Cessione di ramo d’azienda: la Cassazione insiste sulla preesistenza

Il problema ermeneutico dell’art. 2112 c.c.
 
La sentenza della Suprema Corte 27 maggio 2014, n. 11832 investe un tema, quello del trasferimento di una parte –c.d. ramo – di azienda, particolarmente sensibile e controverso in special modo a seguito delle modifiche che l’art. 32 del d.lgs. n. 276/2003 ha operato nel corpus dell’art. 2112 c.c.. È noto come, prima dell’innovazione, la legge richiedesse che la parte di azienda oggetto di cessione fosse preesistente alla medesima, mentre l’attuale formulazione del comma 5 dell’art. 2112 cit. stabilisce che il c.d. ramo debba consistere in un’«articolazione funzionalmente autonoma di un’attività economica organizzata, identificata come tale dal cedente e dal cessionario al momento del suo trasferimento».
 
La critica più ricorrente formulata nei confronti della riforma concerne la possibile agevolazione degli abusi, con particolar riguardo all’aggiramento della disciplina sui licenziamenti collettivi, e soprattutto ai rischi per i lavoratori in ordine ad un trasferimento in capo a soggetti imprenditoriali, spesso nella pratica creati ad hoc, che potrebbero non avere i requisiti organizzativi ed economici del cedente.
 
La dottrina è divisa tra chi ritiene che la nuova norma abbia inteso superare il requisito della preesistenza del “ramo” alla cessione e chi, invece, ritiene tuttora necessario detto requisito e comunque non sufficiente la mera volontà delle parti – cedente e cessionario – nella qualificazione dell’oggetto del trasferimento. La rilevanza della questione è segnata dal labile confine, sul piano pratico, tra la fattispecie in esame e quella della cessione del contratto, la quale – al contrario della prima – necessita del consenso del contraente ceduto (art. 1406 c.c.). In assenza di quest’ultimo, la cessione è nulla per difetto di accordo tra le parti, avendo la figura di cui all’art. 1406 cit. struttura trilaterale. Ne discende che il lavoratore – contraente ceduto – resta alle dipendenze del cedente. In virtù di quanto osservato, la criticità della riforma del 2003 consiste nell’aver reso incerto il nuovo quadro normativo, assai più che nell’aver agevolato gli abusi, per i quali soccorre comunque l’art. 1344 c.c.. Come l’odierna pronuncia della Cassazione conferma, tale incertezza non è stata superata dalla sentenza della Corte di Giustizia 6 marzo 2014, causa C- 458/12 (in Boll. ADAPT, 2014, n. 11), che pure ha stabilito la compatibilità comunitaria della disciplina nazionale. Anzi, come si noterà a breve, la Cassazione non esita ad invocare la decisione dei giudici comunitari a sostegno della propria tesi.
 
La pronuncia della Cassazione
 
Relativamente al merito della sentenza, va innanzitutto precisato che essa applica l’art. 2112 c.c. nel testo anteriore al d.lgs. 276/2003. Tuttavia, il tenore della decisione evidenzia un orientamento di legittimità che prescinde dalle modifiche normative nazionali, nella misura in cui richiama direttamente le fonti comunitarie.
 
In sintesi, la Corte rammentando il rapporto tra art. 1406 c.c. e 2112 c.c., che definisce in termini di regola ad eccezione, ribadisce il proprio orientamento che ritiene essenziale il requisito della preesistenza della porzione di azienda da trasferire ai fini della legittimità dell’operazione. La giurisprudenza, invero, ritiene «operante, anche a seguito del d.lgs. n. 276 del 2003, art. 32, il principio per cui per “ramo d’azienda”, ai sensi dell’art. 2112 c.c., deve intendersi ogni entità economica organizzata la quale, in occasione del trasferimento, conservi la sua identità – come del resto previsto dalla prima parte del d.lgs. n. 276 del 2003, art. 32 – presupponendo ciò comunque una preesistente entità produttiva funzionalmente autonoma (potendo conservarsi solo qualcosa che già esiste), e non anche una struttura produttiva creata ad hoc in occasione del trasferimento o come tale unicamente identificata dalle parti del negozio traslativo, essendo preclusa l’esternalizzazione come forma incontrollata di espulsione di frazioni non coordinate fra loro, di semplici reparti o uffici, di articolazioni non autonome, unificate soltanto dalla  volontà dell’imprenditore e non dall’inerenza del rapporto ad una entità economica dotata di autonoma ed obiettiva funzionalità» (cfr. recentemente Cass. 15 aprile 2014, n. 8757; Cass. 3 ottobre 2013, n. 22627). La Corte sostiene che sussista evidente un interesse del lavoratore a far dichiarare la non efficacia della cessione del “ramo” nei suoi confronti, non essendo per lui irrilevante il mutamento della posizione del datore-debitore, che può offrire tutele meno ampie per i diritti dei prestatori.
 
Quel che interessa rilevare in questa sede è che, oltre a richiamare i propri precedenti, i giudici di legittimità invocano la Direttiva 2001/23/CE e la recente sentenza della Corte di Giustizia sopra citata. La prima, che non conosce la cessione di ramo aziendale, intende il trasferimento di azienda come quello di un’entità economica che conservi una propria identità, intesa come insieme di mezzi organizzati al fine di svolgere un’attività economica. L’arresto giurisprudenziale europeo ha posto il principio secondo cui la disciplina comunitaria non osta ad una normativa nazionale, come quella italiana, la quale, in presenza di un trasferimento di una parte di impresa, consenta la successione del cessionario al cedente nei rapporti di lavoro nell’ipotesi in cui la parte di impresa in questione non costituisca un’entità economica funzionalmente autonoma preesistente al suo trasferimento. Tuttavia, rammenta la Cassazione, la Corte di Lussemburgo, nell’affermare tale principio, ha anche stabilito che il trasferimento di impresa in senso comunitario implica la preesistenza dell’entità economica da alienare; in virtù di ciò, la Suprema Corte nazionale ritiene confermata la correttezza della propria tesi circa la necessità del requisito della preesistenza della porzione di impresa oggetto di cessione.
 
La sentenza in commento è destinata a far riflettere quanti si erano affrettati a ritenere che la pronuncia della Corte di Giustizia avesse posto fine alla questione, sorta dopo il d.lgs. n. 276/2003, della necessità della preesistenza nella fattispecie di cui al comma 5 del richiamato art. 2112 c.c..
 
 
Carmine Santoro
Scuola internazionale di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro
ADAPT-CQIA, Università degli Studi di Bergamo
@carminesantoro
 
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