Il tribunale di Ivrea qualifica come malattia professionale il tumore causato dall’uso scorretto del cellulare

Il 30 marzo scorso il Tribunale di Ivrea ha condannato l’Inail a corrispondere una rendita vitalizia da malattia professionale al dipendente di un’azienda cui è stato diagnosticato un tumore dopo che per 15 anni aveva usato il cellulare per più di tre ore al giorno senza protezioni, riconoscendo dunque il nesso causale tra la malattia invalidante e l’uso – scorretto – del cellulare.

 

Con questa decisione storica (Trib. di Ivrea, n. 96 del 30.03.2017) la giustizia italiana riconosce la piena plausibilità dell’effetto oncogeno delle onde elettromagnetiche dei cellulari, confermando e andando oltre quanto già riscontrato sin dal 2011 dalla International agency for research on cancer (Iarc) che includeva le onde dei cellulari e dei cordless fra i possibili agenti cancerogeni.

 

Si tratta di un caso pilota che può incidere, a ben vedere, sul cambiamento del modus operandi di molte realtà aziendali.  In Italia, infatti, a differenza di molti altri Paesi in Europa e nel Mondo, attualmente non sono previste misure di cautela per contenere la nocività dei cellulari, in ragione del fatto che al livello scientifico, come sostenuto dal presidente dell’Aiom (Associazione italiana di oncologia medica) Carmine Pinto, ad oggi non esistono studi certi e completi idonei a provare scientificamente il nesso causale tra l’uso del cellulare e il tumore cranico.

 

Il punto critico sul piano della validazione scientifica rimane che i cellulari emettono campi elettromagnetici a bassa frequenza, e per valutare i possibili effetti sul cervello dell’irradiamento di questo tipo di campi ci vogliono 30 anni, senza contare che in questi decenni la tecnologia è sensibilmente cambiata, rendendo difficoltosa una comparazione. Data l’attuale incertezza, lo stesso Pinto, in attesa di studi più esaustivi, non manca di consigliare regole di buon senso per un uso corretto del dispositivo cellulare.

 

Secondo il professor Angelo Levis, consulente tecnico di parte nel corso del primo grado di giudizio, non c’è alcun dubbio: “l’esistenza di un rapporto causa-effetto tra esposizione abituale e per lungo tempo ai telefoni mobili e rischio – almeno raddoppiato e statisticamente significativo al 95% di probabilità – di tumori ipsilaterali alla testa”, per cui si renderebbe urgente la revisione delle attuali linee guida, finalizzata alla fissazione di limiti di esposizione realmente cautelativi.

 

Già la Corte di Appello di Brescia nel 2009, in un caso simile, aveva riconosciuto il nesso con-causale fra l’attività lavorativa di un dirigente che aveva usato il cellulare e il cordless per una media di 5-6 ore al giorno e la patologia denunciata; decisione poi confermata in Cassazione, sezione lavoro, il 12 ottobre 2012.

 

L’orientamento giurisprudenziale dominante, infatti, sembra andare proprio in questa direzione: l’ultima sentenza in tal senso risale a poche settimane fa, quando il Tribunale di Firenze (con sentenza del 21.04.2017), sulla falsa riga di quello di Ivrea, ha riconosciuto il collegamento tra l’uso non corretto del telefono cellulare e l’insorgere di un neurinoma – un tumore benigno del nervo acustico – condannando, anche in questo caso, l’Inail a corrispondere una rendita da malattia professionale a un addetto alle vendite che per motivi di lavoro ha trascorso, per oltre dieci anni, 2-3- ore al giorno al telefono.

 

Dunque, a fronte di questa tendenza della giurisprudenza a riconoscere una tutela risarcitoria ai lavoratori che hanno riportato danni biologici a causa dell’uso scorretto del cellulare, sembra essere necessaria una svolta epocale anche in ottica preventiva in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro.

 

Infatti, ai sensi dell’art. 2087 c.c., il datore di lavoro è tenuto a tutelare l’integrità psico-fisica dei lavoratori adottando misure cautelative necessarie “secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica”. Secondo la normativa vigente in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, d.lgs. n. 81 del 2008, l’obbligo di sicurezza deve essere adempiuto attraverso la valutazione e la gestione dei rischi per la salute e la sicurezza dei lavoratori: il datore di lavoro, quale principale obbligato in materia, deve predisporre ed adottare una serie di misure atte ad eliminare e – se ciò risulta impossibile – ridurre i rischi insiti nell’attività e nell’organizzazione esercitata da un’impresa.

 

Con riferimento al rischio emergente nel caso di specie, si rende dunque necessario rivedere la tradizionale organizzazione del lavoro fondata su un assai poco controllato – se non addirittura spregiudicato – utilizzo dei telefoni cellulari. Ciò, da un lato, valutando correttamente i rischi che tali strumenti comportano, anche alla luce delle più recenti acquisizioni della ricerca in merito; dall’altro, predisponendo misure idonee a neutralizzare questi rischi, o quanto meno ridurli per coloro i quali, a causa della particolarità dell’attività lavorativa svolta, risultano maggiormente esposti ad un utilizzo cospicuo e di lunga durata del cellulare.

 

Cosa comporterebbe, dunque, per le aziende il riconoscimento del nesso causale tra l’uso del cellulare e l’insorgenza di malattie professionali? In primo luogo questa tipologia di rischio dovrebbe essere contemplata nella Valutazione dei Rischi, che il datore di lavoro deve effettuare in relazione alla propria organizzazione aziendale, e traslata conseguentemente all’interno del DVR (Documento di Valutazione dei Rischi). Solo in questo modo sarà possibile prevedere delle misure cautelative, laddove risultasse impossibile l’eliminazione totale del rischio, per ridurre sensibilmente il pericolo di sviluppare malattie correlate all’attività lavorativa svolta.

 

Ai sensi della normativa vigente, il datore di lavoro avrebbe a questo punto l’obbligo di informare, formare e addestrare i lavoratori sull’uso corretto del dispositivo, dotando gli stessi di cuffie auricolari e/o promuovendo anche il semplice utilizzo del vivavoce, in modo da consentire lo svolgimento dell’attività lavorativa tenendo l’apparecchio lontano dalla testa e riducendo, conseguentemente, il rischio di sviluppare un tumore cranico.

 

Nell’attesa di mirate campagne di sensibilizzazione promosse dal Ministero della Salute e di provvedimenti del Governo – finalizzati ad esempio a vietare nelle pubblicità immagini di persone che adoperano i telefonini o a prevedere che sulle confezioni si debba scrivere che un uso improprio degli apparecchi può causare danni alla salute – e auspicando altresì una revisione del concetto di “potenzialmente cancerogeno” – attraverso il trasferimento dei cellulari nella categoria più alta degli apparati pericolosi – si può intanto invocare un epocale cambiamento culturale, prima ancora che giuridico, che interessi le imprese e la loro organizzazione, a partire dagli stessi lavoratori, chiamati a contribuire attivamente alla tutela della propria integrità fisica e morale.

 

Giada Benincasa

ADAPT Junior Fellow

@BenincasaGiada

 

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