Videosorveglianza: il consenso dei lavoratori non basta

Con la sent. dell’8 maggio 2017, n. 22148 la Corte di Cassazione ha dichiarato la rilevanza penale della condotta di un datore di lavoro, che aveva installato strumenti audiovisivi sul luogo di lavoro, senza il previo esperimento della procedura sindacale o amministrativa, di cui all’art. 4 della L n. 300 del 1970, ai sensi del quale per poter installare tali impianti deve essere stato siglato un accordo tra le Rappresentanze sindacali dei lavoratori e quelle dei datori di lavoro o in alternativa deve sussistere un’autorizzazione dell’Ispettorato del lavoro.

 

Nel caso di specie la difesa del datore di lavoro si è concentrata su due aspetti in particolare: in primo luogo l’installazione delle telecamere, in ragione della loro ubicazione, non avrebbe consentito alcun controllo a distanza sull’attività dei lavoratori; inoltre tutti i lavoratori avrebbero prestato il loro consenso orale all’installazione, facendo il tal modo venir meno la rilevanza penale della condotta.

 

In riferimento al primo motivo la Suprema Corte ha rigettato la tesi del ricorrente, rifacendosi a quanto affermato dalla sentenza di primo grado del Tribunale di Terni e sottolineando in particolare la contraddittorietà con cui la difesa affermava l’insussistenza di un controllo a distanza e al contempo attribuiva al consenso orale dei lavoratori efficacia scriminante del fatto contestato. Osservando, inoltre, che per integrare la condotta che l’art. 4 della L. n. 300 del 1970 intende scongiurare sia sufficiente anche la mera possibilità di un controllo a distanza sull’attività dei lavoratori; eventualità che la sentenza di primo grado non aveva escluso e anzi aveva risolto in senso diametralmente opposto rispetto a quanto sostenuto dalle difese del datore di lavoro che – come si è detto – sottolineava l’impossibilità che dal funzionamento di questi strumenti potesse derivare un controllo a distanza.

 

Tuttavia a meritare particolare attenzione è soprattutto quanto affermato dalla Suprema Corte in relazione al secondo motivo.

In una precedente pronuncia, infatti, la Cassazione si era espressa nel senso di attribuire al consenso prestato dai lavoratori valore scriminate della condotta del datore di lavoro che avesse installato i predetti impianti in violazione delle prescrizioni dettate dalla fattispecie incriminatrice (v. in tal senso Cass. pen. 17/04/2012, n. 22611): attraverso questa pronuncia la Suprema Corte ha invece fatto dietrofront, ponendosi tra l’altro in linea con quanto già affermato dal Garante per la protezione dei dati personali (Garante per la protezione dei dati personali, Relazione per l’anno 2013, in www.garanteprivacy.it).

 

Alla base del mutato orientamento la Corte ha sottolineato l’incondivisibilità di quanto precedentemente affermato in merito all’esclusione dell’integrazione dell’illecito in ragione della sussistenza del consenso liberamente prestato da parte del titolare del bene protetto.

Nella recente sentenza la Cassazione ha infatti evidenziato come “la norma penale in discorso, al pari di quelle che richiedono l’intervento delle rappresentanze sindacali dei lavoratori per la disciplina degli assetti nei luoghi di lavoro, tutela interessi di carattere collettivo e superindividuale”, che nel caso di specie sono stati oggettivamente lesi dalla condotta del datore di lavoro, che non si è conformato alla previsione contenuta nell’art. 4 della L. n. 300 del 1970. In altre parole il consenso del lavoratore non è sufficiente a giustificare il mancato esperimento della procedura codeterminativa disciplinata dal suddetto articolo in quanto finalizzata appunto a tutelare interessi collettivi e superindividuali.

 

Attraverso questa decisione la Corte ha dunque sottolineato la rilevanza del ruolo che il legislatore ha assegnato alle Rappresentanze sindacali dei lavoratori (o in alternativa, in caso di mancato raggiungimento dell’accordo all’Ispettorato del lavoro), che devono vigilare sulla corretta applicazione di quanto disposto nell’art. 4 della L. n. 300 del 1970.

L’attribuzione di questo compito alle Rappresentanze sindacali risponde infatti a un fine specifico che è quello di bilanciare il potere negoziale del singolo lavoratore con quello del datore di lavoro, che detiene la posizione di forza nel rapporto. In ragione di tale incontestabile squilibrio il lavoratore potrebbe infatti essere facilmente coartato o comunque indotto a prestare il proprio consenso all’installazione di strumenti di controllo a distanza e se ciò fosse sufficiente a poter installare questi impianti senza il necessario esperimento della procedura code terminativa si andrebbe a ledere l’intento del legislatore.

 

In conclusione può dunque affermarsi che attraverso questa pronuncia la suprema Corte abbia corretto il tiro rispetto al precedente orientamento, chiarendo che “l’assenso delle rappresentanze sindacali è previsto per legge come uno dei momenti essenziali della procedura sottesa all’installazione degli impianti, derivando da ciò l’inderogabilità e la tassatività sia dei soggetti legittimati e sia della procedura autorizzativa di cui all’art. 4 Statuto dei lavoratori” e scongiurando così la possibilità di aggirare il dettato normativo.

 

Cecilia Delpiano

ADAPT Junior Fellow

@Delpiano Cecilia

 

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