazione del contratto, luogo e modalità della disponibilità, quando è garantita dal lavoratore e dal relativo preavviso di chiamata del lavoratore, che non può essere inferiore ad un giorno lavorativo; trattamento economico e normativo spettante al lavoratore per la prestazione eseguita e la consequenziale indennità di disponibilità prevista; forme e modalità con cui il datore di lavoro è legittimato a richiedere l’esecuzione della prestazione di lavoro, nonché modalità di rilevazione della prestazione; tempi e modalità di pagamento della retribuzione e della indennità di disponibilità, misure di sicurezza necessarie, in riferimento al tipo attività dedotta in contratto.

Inoltre a meno che non ci siano delle previsioni più favorevoli previste nei contratti collettivi, il datore di lavoro ha l’onere di informare ogni anno le rappresentanze sindacali aziendali o la rappresentanza sindacale unitaria sull’andamento del ricorso al contratto di lavoro intermittente. Un altro onere di comunicazione per il datore di lavoro previsto dall’art 15, comma 3 del d.lgs. n. 81/2015 è quello secondo cui, prima dell’inizio della prestazione lavorativa o di un ciclo integrato di prestazioni che non durino più di 30 giorni, il datore di lavoro è tenuto a comunicare la durata alla direzione territoriale del lavoro competente per territorio, mediante sms o posta elettronica. La sanzione amministrativa nel caso in cui non vengano ottemperati i predetti obblighi di comunicazione va da 400 euro a 2400 in relazione a ciascun lavoratore per cui è stata omessa la comunicazione, ma non si applica la diffida ex art. 13 del d.lgs. n.124/2004.

 

Anche l’indennità mensile di disponibilità, con l’art. 16 del d.lgs. n. 81/2015, stabilisce che la misura della stessa, divisa per quote orarie, è determinata dai contratti collettivi e non è comunque inferiore all’importo fissato con decreto del MLPS, sentite le associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale ed è esclusa dal computo di ogni istituto di legge o di contratto collettivo, ma assoggettata a contribuzione previdenziale per il suo effettivo ammontare, in deroga alla normativa in materia di minimale contributivo.

 

Oneri e adempimenti sono previsti anche per il lavoratore che in caso di malattia o di altro evento che gli renda temporaneamente impossibile rispondere alla chiamata, è tenuto a informarne tempestivamente il datore di lavoro, specificando la durata dell’impedimento, durante il quale non matura il diritto all’indennità di disponibilità. L’inadempimento della comunicazione ha un effetto significativo per il lavoratore, perché se non informa il datore perde il diritto all’indennità per un periodo di 15 giorni, salvo diversa previsione del contratto individuale. Il rifiuto ingiustificato di rispondere alla chiamata può costituire motivo di licenziamento e comportare la restituzione della quota di indennità di disponibilità riferita al periodo successivo al rifiuto.

 

Quanto alla retribuzione, per il contratto a chiamata, il lavoratore deve ricevere “per i periodi lavorati e a parità di mansioni svolte” un trattamento economico e normativo analogo a quello di un lavoratore di pari livello, anche se questo è assunto con un contratto diverso. Lo stesso discorso vale per le ferie e per i trattamenti di malattia, infortunio, congedo di maternità e parentale; coerentemente con il principio di non discriminazione con cui viene rubricato l’art. 17 del d.lgs. n. 81/2015, il lavoratore intermittente è computato nell’organico dell’impresa in proporzione all’orario di lavoro effettivamente svolto nell’arco di ciascun semestre, ai fini dell’applicazione di qualsiasi disciplina di fonte legale o contrattuale per la quale sia rilevante il computo dei dipendenti da parte del datore di lavoro.

 

Dall’analisi sul contratto di lavoro intermittente si deduce che la disciplina attuale prevede una serie di limitazioni, divieti ed oneri sia per il lavoratore che per il datore di lavoro che non ne rendono agevole e rapida l’attivazione, come era certamente per le prestazioni di lavoro accessorio. Il legislatore tuttavia prevede di effettuare una semplificazione per il contratto di lavoro intermittente che lo renda semplice per il perfezionamento e la gestione e auspichiamo che  l’obiettivo possa realizzarsi  prima del periodo estivo dove si fa più intensa per le imprese la necessità di un’alternativa ai voucher, altrimenti si ravvisa più probabile la possibilità che le stesse optino per il lavoro irregolare, oppure  per lo  strumento dei tirocini, che si presta a molteplici forme di utilizzo illegittimo, perché non legato agli scopi formativi che sono propri della tipologia formativa e di orientamento, o a quelli di politica attiva che riguardano invece i tirocini per l’inserimento al lavoro.

Un’ altra alternativa alle prestazioni di lavoro accessorio potrebbero essere le collaborazioni, sia quelle stipulate con i contratti co.co.co, oppure a partita Iva, sempre che le caratteristiche del rapporto siano confacenti a tali previsioni e sempre che le collaborazioni siano svincolate dai canoni del lavoro subordinato e da quelli della etero-organizzazione indicata nel Jobs Act.

E’ da considerare, tuttavia, da una lettura dei dati Inps[1] che la maggioranza degli utilizzatori dei voucher, ovvero il 63% del totale nell’anno 2015, ha riguardato categorie come disoccupati, pensionati o come seconda occupazione che andavano a coprire una domanda rappresentata da piccoli lavoretti per esigenze saltuarie del mercato del lavoro e non invece “lavori più strutturati” legati al ciclo produttivo.

 

Diverso è il riferimento dell’utilizzo dei voucher nelle famiglie ed in tal senso non si è riusciti in Italia, a differenza  di altri contesti comparati come il Belgio e la Francia, a legare i voucher ad una rete di accompagnamento e assistenza dei servizi di prossimità alle famiglie, ma piuttosto sono stati lasciati alla libera contrattazione individuale, che ne ha favorito un utilizzo illegittimo, specialmente in questo particolare contesto che necessita di una rete di sostegno per favorire l’utilizzo dei buoni lavoro che sarebbero invece molto utili e appropriati per il settore.

Un ultimo punto di criticità da sottolineare, che ha contribuito a far sì che il lavoro accessorio abbia avuto un utilizzo che si è prestato anche a fenomeni di distorsione e che è imprescindibile perché il legislatore possa fare scelte ponderate e ragionevoli calate sulle reali necessità del mercato del lavoro,  è la mancanza di dati certi e strumenti tecnici e di monitoraggi per  un riscontro effettivo sull’andamento dei fenomeni giuslavoristici, in modo da favorire proprio scelte legislative più appropriate ed efficaci, secondo le effettive esigenze del mercato del lavoro ed anche più tempestive per correggere gli andamenti patologici dei fenomeni e salvaguardare invece gli aspetti virtuosi che gli istituti hanno avuto nel mercato del lavoro.

 

Silvia Donà

Ricercatrice Fondazione Studi dei Consulenti del lavoro – Roma

 

[1] B. Anastasia, S. Bombelli, s.  Maschio, Il lavoro accessorio dal 2008 al 2015. Profili dei lavoratori e dei committenti. WorkINPS Papers, settembre 2016 No. 2, punto 4.6, pagg. 23-30.

 

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