Giovani, laureati e disoccupati? Non tutti. Con il dottorato in apprendistato Silvia ha imparato un mestiere

Un rapporto pubblicato nel gennaio 2014 dalla multinazionale della consulenza aziendale Mckinsey and Company ha evidenziato che il 40 per cento della disoccupazione giovanile in Italia ha natura strutturale e affonda le sue radici nello scarso dialogo tra sistema educativo e sistema economico. Come dire, in termini più semplici, che 4 giovani su 10 non trovano lavoro non perché non ci siano opportunità per loro, non perché non vi siano aziende pronte ad investire sul loro talento, ma perché posseggono competenze, conoscenze e titoli che non interessano alle imprese e non rispondono al loro reale fabbisogno formativo. Questo grave disallineamento tra formazione e competenze, tra percorsi scelti dai giovani e skills richieste loro dalle aziende, però, non è insuperabile. Nel nostro ordinamento giuridico, infatti, ci sono strumenti e istituti tesi proprio a colmare questa lacuna; soltanto che non vengono utilizzati come dovrebbero.
 
L’università in azienda. Uno di questi, per esempio, è l’apprendistato di alta formazione, un contratto di lavoro a tempo indeterminato introdotto dalla Legge Biagi nel 2003 e rilanciato dal Testo Unico dell’apprendistato nel 2011, che consente di conseguire titoli di studio di alta formazione, come la laurea triennale, quella magistrale, master di I e II livello e il dottorato di ricerca. Percorsi che permettono a giovani di talento di proseguire gli studi sviluppando competenze professionali specialistiche, tanto più preziose in quanto maturate in contesto di lavoro, ma sempre sostenute da un’attività di studio mirata. In particolare, con il dottorato in apprendistato, si crea circolarità tra studio, lavoro e ricerca, di cui si avvantaggiano i giovani, ma anche le imprese, che investono in innovazione, e le università, che ampliano il proprio network e la propria capacità di progettare percorsi formativi e di ricerca aderenti alle richieste del mercato del lavoro. Come ha raccontato Michele Tiraboschi, direttore del Centro studi ADAPT-Marco Biagi, in “Dottorati industriali, apprendistato per la ricerca, formazione in ambiente di lavoro. Il caso italiano nel contesto internazionale comparato”.
 
Un’occasione per pochi. Per il momento, non sono molti i giovani italiani che hanno avuto la fortuna di poter svolgere percorsi formativi di questo tipo. Anche perché, purtroppo, è scarso il numero di sperimentazioni avviate. Una di queste scuole di dottorato è quella promossa da Adapt e dall’Università di Bergamo con il dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro, iniziata ormai diversi anni fa insieme all’Università di Modena e Reggio Emilia e che prosegue tuttora in Lombardia. È, infatti, stato recentemente pubblicato il nuovo bando di dottorato il cui termine per presentare domanda di ammissione è il 20 agosto. Si tratta di un’esperienza che, senza esagerare, può tranquillamente essere definita pionieristica e unica su scala nazionale, tanto per l’alto numero di percorsi di dottorato in apprendistato attivati (quindici), quanto per l’ampia rete di imprese coinvolte e la particolare metodologia formativa adottata (si veda, in proposito, di Lilli Casano “Dottorato industriale e apprendistato di alta formazione: il caso ADAPT”.
 
Ed è proprio dalle file di ADAPT che proviene il primo dottore di ricerca italiano che ha recentemente conseguito il titolo svolgendo un apprendistato di alta formazione. Il suo nome è Silvia Donà e la sua storia inizia nel 2009, quando, appena laureata, partecipa ad un bando di dottorato nell’ateneo modenese. Non un dottorato tradizionale, ma un canale attraverso cui Silvia riesce ad entrare in contatto con un gruppo di ricerca eterogeneo e dal respiro comparato ed internazionale, specializzato in diritto del lavoro e nelle relazioni industriali.
 
La storia di Silvia. «Appena entrata in ADAPT – racconta a tempi.it Silvia – mi colpirono i ritmi sostenuti, la voglia e la possibilità di mettersi in gioco per fare, per migliorare, ma anche il forte senso di responsabilità e la grande apertura mentale». È la prima impressione che conserva di quell’esperienza. Silvia è stata scelta per svolgere la sua internship nella Fondazione Studi dei Consulenti del lavoro a Roma, dove inizia per lei un percorso affascinante e pieno di sfide. Non riceve una normale borsa di studio ma le viene proposto un contratto di lavoro vero e proprio, come apprendista di ricerca. Questo significa per Silvia capire ben presto che la distanza che esiste tra la teoria e la pratica, tra quello che l’università insegna e quello che il mercato del lavoro richiede, può essere colmata solo da un’esperienza diretta, in un vero luogo di lavoro e, perciò, da un percorso dove può, fin da subito, mettere in pratica le nozioni apprese “teoricamente”, trasformandole in competenze professionali.
 
«Sono entrata in un clima vivace e fattivo – prosegue Silvia – e sono stata subito inserita nel comitato scientifico dei tirocini formativi e di orientamento che la Fondazione Lavoro ha la possibilità di attivare come soggetto promotore. Ho così maturato una passione per il tema». Per ogni giovane e brillante laureato, questo significa ricevere una opportunità concreta per crescere professionalmente senza dimenticare quale supporto e quanta qualità conferisca al lavoro quotidiano, l’approfondimento scientifico e la ricerca. La dimensione teorica e quella pratica diventano quindi la miscela perfetta affinché il mercato del lavoro, quello reale, acquisisca un grado qualitativo ed innovativo maggiore e contemporaneamente i percorsi accademici preparino i giovani per la vita e la professione realmente consapevoli dei bisogni delle imprese.
 
Il giusto mix tra teoria e pratica. Ed è per questo motivo che il ricordo che Silvia conserva di quegli anni è quello di una vera Scuola, con la “S” maiuscola, durante i quali ha alternato momenti di aula e laboratori accademici, nelle aule delle università, a momenti di lavoro vero e di confronto reale su casi specifici. «È un’occasione che, se ben vissuta, aiuta a costruire una vera identità professionale, per la grande formazione di cui si gode e il confronto che si ha, dove la possibilità di mettersi in gioco e di spezzare tutti quei vincoli che, a volte, impediscono una piena crescita. Consiglierei certamente questo percorso ad un giovane perché è altamente formativo e dà concretamente la possibilità di trovare un lavoro nelle materie di attinenza al proprio studio».
 
La storia di Silvia, che ora come giovane professionista prosegue la sua collaborazione con la stessa Fondazione che le ha concesso di vivere una esperienza così speciale e formativa, ci insegna che il mondo delle università e quello delle imprese possono dialogare con profitto, e che farlo significa crescita reciproca. Per l’università, dando senso alla sua mission, ossia quella di creare professionisti in grado di arricchire i contesti aziendali in cui si inseriscono, valorizzando quelle stesse competenze che per prime le imprese richiedono. Per le aziende, invece, ricevendo in cambio valore e risorse umane, accogliendo e formando persone altamente qualificate e ricercatori, capaci di indicare la strada verso l’eccellenza. Quale occasione migliore per un giovane di oggi?
 
Eliana Bellezza
ADAPT Community Manager
@ElianaBellezza
 
Lilli Casano
ADAPT Research Fellow
@lillicasano
 

 

* Pubblicato anche in tempi.it, 12 agosto 2014.

 
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Giovani, laureati e disoccupati? Non tutti. Con il dottorato in apprendistato Silvia ha imparato un mestiere
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