Opinioni dottrinali sull’apprendistato tra riforme di legge, cambiamenti economici e quelle svolte culturali che ancora mancano

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Bollettino ADAPT 5 marzo 2019, n. 9

 

A fronte dei grandi cambiamenti che attraversano il mondo del lavoro, l’apprendistato ha ancora un futuro? È, oggi, un utile strumento per rispondere alle sfide poste da globalizzazione, tecnologie, e tradotte in nuovi modelli organizzativi, nuovi lavori, nuove professionalità?

 

Queste domande sono le stesse di un articolo risalente ai primi anni 2000: D. Finegold, K. Wagner, Are Apprenticeships Still Relevant In The 21st Century? A Case Study Of Changing Youth Training Arrangements In German Banks, in Industrial And Labor Relations Review, 4/2002, pp. 667-685. In questo contributo, gli autori si chiedono: poste alcune sfide comuni ai paesi industrializzati, l’apprendistato è ancora efficace nell’accompagnare l’entrata dei giovani nel mondo del lavoro, fornendo allo stesso tempo alle aziende uno strumento utile a formare lavoratori qualificati? Limitandoci al contesto italiano, anche di recente alcuni autori hanno avanzata proposte per il superamento dell’apprendistato, o almeno un suo parziale ripensamento: si veda ad esempio M. Leonardi, M. Pallini, Riformare l’apprendistato in Italia, in Rivista Il Mulino, Fascicolo 5, settembre-ottobre 2013, pp. 824-833, oppure B. Anastasia, Limiti e opportunità (reali) dell’apprendistato, in Rivista il Mulino, Fascicolo 5, settembre-ottobre 2013, pp. 816-823. In entrambi i contributi si ragiona sull’attuale utilizzo dell’apprendistato e si propongono vie per modernizzarlo o cambiarlo, al fine di renderlo più adeguato al mercato del lavoro contemporaneo. Ad esempio, i primi due autori (come altri) ne criticano la natura di contratto a tempo indeterminato, chiedendo una maggior flessibilità. Rimane invece sullo sfondo il tema formativo, quasi che l’unico punto di vista da cui guardare l’apprendistato fosse la natura del contratto, e la possibilità di licenziare con maggiore o minore facilità l’apprendista. L’apprendistato è quindi letto, in questo contributo, a partire dal suo fine occupazionale, meno da quello formativo: contratto per inserire i giovani nel mercato del lavoro, non tanto per dotarli di competenze in grado di renderli veramente occupabili. Questi ragionamenti sono coerenti con quanto emerge dalla lettura del report realizzato dal Centro Studi dei Consulenti del Lavoro dedicato proprio all’apprendistato: in Italia, sul totale di questo tipo, il 97% sono contratti d’apprendistato professionalizzante, la cui componente formativa è molto debole, e che non preveda l’attiva partecipazione alla progettazione del percorso da parte di una realtà formativa – come invece accade nell’apprendistato di primo e terzo livello, che però insieme non raggiungono il 3% dei contratto d’apprendistato in Italia. Questo contratto è quindi diffuso soprattutto a fronte del minore costo in capo al datore di lavoro, incentivato così all’assunzione di giovani. Rimane in secondo piano, invece, la sua finalità formativa.

 

L’articolo di Finegold e Wagner allarga invece l’orizzonte, partendo da questa constatazione: “The globalization of markets, the emergence of new, lower cost competitors, and the rapid pace of technological change have combined to create an imperative for them to improve both the quality and quantity of the skills of their work forces if they are to continue to maintain or improve their standard of living”. Globalizzazione dei mercati e cambiamento tecnologico sono fattori determinati l’emergere di nuovi fabbisogni formativi. Che ruolo può giocare (se può farlo) l’apprendistato in questo contesto? Gli autori individuano alcuni limiti: oggi l’apprendistato è troppo “lento” per stare al passo con i cambiamenti che accadono dentro e fuori le imprese: se per aggiornare un profilo professionale in uscita sono necessari anni (il riferimento è alla normativa tedesca), il rischio è che intanto altri cambiamenti abbiano reso l’intervento superfluo, o già superato. Un altro limite ricordato è che l’apprendistato “industriale” ha come principale settore la manifattura, mentre l’economia di oggi è sempre più un’economia dei servizi, nei quali l’apprendistato non ha né storia né tradizione. E poi: il mercato del lavoro oggi indica tra i principali fabbisogni formativi le competenze digitali, e non artigiane: se per le seconde siamo sicuri che l’apprendistato giochi ancora un ruolo formativo centrale, che dire delle prime? Infine, il tasso di giovani che proseguono gli studi arrivando ad un livello secondario superiore o terziario è sempre più alto. L’apprendistato è quindi un ripiego per chi “non vuole studiare”? Il rischio è quello di un contratto che, dove ha una dimensione formativa forte (come in Germania), si riduca ad essere una seconda scelta a fronte di percorsi di carriera e studio migliori, dove invece ha una dimensione formativa debole (come in Italia), che venga utilizzato solo per abbattere il costo del lavoro.

 

Esplicitati questi limiti, gli autori presentano un caso studio di particolare interesse: la diffusione dell’apprendistato nel settore bancario tedesco. Com’è noto, il settore delle banche è attraversato da una grande trasformazione, determinata soprattutto dalla diffusione di nuove tecnologie, nuovi modelli organizzativi, nuove competenze richieste ai lavoratori, nuovi ruoli. Gli autori dell’articolo chiariscono fin da subito per comprendere la diffusione dell’apprendistato non basta un’analisi costi benefici (come suggerito anche in Stefan C. Wolter, Paul Ryan, Apprenticeship, in Eric A. Hanushek, Stephen Machin, Ludger Woessmann, Handbooks in Economics, Vol. 3/2011, pp. 521-576), ma bisogna indagare anche il contesto culturale e socio economico in cui le imprese sono inserite. In altre parole, a volte una tradizione consolidata è più forte di un’evidenza economica, almeno nel breve periodo. Per spiegare questa teoria, gli autori introducono la distinzione tra due logiche: la logic of consequences e la logic of appropiateness. La prima rappresenta la convenienza economica e gli output formativi/occupazionali che è possibile aspettarsi dall’apprendistato, la seconda invece parte dalla constatazione che, considerati i numerosi soggetti (pubblici e privati) che partecipano al sistema duale, è necessario considerare the impact these institutions have on shaping individual identity and cultural norms of behavior. Il sistema duale (così come ogni sistema) genera anche una cultura, cioè un insieme di prassi e un modo di guardare al mondo. È un fattore da tenere ben in considerazione quando si ragiona sui suoi successi (o insuccessi). Queste due logiche non sono in contrapposizione, anzi sono integrate una con l’altra: i costi e benefici non sono solo “materiali” ma anche “immateriali”, legati alla partecipazione ad un sistema finalizzato alla formazione dei giovani, nel quale i processi che s’innescano, a livello territoriale, non sono riducibili a un primo bilancio strettamente economico.

 

Ma torniamo al settore bancario. Questo il problema: “Given all of these changes—an increase in apprenticeship costs, a loss of some of their top trainees to university, an outdated apprenticeship curriculum, and intensified competition—how have banks responded? Have they cut back significantly on their apprenticeship intake?  And if they continue to train a large number of apprentices, why do they do so?” Le banche in Germania hanno scelto di scommettere ancora sull’apprendistato. I numeri infatti sono costanti negli anni. Come hanno risposto alle sfide che sopra abbiamo elencato? Prima di tutto, hanno investito sulla formazione duale dell’apprendista. Frequentando scuole di qualità, l’apprendista rappresenta un lavoratore dotato delle giuste competenze anche per affrontare le nuove sfide sopra richiamate: per far questo, bisogna ragionare a livello di sistema, permettendo un effettivo coordinamento della formazione professionalizzante e di quella invece scolastica, mirando ad elevarne la qualità, anche grazie all’apporto delle imprese stesse, e all’utilizzo di nuove metodi pedagogici. Le banche hanno quindi scelte di diventare ancora più protagoniste del sistema duale, credendo – anche per la seconda logica sopra citata – in un’idea di sviluppo comune, realizzato a livello di sistema territoriale. Parafrasando, è grazie alla diffusione di una logica di “rete tra scuole e imprese” (come descritta in A. Balsamo, Reti scuola-impresa: un modello d’integrazione tra scuola e lavoro per l’industria 4.0, ADAPT University Press, 2017) che è stato possibile affrontare il cambiamento, un sistema di rete che a sua volta è stato sostenuto dalla diffusione di una cultura e di una logica che indicavano come “appropriata” ed efficace quella modalità d’azione. Chi può promuovere questa logica? Gli autori indicano nel sistema delle relazioni industriali un attore fondamentale: “The strong role of the employer associations and trade unions helps banks focus on their collective interests rather than their individual interests by fostering the development of trust among employers that facilitated reform of the system; encouraging new firms that have entered the market—direct and foreign banks—to take part in the dual system; supporting the strong reputational effect associated with training and the accompanying sense of wider responsibility to the community; and creating mechanisms for the effective exercise of voice (to reform the system), rather than exit.”

 

L’apprendistato sembra quindi emergere come strumento ancora oggi efficace per la costruzione di sistemi di incontro tra domanda e offerta di lavoro, grazie ad una formazione duale e integrale. Ciò però è possibile non limitandosi a considerazioni di natura economica, o proponendo esclusivamente interventi a livello normativo (come la liberalizzazione dei licenziamenti), ma agendo a livello di sistema in una dimensione territoriale nella quale le relazioni industriali giocano un ruolo fondamentale, culturale e non solo operativo. Questo è quanto è accaduto in Germania, dove la formazione di cui sono destinatari gli apprendisti è tenuta in gran conto. Nel contesto italiano, invece, la strada è ancora lunga: di certo, lo studio sopra esposto aiuta a comprendere come non siano gli incentivi economici o gli interventi normativi gli strumenti più adatti per promuovere la diffusione di un apprendistato di qualità, anzi: è solo partendo dal riconoscimento del valore e del senso dell’istituto, riconoscimento condiviso da scuole, università, datori di lavoro, e dagli stessi giovani, che è possibile proporne un rilancio (si veda ad esempio M. Tiraboschi, Apprendistato: una leva di placement più che un (semplice) contratto, in Bollettino ADAPT 15 luglio 2015). È allora necessario un vero e proprio rinnovamento culturale, grazie al quale l’apprendistato è concepito – e di conseguenza utilizzato –  non come un contratto a basso costo, ma come un vero e proprio strumento di placement finalizzato all’incontro tra domanda e offerta di lavoro, grazie alla creazione di sistemi territoriali composti da parti sociali, imprese, sistemi formativi, capaci di dialogare e costruire percorsi nei quali i giovani apprendono le competenze necessarie a renderli veramente occupabili, nonché capaci di rispondere alle sfide poste dal mercato del lavoro di oggi.

 

Matteo Colombo

Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro

Università degli Studi di Bergamo

@colombo_mat

 

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