Voucher: il compromesso del comune malcontento

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Lo scorso marzo, nell’intento di evitare il confronto referendario, il Governo con decretazione d’urgenza ha abrogato in toto la disciplina del lavoro accessorio, oggetto peraltro di una recente riforma che ne ampliava i margini di utilizzo (artt. 48-50 d.lgs. n. 81/2015) e di un ancor più recente intervento correttivo (si tratta del d. lgs. n. 185/2016) che ne obbligava la piena tracciabilità informatica quando utilizzato da datori di lavoro profit (v. P. RAUSEI, Il lavoro accessorio alla prova del correttivo: un sistema sanzionatorio fragile e incoerente).

 

Con ciò si è di fatto creato un vero e proprio vuoto normativo, effetto di cui è stato da subito consapevole anche lo stesso decisore politico, impegnato già dal giorno successivo all’entrata in vigore del decreto di abrogazione a correre ai ripari immaginando “nuovi” strumenti alternativi ai voucher. Vuoto normativo le cui conseguenze sono amplificate dall’inizio imminente della stagione estiva, cui prestazioni di lavoro assistite da ridotti obblighi procedurali sono quanto mai indispensabili per sopperire a momentanei carichi di lavoro (si pensi in particolare alle attività legate al turismo).

 

Con un emendamento alla manovra correttiva presentato da alcuni deputati della maggioranza e tacitamente appoggiato dall’Esecutivo (art. 54-bis A.C. 4444, ora A.S. 2853), votato in Commissione Bilancio alla Camera lo scorso 27 maggio, il Legislatore si appresta di fatto a re-introdurre nel nostro ordinamento forme di lavoro accessorio.

 

Usiamo il plurale poiché in effetti due sono gli strumenti che si vogliono introdurre, da distinguersi per natura, forma, limiti, contribuzioni e procedure a seconda della natura del committente, seppure accomunati dai limiti di carattere retributivo.

In particolare, nel corso di un anno civile: (a) ciascun prestatore, con riferimento alla totalità degli utilizzatori, potrà percepire massimo 5 mila euro; (b) ciascun utilizzatore, con riferimento alla totalità dei prestatori, potrà erogare complessivamente un massimo di 5 mila euro; (c) per le attività svolte da ogni prestatore in favore del medesimo utilizzatore, non si potrà dare luogo a compensi superiori ai 2.500 euro.

Preliminarmente all’accesso a tali forme di impiego della forza lavoro, entrambi i soggetti dovranno registrarsi su una apposita piattaforma informatica gestita a cura dell’INPS, che supporta le operazioni di erogazione e accreditamento dei compensi e di gestione della posizione contributiva del lavoratore.

 

Laddove l’utilizzatore sia una persona fisica, la piattaforma consente di acquistare (anche attraverso gli uffici postali) un libretto nominativo prefinanziato denominato “Libretto Famiglia” che consente il pagamento di una o più prestazioni occasionali il cui valore nominale orario è pari a 10 euro. Restano poi a carico del committente: la contribuzione alla gestione separata (€ 1,65), il premio per l’assicurazione INAIL (€ 0,25), altri oneri gestionali (€ 0,10). Lo stesso committente attraverso la medesima piattaforma ha l’obbligo di comunicare i dati identificativi del prestatore, il compenso pattuito, il luogo dello svolgimento e la durata della prestazione, entro il giorno 3 del mese successivo a quello di svolgimento dell’attività lavorativa.

Attività che comunque è confinata a: piccoli lavori domestici (giardinaggio, pulizia, manutenzione); assistenza domiciliare agli anziani, a persone ammalate o con disabilità; ripetizioni.

 

Laddove invece l’utilizzatore sia una impresa, la norma introdurrà requisiti di accesso assai stringenti, che lo rendono molto diverso dal previgente “buono lavoro”. È infatti vietato il ricorso al contratto di lavoro accessorio alle imprese che abbiano alle proprie dipendenze più di cinque lavoratori dipendenti a tempo indeterminato; appartengano al settore agricolo, dell’edilizia ed affini; siano parte di contratti di appalto di opere o servizi.

In questa ipotesi, diversamente dal caso visto pocanzi, si tratta di un vero e proprio contratto di lavoro, carico dei relativi oneri gestionali; l’emendamento specifica infatti che «il contratto di prestazione occasionale è il contratto mediante il quale un utilizzatore [impresa] acquisisce, con modalità semplificate, prestazioni di lavoro occasionali o saltuarie di ridotta entità […]».

L’impresa che vorrà fare ricorso a questa nuova tipologia contrattuale dovrà trasmettere – attraverso la consueta piattaforma INPS ed almeno un’ora prima dell’inizio della prestazione – apposita dichiarazione contente, fra l’altro, i dati anagrafici del prestatore, il luogo di svolgimento della prestazione, l’oggetto, la data e l’ora di inizio e termine della prestazione, il compenso pattuito, che non dovrà essere inferiore a 36 euro per prestazioni di durata non superiore a quattro ore continuative nell’arco della medesima giornata.

Qui la misura minima oraria prevista è di norma pari a 9 euro, cui si aggiungono – a totale carico dell’utilizzatore – il 33% del compenso da destinare alla contribuzione della gestione separata INPS, il premio per l’assicurazione INAIL pari al 3,5% del compenso.

 

È difficile commentare una norma di questo genere, anche per la particolare attenzione che la politica (e conseguentemente i media) hanno dedicato all’argomento, facendo diventare quella dei voucher una materia oggetto di opinione pubblica e non più solo riservata agli addetti ai lavori (collocazione anche ragionevole se considerata l’estrema residualità statistica di questa particolare forma di lavoro rispetto al totale dei rapporti di lavoro attivi in Italia).

 

Il punto di equilibrio politico di questa ultima riformulazione del lavoro occasionale di natura accessoria pare essere quello del comune malcontento.

 

Si tratta di una soluzione peggiorativa per le famiglie, che non hanno più il vantaggio della gestione cartacea del rapporto né i ben più generosi limiti economici previgenti (7.000 euro).

 

In secondo luogo, nella ipotesi approvata dal Governo, non trova spazio il terzo settore, che pure utilizzava frequentemente (e anche in maniera virtuosa) questo strumento: il no-profit rimane schiacciato dalla generica e grossolana distinzione degli utilizzatori tra famiglie e imprese.

 

Proprio le imprese (terza considerazione) sono le più penalizzate da questa (eventuale) norma. Indubbiamente si tratta di una scelta politica, una sorta di vendetta per l’eccessivo utilizzo dei voucher realizzato in passato dalle imprese (opinione, questa, di natura politica, invero non troppo supportata dalle statistiche fornite dall’INPS). Fatto sta che il limite di 5 dipendenti e il divieto all’utilizzo del voucher in agricoltura sono vincoli tali da escludere dagli utilizzatori del nuovo “contratto di prestazione occasionale” la larga maggioranza di coloro che lo hanno utilizzato fino a marzo 2017.

Da ultimo, se è vero che la proposta in oggetto non piace ai potenziali beneficiari, è ancor più evidente il suo effetto sulla CGIL, che aveva raccolto le firme per il referendum abrogativo del buon lavoro, non realizzatosi solo perché neutralizzato dalla abrogazione operata dal Governo. La volontà di quello stesso Governo, evitata la consultazione popolare, di “riprendere in mano il dossier” ovviamente non può che avere l’effetto del tradimento istituzionale su chi aveva proposto la semplice e netta abrogazione del lavoro accessorio.

 

Il Libretto di Famiglia e il contratto di prestazione occasionale, quindi, sono solo parzialmente destinati a sostituire il buono lavoro. Paradossalmente, finiscono per rendere ancora più evidenti i meriti di quell’istituto, non emulabile salvaguardando la natura subordinata del rapporto di lavoro (vincolo imposto dal superamento del referendum) né pretendo di definire l’occasionalità come una dimensione esclusivamente economica, controllabile semplicemente con le soglie massime di utilizzo dei nuovi (mini) contratti.

 

Emmanuele Massagli

Presidente ADAPT

@EMassagli

 

Marco Menegotto

Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro

Università degli Studi di Bergamo

@MarcoMenegotto

 

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