Percorsi di lettura sul lavoro/6 – Il secondo trattato sul governo di John Locke

ADAPT - Scuola di alta formazione sulle relazioni industriali e di lavoro
Per iscriverti al Bollettino ADAPT clicca qui
Per entrare nella Scuola di ADAPT e nel progetto Fabbrica dei talenti scrivi a: selezione@adapt.it

Bollettino ADAPT 29 luglio 2019, n. 29

 

John Locke, An Essay Concerning the True Original, Extent, and End of Civil Government (1689), Il secondo trattato sul governo. Saggio concernente la vera origine, l’estensione e il fine del governo civile di A. Gialluca, Rizzoli, Milano 2016

 

Il ciclo di letture sui classici del lavoro prosegue con “Il secondo trattato sul governo” del teorico politico John Locke. Il testo in questione costituisce la seconda parte del più ampio lavoro intitolato “Two treatises of government” [“Due trattati sul governo”], pubblicato anonimo nel 1690. Nel primo trattato, Locke confuta i principi contenuti nel “Patriarca[1] (1680) dell’assolutista  Robert Filmer, difensore del diritto divino dei re; nel secondo e più celebre trattato, invece, l’autore espone la propria teoria sullo Stato. Il quadro teorico di riferimento del “Secondo trattato” è quello del liberalismo politico: vengono difesi la libertà e l’uguaglianza degli individui, il governo fondato sul consenso e limitato da diritti inalienabili, la divisione dei poteri, il diritto dei governati a controllare e, in casi estremi a rovesciare, i governanti – ideali che, due secoli dopo, ispireranno le rivoluzioni borghesi e le dichiarazioni dei diritti dell’uomo in America e in Francia.

 

Per stabilire i termini dell’associazione fra soggetti morali e razionali e fissare, successivamente, i criteri di legittimità del potere politico, Locke esamina il processo che costituisce il legislativo e gli altri poteri del governo; la facoltà, che il popolo si riserva, di controllare in ultima istanza l’attività dell’esecutivo; le basi e i limiti dell’obbligo politico degli individui; il diritto di resistenza e le condizioni del suo esercizio. Il testo contiene anche la celebre teoria della proprietà privata come diritto naturale, che ha avuto importanti ripercussioni in termini di concezione del lavoro.

 

«Per comprendere rettamente cosa sia il potere politico e derivarlo dalla sua origine, occorre considerare quale sia lo stato in cui tutti gli uomini si trovano naturalmente, vale a dire uno stato di perfetta libertà di regolare le proprie azioni e di disporre dei propri beni e persone come meglio credono.» (Locke, 2016, p. 65) L’autore ipotizza un’inziale condizione di uguaglianza e libertà tra gli uomini, in cui ogni potere e autorità sono reciproci, che definisce “stato di natura”. Questo non sarebbe da intendersi come un periodo storicamente esistito, bensì come un’ipotesi filosofica utile a giustificare l’origine del potere politico in rapporto alla naturale indipendenza dell’uomo. Lo stato di natura è governato dalla legge di natura, «che è per tutti vincolante, e la ragione – che è quella legge stessa – insegna agli uomini che, essendo tutti uguali e indipendenti, nessuno deve recar danno ad altri nella vita, nella salute, nella libertà o negli averi.» (p. 67) In questo stato prepolitico ognuno esercita il potere esecutivo della legge di natura, una «legge non scritta, che si trova nell’animo degli uomini.» (p. 247): in mancanza di un’autorità terza, a ciascuno è dato di punire un altro per un torto subìto.

 

La legge di natura prescrive all’uomo di uscire dallo stato prepolitico, dal momento che «il godimento della sua libertà e della proprietà che egli ha è molto incerto e continuamente esposto alle violazioni da parte di altri.» (p. 229) Prosegue l’autore affermando che «nessuno può essere tolto da questa condizione [di libertà ed indipendenza naturali] e assoggettato al potere politico di un altro senza il suo consenso. Il solo modo in cui un uomo si spoglia della sua libertà naturale e assume su di sé i vincoli della società civile, consiste nell’accordarsi con altri uomini per associarsi e unirsi in una comunità al fine di vivere gli uni con gli altri in comodità, sicurezza e pace, nel sicuro godimento della sua proprietà e con una maggiore protezione contro coloro che non vi appartengono.» (p. 189) Il potere politico risulta essere così il prodotto artificiale del consenso e della ragione degli uomini, che scelgono liberamente di cedere il diritto di farsi giustizia da sé per mettersi sotto la protezione di leggi stabilite da un governo.

 

La prima e fondamentale legge positiva di tutti gli Stati è l’istituzione del potere legislativo, da cui derivano gli altri poteri, che gli sono quindi subordinati. «Il legislativo non soltanto è il potere supremo dello Stato, ma è sacro e inalterabile nelle mani in cui la comunità l’ha collocato.» (p. 241) Il legislativo non può governare per mezzo di decreti estemporanei e arbitrari, ed «è limitato al pubblico bene della società.» (p. 245) Per promulgare le norme, i legislatori devono infatti ispirarsi alla legge di natura, che, secondo l’autore, corrisponde in definitiva ad uniformarsi alla volontà di Dio. In base al numero di persone cui la comunità affida il potere legislativo, lo Stato assume diverse forme – democratica, oligarchica o monarchica. Tra i limiti cui il legislativo è sottoposto, degno di nota è quello inerente la proprietà privata: «il potere supremo non può togliere a un uomo parte della sua proprietà senza il suo consenso.» (p. 251) Gli uomini esercitano infatti sui beni di loro possesso un diritto per cui nessuno, senza consenso, può toglierli loro. Chiosa l’autore: «non ho infatti realmente alcuna proprietà su ciò che un altro può con diritto togliermi quando vuole contro il mio consenso.» (p. 251)

 

Da profondo conoscitore della natura umana quale è, Locke prescrive che il potere esecutivo venga affidato in mani diverse da quelle deputate alla formulazione delle leggi. Scrive infatti: «in ragione dell’umana fragilità così incline ad impossessarsi del potere, per coloro che hanno il potere di fare leggi può essere troppo grande la tentazione di avere nelle loro mani anche quello di eseguirle, esonerandosi così dall’obbedienza alle stesse leggi che essi fanno e adattandole al proprio vantaggio privato.» (p. 259). La divisione dei poteri, che verrà teorizzata ufficialmente da Montesquieu nell’imponente “L’esprit des lois[2] (1748), è già in Locke baluardo contro l’assolutismo.

 

Locke prevede infine il diritto di resistenza per il popolo. Qualora infatti il legislativo venisse meno agli scopi cui è stato indirizzato, i governanti hanno la facoltà di destituire o mutare tale potere. Scrive a proposito: «ogni potere affidato in vista del conseguimento di un fine, è limitato da quel fine; e quindi ogniqualvolta viene manifestatamente trascurato o contrastato, la fiducia deve necessariamente venire meno e il potere ritornare nelle mani di coloro che l’hanno conferito.» (p. 265)

 

Una delle premesse fondanti la politica liberale di Locke, che ha avuto ripercussioni sulla modalità di concepire il lavoro nei secoli a venire, è la sua teoria della proprietà privata come diritto naturale. Locke dedica il capitolo V del “Secondo trattato” alla proprietà, proponendosi di «mostrare come gli uomini poterono giungere ad avere in proprietà singole parti di ciò che Dio aveva dato in comune al genere umano, e ciò senza un esplicito patto fra tutti i membri della comunità.» (p. 95)

 

La terra, e tutto ciò che in essa vi si trova, è data agli uomini per il loro sostentamento e il loro benessere. E sebbene tutti i frutti che essa produce naturalmente e gli animali che essa nutre appartengono alla specie umana in generale, e «nessuno ne ha originariamente un dominio privato a esclusione degli altri uomini perché si trovano tutti nello stato di natura, tuttavia essendo tali frutti dati in uso agli uomini, ci deve essere necessariamente un mezzo per appropriarsene in qualche modo». (pp. 95-96)

 

Su una cosa ogni uomo ha un diritto esclusivo: la proprietà della sua propria persona. Il lavoro del suo corpo e l’opera delle sue mani sono propriamente suoi. Argomenta Locke: «Qualunque cosa, allora, egli rimuova dallo stato in cui la natura l’ha prodotta e lasciata, mescola ad essa il proprio lavoro e vi unisce qualcosa che gli è proprio, e con ciò la rende una sua proprietà. Rimuovendola dallo stato comune in cui la natura l’ha posta, vi ha connesso con il suo lavoro qualcosa che esclude il comune diritto degli altri uomini. In quanto tale lavoro è proprietà incontestabile del lavoratore, lui soltanto può aver diritto a ciò che è stato aggiunto mediante esso, almeno laddove ci sono beni sufficienti, e altrettanto buoni lasciati in comune per gli altri.» (p. 97) È dunque il lavoro apportato ad un bene ad istituire la proprietà su di esso.

 

Da ciò discende una domanda fondamentale per la il diritto del lavoro: è possibile separare il lavoro (come entità, o come bene-oggetto) dalla persona che lavora? E dunque, quale deve essere l’oggetto del contratto di lavoro? Una risposta affermativa spalanca le porte al rischio della commodification, ovvero della riduzione della persona che lavora ad oggetto di uno scambio economico, quindi la sua mercificazione. Oggi la maggior parte dei giuristi del lavoro sostengono l’inseparabilità dell’attività lavorativa dalla persona che la svolge, argomentando che ogni forma di guadagno è frutto dell’impiego di parte del proprio corpo, indipendentemente dalla professione svolta. Rispetto alla seconda domanda, si distinguono diverse risposte: il giurista Carnelutti[3], per esempio, individua l’oggetto del contratto nelle “energie” che si distaccano dal corpo umano e si esteriorizzano, energie che il lavoratore vende al datore di lavoro, e di cui il datore di lavoro diviene proprietario; Barassi[4], invece, identifica l’oggetto dell’obbligazione con il suo contenuto, vale a dire con la prestazione promessa dal debitore. In ogni caso, l’impossibilità di fare del corpo del lavoratore l’oggetto del contratto, e l’inseparabilità della prestazione lavorativa dalla persona che lo svolge, risentono indubbiamente dell’influsso lockiano rispetto alla concezione della proprietà privata, da cui mutuano l’intuizione dell’appartenenza del lavoratore del proprio corpo e delle energie che esso dispensa. La riflessione di Locke ha posto le basi per il presupposto giuridico del contratto di lavoro moderno, cioè dell’individuo proprietario di se stesso che può vendersi sul mercato; ha introdotto, dal punto di vista economico, la coincidenza tra lavoro e valore di un bene (un bene ha valore perché contiene lavoro); infine, ha sviluppato, per quando concerne l’ambito della politica, l’idea del lavoro come emancipazione individuale.

 

Cecilia Leccardi

Università Vita-Salute San Raffaele di Milano

@CeciliaLeccardi

 

[1] R. Filmer, Patriarcha or Natural Power of Kings, R. Chiswell, Londra 1680

[2] Montesquieu, L’esprit des lois, Garnier Éditeurs, Parigi 1748

[3] F. Carnelutti, Studi sulle energie come oggetto di rapporti giuridici, in Riv. Dir. Comm., XI, 1913, pp. 384 ss.

[4] L. Gaeta, Lodovico Barassi, Philipp Lotmar e la cultura giuridica tedesca, in Napoli (a cura di), La nascita del diritto del lavoro. “Il contratto di lavoro” di Lodovico Barassi cent’anni dopo. Novità, influssi, distanze, Milano, Vita e Pensiero, 2003

 

Percorsi di lettura sul lavoro/6 – Il secondo trattato sul governo di John Locke