Jobs Act e Flexicurity, l’ennesima occasione mancata?

È una mattinata primaverile quella del 13 gennaio; il sole illumina una capitale accogliente e generosa. L’atmosfera è preziosa, tipica dei luoghi senza tempo, da attraversarsi cauti, col timore di danneggiare tante e così grandi bellezze. Così, come se vi fosse un costo per ogni colonnato, immaginando che per ogni arco rubato ad epoche passate, la città eterna debba pagare un caro prezzo a suon di inchieste, cattive notizie e scandali, i nuovi dati sulla disoccupazione rendono Roma la splendida capitale di un’economia malata. Ed è con quest’animo che ci si ritrova nella città eterna per discutere di una riforma del lavoro finalizzata ad accrescere l’occupazione e la produttività, ma soprattutto nata con l’intento di associare flessibilità e sicurezza sociale, in nome di quella flexicurity che ha reso tanto efficienti le economie del Nord Europa.
 
Franco Carinci, avvocato di Felsina Labour Lawyers, delimita l’ambito del proprio intervento al contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, invitando subito a non parlare di “riscrittura” del vecchio articolo 18 ma di vera e propria creazione un “nuovo regime” a «tutele decrescenti» per i neo-assunti, paventando il rischio di determinare un’inedita coabitazione tra due distinte categorie di lavoratori; molto probabilmente incostituzionale. Tralasciando il licenziamento discriminatorio, ove permane la reintegra, il nuovo regime introduce un’indennità predeterminata a favore del lavoratore in caso di licenziamento ingiustificato. Ed è proprio sulla natura «rigida» di quest’ultima e sul venir meno della rilevanza delle sanzioni conservative presenti nei codici disciplinari – solo l’inesistenza del fatto condurrà alla reintegra nei licenziamenti disciplinari – che si concentra l’illustre professore. Tale impostazione, rileva Carinci, testimonia una diffidenza nei confronti della magistratura, alla quale viene sottratta la tradizionale discrezionalità in fase di valutazione del fatto e quantificazione dell’indennizzo spettante al lavoratore. Infine, conclude il professore «è proprio su questo punto che dovrebbero concentrarsi le mozioni sindacali, al fine di impedire che un qualsiasi inadempimento, seppur di modica entità, possa costituire il valido movente di un licenziamento».
 
Il secondo a prendere la parola è Giampiero Proia, ordinario di Diritto del Lavoro all’Università Roma Tre, il quale considera il Jobs Act, nella sua attuazione minimale, come una delle tappe di un più lungo processo di ammodernamento del diritto del lavoro italiano. Di fronte al mutato contesto economico e occupazionale, Proia reputa condivisibile la direzione intrapresa dal decreto delegato. Il professore afferma la conformità dei provvedimenti ai principi della legge delega, tuttavia, rivela la mancanza di una definizione dei termini certi per l’impugnazione del licenziamento. Con il Jobs Act, continua Proia, «l’articolo 18 diventa una disciplina ad esaurimento, destinata all’epilogo nell’esatto momento in cui anche l’ultimo dei dipendenti assunti sino al giorno prima dell’approvazione del decreto delegato, si ritirerà dal lavoro». Il relatore prosegue sottolineando che per beneficiare della reintegra in caso di licenziamento disciplinare sarà necessaria la diretta e piena dimostrazione dell’insussistenza del fatto da parte del lavoratore e che il richiamo al “fatto materiale”, facendo venire meno la rilevanza della componente psicologica e della gravità di quest’ultimo, inombra qualsiasi valutazione sulla proporzionalità tra fatto e licenziamento. Proia conclude ricordando che la presenza del fatto “materiale” potrebbe generare abusi da parte dei datori di lavoro, comportare problemi di funzionalità e, in ultima istanza, vanificare le buone intenzioni del legislatore.
 
La parola passa a Giuliano Cazzola del Comitato scientifico di Adapt, che riscontra ritardi nell’approvazione del Jobs Act e un pessimo coordinamento tra il contratto a tutele crescenti e i nuovi incentivi economici all’assunzione previsti dalla legge di Stabilità 2015. Quest’ultima, rispondendo all’esigenza governativa di favorire i consumi, ha concesso ai lavoratori la possibilità di includere il TFR in busta paga. Tuttavia, avverte Cazzola, questa manovra è stata accompagnata da un generale incremento della tassazione sui rendimenti della previdenza complementare. Il relatore denuncia, inoltre, la reintroduzione del pensionamento di anzianità fino a tutto il 2017 e il ripristino di una clausola di garanzia, in base alla quale nessuno potrà conseguire un trattamento superiore a quello che avrebbe percepito sulla base delle regole vigenti prima della riforma Fornero, e dunque con l’applicazione del calcolo retributivo. Da ultimo, sarà scorporato dalla pensione l’eventuale bonus derivante dall’applicazione del calcolo contributivo per coloro i quali siano già in quiescenza.
 
I lavori sono proseguiti con l’intervento del professor Francesco Verbaro, docente presso la Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione, il quale ha inteso mettere in luce le eventuali ricadute del Jobs Act sul lavoro pubblico. In primis si è reso inevitabile un agile inquadramento della questione, dal quale è apparsa chiara la confusione generatasi negli ultimi vent’anni a seguito dalla c.d. privatizzazione del rapporto di lavoro.  Difatti, alla luce dei numerosi e disordinati rinvii alla disciplina privatistica da parte di norme inerenti al pubblico impiego, ogniqualvolta – come sta avvenendo in questi giorni – ci si trovi innanzi a un intervento in ambito privatistico prende piede un più che legittimo dibattito riguardo l’applicabilità di quest’ultimo anche alla Pubblica Amministrazione. Per quanto concerne le novità trattate, il professor Verbaro ha ricordato che il Governo esclude la loro applicabilità al lavoro pubblico, impegnandosi ad apportare gli aggiustamenti necessari in una prossima normativa di riordino della Pubblica Amministrazione. Conseguentemente, il docente si è concentrato sul possibile contenuto di questa prossima azione di riordino, invitando il legislatore a impostare un’intelligente ricollocazione dei lavoratori delle provincie, ridurre l’attuale ricorso a forme di lavoro a tempo determinato, investire nello svecchiamento dei dipendenti pubblici e ad impegnarsi nell’individuazione di un nuovo percorso formativo della Pubblica Amministrazione, riportando quest’ultima alla sua funzione primaria di provider di servizi e non di employer di ultima istanza.
 
Flavia Pasquini, Vice-presidente Commissione di certificazione presso l’Università di Modena e Reggio Emilia, si è occupata di esporre al pubblico le novità inerenti la conciliazione tra lavoratore e datore di lavoro. Se da una lato, sottolinea la Pasquini, si è innanzi all’ennesimo apprezzabile, sebbene maldestro, tentativo di ridurre il contenzioso, pare chiaro che il nobile fine venga perseguito con mezzi inadatti. Difatti, a fronte di una palese «diffidenza nei confronti della magistratura del lavoro», permane nelle parole del legislatore un legame troppo forte con vecchie, e non del tutto funzionanti, soluzioni alternative. Il fatto che il datore di lavoro possa, offrendo al lavoratore un indennizzo esente da imposte e contributi, rivolgersi ad enti alternativi al giudice del lavoro è sicuramente un fatto positivo. Tuttavia, essendo le regole utilizzate dai vari enti di conciliazione le medesime del passato – ad esempio il codice di procedura civile – e non venendo meno l’ingombrante e costosa figura del “consulente di parte”, è improbabile che questa nuova forma di conciliazione risulti realmente appetibile agli occhi dei datori di lavoro. Da ultimo, anche Pasquini stigmatizza il gap riscontrabile tra l’impostazione del legislatore e le ultime evoluzioni del mondo del lavoro; «non è detto che il “nuovo” lavoratore sia interessato a una conciliazione con indennizzo ma del tutto priva di elementi quali la ricollocazione, l’assistenza nei trasferimenti e eventuali misure a favore della creazione di nuove famiglie».
 
Chiude gli interventi Michele Tiraboschi, Ordinario di Diritto del Lavoro presso l’Università di Modena e Reggio Emilia, il quale stigmatizza immediatamente l’indecisione del legislatore per quanto concerne l’istituto del contratto di ricollocazione e, più in generale, il tema della tanto sbandierata flexicurity. Se «i cardini della rivoluzione copernicana del riformatore sono produttività e occupabilità», come intende il Governo risolvere, dopo aver riformato l’art. 18, anche il secondo di questi due nodi? Una «lingua disonesta» appare quella del legislatore che, togliendo con una mano le vecchie tutele, non si occupa con l’altra di impostare un serio piano di ricollocazione dei lavoratori disoccupati, di sostegno e di supporto all’occupabilità. Difatti, è proprio quest’ultima la vera «scommessa del futuro», secondo Tiraboschi. Sfida rispetto alla quale l’Italia sembra in ritardo e impreparata; «vi è un cattivo utilizzo delle norme incentivo, scarsa attenzione alla formazione dei giovani, abuso dei tirocini a discapito dell’apprendistato, mancanza di risorse finanziarie adeguate e un atteggiamento di diffidenza verso la somministrazione e le agenzie per il lavoro». L’augurio per il futuro è che si possa passare dalle parole ai fatti, afferma il professore, evitando atteggiamenti di facciata, capaci di produrre solo grandi gap di tutela tra vecchi e nuovi lavoratori e esperienze svilenti quali Garanzia Giovani.
 
Al termine del convegno, grazie ai numerosi e ricchi spunti offerti, un’analisi del Jobs Act e dei relativi decreti delegati è possibile. La strada imboccata, verso la flexicurity, potrebbe essere quella giusta. Tuttavia, non pare potersi dire lo stesso del mezzo scelto per percorrerla; le politiche di ricollocamento e l’occupabilità sono i due grandi assenti. Sembra che l’Italia sconti per l’ennesima volta la mancanza di un piano economico e di riordino generale, riguardante anche la Pubblica Amministrazione, che indichi una direzione sostanziale, e non solo un metodo, verso la quale si intende andare. Senza questa importante premessa sarà sempre più difficile legiferare in modo ordinato ed efficiente, occupandosi anche di impostazioni programmatiche, e non solo emergenziali, i cui cardini siano: formazione, occupabilità, riordino del pubblico impiego, innovazione e, conseguentemente, crescita economica.
 
Dario Pandolfo
ADAPT Junior Research Fellow
@_1881
 
Ilaria Armaroli
ADAPT Junior Research Fellow
@ilaria_armaroli
 
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Jobs Act e Flexicurity, l’ennesima occasione mancata?
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