A volte ritornano: la lotta ai “fannulloni”

Ha subito fatto notizia la dichiarazione del Presidente del Consiglio di voler approvare nel Consiglio dei Ministri convocato per mercoledì prossimo il primo decreto di riforma della Pubblica Amministrazione, con un anticipo di circa un anno rispetto alla scadenza naturale della delega e ribaltando il “cronoprogramma” di cui si era parlato fino ad oggi.

L’esigenza (politica) nasce dalle continue notizie di casi in cui (talvolta numerosi) dipendenti pubblici si assentano abitualmente dal servizio, con l’aiuto di colleghi compiacenti che timbrano il cartellino al posto loro.

 

La volontà del Governo è quella di far avviare il procedimento disciplinare e disporre la relativa sospensione dal servizio e della retribuzione entro 48 ore dalla commissione dell’illecito disciplinare, almeno per i casi in cui i lavoratori siano colti sul fatto con prove inequivocabili (quali ad esempio le riprese dei circuiti di videosorveglianza).

L’intento, di per sé condivisibile, rischia però di cadere, nella pratica, in un nulla di fatto, se si considera che le leggi “d’impeto”, confezionate in breve tempo e senza il confronto con i destinatari, spesso finiscono per esser lettera morta sin dalla nascita. È invece utile muoversi su questo terreno con cautela, analizzando i dati e con la consapevolezza che il nostro ordinamento conosce già, almeno dal 2009, buone regole in materia.

 

In attesa dello schema di decreto legislativo, si possono svolgere alcune considerazioni di massima.

Il Dipartimento della Funzione Pubblica ha certificato che dei procedimenti disciplinari aperti nel corso del 2013 (ultimi dati disponibili) è arrivato a conclusione ben il 91%, con una durata media dell’iter pari a 102 giorni, con picchi per il comparto Ministeri e Agenzie (148,5 giorni) e Università (121,5 giorni). Tanto? Poco? Andiamo con ordine.

La legge oggi prevede che, per le ipotesi di illeciti cui conseguono sanzioni più gravi (sospensione dell’attività e della retribuzione per più di dieci giorni o licenziamento), l’ufficio competente debba contestare per iscritto al dipendente l’addebito entro quaranta giorni, convocandolo per il contraddittorio con un preavviso minimo di venti giorni. Infine l’ufficio deve esprimersi nel giro di altri centoventi giorni. Tempi dimezzati invece per le ipotesi in cui siano previste sanzioni minori.

Si può dire dunque che in media i dirigenti responsabili rispettino le prescrizioni legislative.

 

Con specifico riferimento alle vicende emerse dalla recente cronaca, è utile ricordare inoltre che la legge prevede già il licenziamento senza preavviso nel caso di falsa attestazione della presenza in servizio o di giustificazione dell’assenza con certificati di malattia falsi o falsamente attestanti lo stato di malattia, senza la necessità di sospendere il procedimento interno in attesa della definizione della posizione dei singoli in sede penale.

In questi casi è pure prevista la reclusione da uno a cinque anni e la multa da 400 a 1600 euro, con risarcimento del danno patrimoniale (retribuzioni percepite) e di immagine alla amministrazione di appartenenza; sanzioni estese anche ai medici (che subiscono altresì la radiazione dall’albo) e a chiunque agevoli la commissione degli stessi illeciti.

 

Da questa rapida panoramica non sembra emergere l’esigenza di un nuovo intervento normativo che, abbandonata di fatto l’idea di un Testo Unico per le nuove norme in materia di pubblico impiego, rischierebbe al contrario di appesantirne ancor di più la gestione. Come già osservato, infatti, le regole ci sono e il problema, come spesso accade, è garantirne e, soprattutto, incentivarne l’applicazione. Pertanto, piuttosto che intervenire sul versante sanzionatorio del fenomeno dell’assenteismo, il cui attuale regime punitivo sembra già avere sufficiente efficacia deterrente, sarebbe forse più opportuno puntare alla responsabilizzazione del ruolo di indirizzo e di governo delle amministrazioni pubbliche. Obiettivo che si può raggiungere solamente attraverso un maggior grado di partecipazione dei lavoratori alle scelte gestionali, soprattutto con riguardo alle realtà più “a rischio”, a cui si può pervenire solo attraverso un’azione consapevole delle parti sociali e dell’ARAN – gli unici che possono conoscere davvero la realtà in cui operano – cogliendo l’opportunità offerta dalla nuova stagione negoziale.

 

Ci sarebbe poi da chiedersi se non sia uno strumento altrettanto idoneo a contrastare l’assenteismo anche una maggiore (e migliore) partecipazione dei lavoratori agli utili attraverso effettivi premi di produttività. Ma ciò a condizione che questa partecipazione non sia architettata come un emolumento di automatica ed indiscriminata erogazione, bensì sia veramente condizionata al raggiungimento di significative soglie di efficienza. Ovviamente il parametro di questi premi non potrà essere l’utile prodotto dal singolo ufficio della PA in termini assoluti, ma dovrà essere individuato, soprattutto nel caso degli enti pubblici non economici, utilizzando indicatori effettivi ed oggettivi.

 

Marco Menegotto

ADAPT Junior Fellow

@MarcoMenegotto

 

Lorenzo Maria Pelusi

Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro

ADAPT, Università degli Studi di Bergamo

@lorempel

 

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A volte ritornano: la lotta ai “fannulloni”
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