Una blue card per gli immigrati highly skilled. Il punto della situazione

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Le politiche dell’immigrazione formano sempre, nella loro essenza, politiche del mercato del lavoro. Eppure, come acutamente è stato detto, quello fra giuslavoristi e immigrati è stato, e in parte continua a essere, un incontro difficile. Giorgio Ghezzi, nel 1982, chiosava a proposito: “il nostro diritto del lavoro non riguarda i poveri cristi”.

 

Esiste una categoria di migranti, cittadini di Paesi extra-UE (c.d. TCNs, Third-Country Nationals – “stranieri”, d’ora in avanti), che “poveri cristi” lo sono un po’ meno. Si tratta dei lavoratori stranieri altamente qualificati (highly skilled workers). È loro dedicata una specifica disciplina (introdotta con il D. Lgs. 108/2012), che regola non tanto l’instaurazione di rapporti di lavoro “speciali” (niente “tipi” contrattuali, all’orizzonte), quanto le modalità del loro accesso al mercato del lavoro italiano, nonché le condizioni del loro soggiorno. Tali lavoratori (cui è dedicato l’art. 27 quater D. Lgs. 286/1998 – c.d. Testo Unico sull’Immigrazione) sono desiderabili poiché portano con sé un bagaglio prezioso di conoscenze, competenze e abilità. Essi sono destinati a occupare la fascia “alta” del mercato del lavoro, dando il proprio contributo a un’economia che, per competere, necessita di risorse umane capaci di interpretare e finanche abilitare il dispiegarsi della c.d. quarta rivoluzione industriale, la cui caratteristica sta, sul piano del mercato del lavoro, proprio nella polarizzazione delle competenze tra fasce alte e fasce basse della popolazione lavorativa.

 

Che fosse conveniente rendersi attrattivi nei confronti di questi particolari migranti, è stato intuito prima che in Italia entro l’Unione europea. Le previsioni normative italiane sono seguite all’introduzione di un’importante Direttiva, la 2009/50/CE (c.d. Blue Card Directive). La direttiva in esame ha rappresentato, per certi versi, una novità sorprendente nel panorama normativo unionale. Il fatto è che, sebbene sia prospettato, da Lisbona in poi, lo sviluppo di una politica migratoria comune (artt. 67 co. 2 e 79 co. 1 Tfue), forti resistenze sono sempre state avanzate da parte dei Governi nazionali. I Paesi membri, inoltre, non hanno finora ceduto sovranità riguardo il volume degli ingressi per motivi di lavoro (art. 79 co. 5 Tfue). L’arrivo degli stranieri ha d’altronde cospicua rilevanza sia sul versante della tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza interna, sia sul versante – spesso invocato – della protezione della manodopera nazionale.

 

Prima dell’emanazione della Direttiva, comunque, da più parti era stata evidenziata l’esigenza di un “cambio di passo”. Vista dal di fuori, con gli occhi di uno straniero, l’Europa non rappresenta(va) affatto un mercato del lavoro unitario. Le straordinarie conquiste in tema di libertà fondamentali; soprattutto, le libere circolazioni di persone e servizi, affermate nel diritto dei Trattati a favore dei cittadini europei, poco interessa(va)no il lavoratore straniero, costretto a misurarsi con ventotto meccanismi di accesso a(i) mercat(i) del lavoro europei. Si rendeva perciò chiara l’esigenza di una disciplina unitaria riservata all’ingresso regolare e al trattamento di tutti i lavoratori stranieri. Tale esigenza emergeva con forza soprattutto negli interventi del Comitato economico e sociale europeo. La contrarietà dei Governi nazionali, tuttavia, ha convinto le Istituzioni unionali (specie la Commissione) ad abbracciare un approccio più realistico, rinunciando all’introduzione di una “via europea alla migrazione per lavoro” e cominciando, invece, la costruzione di discipline settoriali rivolte a lavoratori stranieri variamente caratterizzati.

 

Il primo focus è stato sugli highly-skilled workers, a conferma che è più facile aprire la “fortezza Europa” quando la convenienza economica è evidente. Lo stesso José Barroso, al momento dell’emanazione della 2009/50, ha affermato che essa serviva a implementare la strategia (economica) di Lisbona per l’Unione europea (la costruzione di “un’economia sociale di mercato fortemente competitiva”). È innegabile che la direttiva in esame abbia costituito il primo canale d’accesso unionale al lavoro nel Continente; le mediazioni per arrivare alla versione ultima della disciplina, non a caso, sono state faticose. Eppure, proprio a causa di alcuni compromessi “al ribasso” fra i Paesi membri, nonché di certi atteggiamenti nazionali successivi all’emanazione, si può affermare siano stati in parte disattesi gli obiettivi di semplificazione, e incoraggiamento, della migrazione transnazionale dei “migliori”.

 

Il lavoratore altamente qualificato diviene titolare di un peculiare permesso di soggiorno, rilasciato dallo Stato che lo ha ammesso. Si tratta della Carta Blu dell’Unione (da cui la Direttiva 2009/50 prende la propria denominazione). Ora, straordinario sarebbe stato se, sia pure dopo un certo lasso di tempo, la titolarità della Carta Blu avesse consentito al lavoratore straniero di muoversi – al pari di un cittadino Ue – con disinvoltura in Europa, vivacizzando i mercati del lavoro nazionali. Ciò avrebbe rappresentato un vero risultato di integrazione, nonché un passo decisivo verso la piena realizzazione di uno spazio europeo della mobilità lavorativa altamente qualificata. E tuttavia l’art. 18 co. 2 della 2009/50 ha lasciato, agli Stati membri, la facoltà di subordinare il regolare spostamento dei titolari della Carta Blu alla decisione positiva pronunciata dalla propria autorità competente.

 

Non soltanto compromessi al ribasso, s’è detto, ma pure atteggiamenti – dei singoli Stati –  successivi all’emanazione della direttiva hanno ridimensionato l’ambizione europea di realizzare un quadro giuridico omogeneo rivolto ai lavoratori stranieri altamente qualificati. Si sono avuti ritardi nella trasposizione della 2009/50, come pure attuazioni poco rispettose del dettato normativo europeo. L’Italia rappresenta un caso emblematico soprattutto perché ha adottato la direttiva con molto ritardo, a un anno circa dalla decorrenza del termine fissato per la trasposizione. Evidentemente, è stato più efficace il “bastone” dell’avvio di una procedura d’infrazione, che non la “carota” dei vantaggi collegati alla migliore regolazione dell’arrivo di forza-lavoro “di qualità”.

 

Non c’è da stupirsi se, a distanza di qualche anno, si afferma (dati alla mano) che la Direttiva non ha colto nel segno. Dal 2012 ad oggi, le Carte Blu rilasciate in Italia sono state qualche centinaio (lo precisa Alberto Guariso di Asgi): numeri risibili, perché si possa parlare dell’apertura di un vero e proprio canale della migrazione regolare. È quasi paradossale constatare che proprio gli stranieri altamente qualificati non debbono rispettare alcun tetto numerico per entrare in Italia, in quanto esclusi dal famigeratissimo (e molto controverso) “sistema delle quote” italiano.

 

La 2009/50 non ha dato migliore prova di sé negli altri Paesi europei. Che la normativa non funzioni, è stato ammesso dalla Commissione Ue, e non a caso oggi è in discussione, presso il Parlamento europeo, una nuova proposta, con la quale davvero si vorrebbe rendere l’Europa anche giuridicamente più “smart” nell’attrarre i formati e i capaci. Particolare attenzione – sembra – sarà dedicata a scongiurare il fenomeno definito del Brain drain (letteralmente, “drenaggio di cervelli”). Tale fenomeno consiste nel depauperamento delle risorse umane proprie di un Paese più povero a causa dello spostamento di forza-lavoro “di qualità” verso un Paese più ricco. Il Brain drain pare sarà temperato adottando tecniche di ethical recruitment (di assunzione etica: ad esempio, potrebbero porsi dei limiti agli arrivi di medici da Paesi in via di sviluppo, in modo che le sanità locali non subiscano eccessive ripercussioni), oltre che favorendo processi di “migrazione circolare” (in Europa arrivi ma soltanto per un periodo di tempo limitato, necessario ad accrescerti professionalmente e ad arricchirti – o comunque, sei messo nelle condizioni di mantenere un ofrte legame con il tuo Paese di origine).

 

L’uomo OIL Ryszard Cholewinski sottolinea, a proposito, che l’incoraggiamento della “migrazione circolare” non è condivisibile sempre e in ogni caso, ma a seconda della tipologia di migranti cui è collegato. Se, in relazione ai lavoratori altamente qualificati, la migrazione circolare è positiva (la si indica quale soluzione “Triple Win”, grazie alla quale si producono effetti positivi per entrambi i Paesi coinvolti, oltre che per il lavoratore migrante stesso); per i migranti low-skilled incoraggiare la migrazione circolare e temporanea “è più controverso e solleva una preoccupazione: che (…) esacerbi la dimensione di precarietà del lavoro e significhi un’ulteriore restrizione dei diritti”.

 

I numeri finora risibili delle Blue Card italiane sono dovuti a una disciplina inadeguata? Difficile dirlo senza adeguate evidenze empiriche alla mano. La convinzione tuttavia è che le regole giuridiche possano anche essere imperfette, ma la realtà è più forte. Prova ne sia che, se si guarda all’impianto normativo italiano in tema di ingressi di stranieri per motivi di lavoro, oltre che ai numeri degli accessi consentiti entro i c.d. decreti-flussi annuali, nuovi lavoratori stranieri – subordinati, autonomi – praticamente non ne dovremmo avere. Eppure la nostra realtà socio-culturale sta cambiando, mentre si è ancora convinti che con la mano si possa bloccare l’onda del mare. In questo senso, i pochi rilasci di Blue Card possono spiegarsi con quella che è definita (fra gli altri, da Monica Mc Britton) “funzione specchio”: i fenomeni migratori riflettono i problemi delle società di accoglienza. L’Italia in effetti riceve pochi “talenti” stranieri perché, in generale, è poco capace di valorizzare i propri. Esiste ancora scarso raccordo fra scuola, università e mondo del lavoro. E diciamolo, senza pretesa di generalizzazione alcuna: scarsa propensione delle imprese a investire sui giovani, a creare ambienti fortemente innovativi, a creare, in definitiva, quell’ecosistema che rappresenti non solo il presupposto per l’attrazione di investimenti diretti esteri, ma, appunto, per l’attrazione e fidelizzazione di capitale umano altamente specializzato. Sono queste le sfide, anche culturali, che devono essere colte per guidare il nostro paese nel cuore della quarta rivoluzione industriale.

 

Andrea Rosafalco

ADAPT Junior Fellow

@AndreaRosafalco

 

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