C’erano una volta le relazioni industriali … e adesso?

“Once upon a time we had industrial relations … What’s next?” è il titolo provocatorio di un seminario internazionale tenutosi lo scorso 10 ottobre presso La Statale di Milano. Nella Sala delle Lauree della Facoltà di Scienze Politiche, Economiche e Sociali si sono riuniti nomi illustri nel campo delle relazioni industriali: Colin Crouch (Warwick University), Richard Hyman (London School of Economics), Wolfgang Streeck (Max-Planck-Institute Cologne) e Jelle Visser (University of Amsterdam). A fare gli onori di casa, i professori Ida Regalia e Marino Regini dell’Università degli Studi di Milano.

 

Parlare di futuro delle relazioni industriali non significa ignorarne le fondamenta. Regini dà, così, inizio al seminario ripercorrendo l’ascesa del sindacato e l’affermazione della contrattazione collettiva in un’epoca, quella del fordismo come modello di produzione, in cui i lavoratori condividevano medesime condizioni e per il sindacato era piuttosto facile individuare e rappresentare l’interesse collettivo. La contrattazione con la rappresentanza sindacale divenne quindi un metodo utile anche alla direzione aziendale per comunicare con l’intera forza lavoro, omogenea nel suo essere prevalentemente maschile e scarsamente qualificata. Hyman parla più precisamente di un “compromesso storico”, riferendosi all’equilibrio che le forze del capitale e del lavoro instaurarono nel dopo-guerra per assicurare il contemperamento tra diverse esigenze, come quella di contrastare la povertà e la disoccupazione e quella di controllare la crescita salariale. Le controversie nei rapporti tra classi si risolsero così nell’istituzionalizzazione (e legittimazione) delle relazioni industriali, capaci di comporre il conflitto collettivo. Parafrasando Visser, il sindacato trovò la sua raison d’être nel generare valore per i singoli lavoratori e nel risolvere quelle questioni economiche di carattere generale (es. produttività, livelli salariali che assicurino potere d’acquisto ai lavoratori ma non inibiscano gli investimenti, ecc.) che il capitale da solo era incapace di affrontare, contribuendo così al benessere della società.

 

Le relazioni industriali si affermarono nella pratica, come modello di governance del lavoro, e nella teoria, come disciplina che si avvaleva del contributo di diverse materie, tra cui il diritto del lavoro, l’economia, la sociologia e la scienza politica, per interpretare la realtà. Gli attori collettivi venivano interpretati come i promotori di una fonte di regolazione ulteriore a quella legislativa, che interveniva nelle logiche di mercato per favorire forme di democrazia industriale e garantire l’ordine sociale (Streeck).

 

Ma l’età dell’oro delle relazioni industriali sembra essere ormai giunta al capolinea. Colpa del declino del Fordismo, che ha favorito il ritorno all’individualizzazione nei rapporti di lavoro (Regini) e di fenomeni come la competizione internazionale e la finanziarizzazione dell’economia, che hanno innescato la progressiva erosione delle istituzioni di relazioni industriali: sindacato e contrattazione collettiva, in primis. Hyman prosegue nella sua relazione, identificando la mercificazione dell’istruzione terziaria, e quindi la crescita delle scuole di business e l’affermazione dello Human Resource Management, come le dimostrazioni più eloquenti di una c.d. illiberal practicality, (termine introdotto dal sociologo C. Wright Mills): la tendenza delle scienze sociali e della ricerca in questo ambito a servire alle richieste e alle problematiche delle imprese, allontanandosi progressivamente dal contesto accademico. Tornando a un ambito più prettamente negoziale, Visser approfondisce le cause del declino dei tassi di densità sindacale e di copertura della contrattazione collettiva. Cambiamenti strutturali quali la maggiore discontinuità nei rapporti di lavoro e la frammentazione dei processi produttivi hanno, infatti, sottratto al sindacato porzioni consistenti di potere negoziale, agevolando il ritorno a fenomeni di free-riding. Alla diminuzione della copertura contrattuale ha, invece, contribuito la maggiore eterogeneità delle imprese e il loro progressivo allontanamento da una contrattazione di tipo settoriale. Si tratta di fenomeni, precisa il professore olandese, che pur riscontrabili nella vasta area dell’Unione europea, possono variare considerevolmente in ragione delle diverse capacità delle organizzazioni sindacali nazionali e delle politiche messe in atto dai governi locali. Complessivamente, però, l’indebolimento del sindacato preoccupa gli studiosi di relazioni industriali giacché la forza delle organizzazioni di rappresentanza dei lavoratori è stata spesso ritenuta una leva fondamentale per la riduzione delle disuguaglianze di reddito, l’impegno e la partecipazione civile delle persone, la crescita degli investimenti e della produttività.

 

In questo quadro di radicale trasformazione, sembra difficile formulare previsioni e offrire risposte plausibili alla domanda posta a titolo del convegno. Eppure, spunti interessanti di riflessione sono emersi dagli interventi conclusivi degli esperti coinvolti. Visser si chiede se il sindacato sia ancora necessario (e voluto dalle istituzioni pubbliche) per risolvere questioni di carattere generale, come la produttività, la formazione continua, l’integrazione delle persone nel mercato del lavoro e la regolazione salariale. Streeck si rivela, invece, più ottimista e proattivo, suggerendo alle relazioni industriali di affrontare tematiche attuali, quali il declino dei tassi di crescita nel mondo occidentale e l’aumento delle disuguaglianze. Gli studiosi e operatori di relazioni industriali devono, infatti, stimolare un cambiamento profondo nel pensiero economico e ribadire l’importanza del benessere sociale rispetto alla mera produzione di ricchezza.“IR are not about money, they’re about dignity”. Il tema delle iniquità e degli squilibri nella forza lavoro è stato affrontato anche da Crouch, che ha ricordato una funzione importante del sindacato: la ricerca del miglior equilibrio tra il bisogno di massimizzare l’occupazione e quello di minimizzare le disuguaglianze. Del resto, “if unions are declining it’s not because there’s no work for them to do”. E il pensiero, a pochi giorni dalla protesta dei fattorini di Foodora, va immediatamente ad una delle categorie più difficili da tutelare: i lavoratori della gig economy. Passando dalle questioni ai contesti di azione sindacale, Crouch e Regalia hanno promosso rispettivamente l’ambito internazionale, ancora scarsamente sviluppato, e quello territoriale. In particolare, la professoressa italiana ha illustrato la varietà di soluzioni che questo livello può offrire: dalla contrattazione sociale sulle politiche di welfare, alla sottoscrizione di veri e propri patti territoriali, fino alla costituzione di organismi multilaterali locali. Il potenziale della dimensione territoriale starebbe, infatti, nella capacità di creare partnership tra soggetti pubblici e privati e mettere in rete le risorse a disposizione per rispondere alla minore stabilità nei rapporti di lavoro, garantendo maggiori tutele e opportunità nelle transizioni da un impiego a un altro, potenziando, tra le altre, le fasi di formazione e qualificazione professionale.

 

 Ilaria Armaroli

ADAPT Junior Research Fellow

@ilaria_armaroli

 

Scarica il PDF pdf_icon

 

C’erano una volta le relazioni industriali … e adesso?