Verso il convegno internazionale “La Grande Trasformazione del Lavoro”

Non vi è dubbio che la crescente flessibilizzazione e frammentazione dei processi produttivi, la maggiore diversità della forza lavoro, la pressione delle dinamiche economiche globali e i progressi compiuti dalle tecnologie dell’informazione e comunicazione hanno aperto un grosso dibattito sulle nuove sfide che si pongono per lavoratori, aziende, intermediari, istituzioni e parti sociali.

 

Sono le stesse organizzazioni internazionali a fotografare la complessità del fenomeno in corso. Se da un lato si osserva una maggiore diffusione di forme di occupazione svolte in assenza di un contratto di lavoro – a livello globale questo gruppo rappresenta la stragrande maggioranza dei lavoratori (60,7%), tra cui si contano soprattutto lavoratori autonomi e coloro che svolgono un lavoro familiare non retribuito (ILO, 2015), dall’altro lato, emergono “nuove forme di lavoro”, ossia nuovi modelli di relazione di lavoro (tra il lavoratore dipendente e il datore di lavoro, o tra il cliente e il lavoratore) e nuove modalità attraverso cui l’attività lavorativa viene svolta. Nel primo gruppo, l’Eurofound rileva come emergenti l’employee sharing (dove il lavoratore è assunto da un gruppo di datori di lavoro) e il job sharing (dove il datore di lavoro assume più lavoratori per svolgere un’unica attività), mentre nel secondo gruppo si distinguono l’interim management, lavoro occasionale, lavoro mobile basato sulle nuove tecnologie, crowd employment, portfolio work e lavoro collaborativo. Senza dimenticare la diffusione del lavoro on-demand (si veda E. Dagnino, Uber law: prospettive giuslavoristiche sulla sharing/on-demand economy, ADAPT LABOUR STUDIES e-Book series giugno 2015, bozza) e le evoluzioni che mansioni, orari, luoghi di lavoro e competenze stanno conoscendo in conseguenza dell’applicazione dell’Internet of Things nella produzione industriale (si veda, F. Seghezzi, Come cambia il lavoro nell’Industry 4.0?, ADAPT Working Paper n. 174/2015).

 

Così, per molte persone, il lavoro non standard, dall’essere una modalità temporanea (e per certi versi eccezionale) di svolgimento dell’attività lavorativa, sta gradualmente diventando un vero e proprio percorso di carriera. Una situazione che solleva diversi quesiti in quanto, allontanandosi dalla formula tradizionale del “contratto di lavoro subordinato a tempo determinato”, implica una discontinuità in termini di reddito, accesso al sistema di previdenza sociale, inclusione nei meccanismi di rappresentanza etc. Situazione che, a sua volta, porta il lavoratore a vivere il lavoro come una condizione individuale e in continua transizione (quello che molti chiamano come il “nuovo precariato”).

 

Diverse sono state le reazioni dei Governi di fronte a questi nuovi trend. Si passa da proposte innovative, come quella del compte personnel d’activité francese che, introducendo un unico conto personale in cui vengono accumulati i diversi diritti acquisiti nel corso della carriera professionale indipendentemente dalla formula contrattuale, cerca di rispondere alle criticità delle nuove forme di impiego, a proposte più rigide, come quella del single employment contract (contratto unico), che invece cerca di applicare un’unica formula contrattuale a forme e modalità di lavoro che in realtà non rispondono alle reali, diverse e molteplici esigenze produttive e aziendali, che difficilmente si addicono ad un “modello unico” di regolazione del rapporto di lavoro.

 

La situazione si complica se si considera che la prolungata recessione, che ha avuto inizio con la crisi finanziaria mondiale del 2008, ha portato ulteriori elementi di complessità e criticità. Sempre l’Eurofound rileva l’acuirsi del processo di polarizzazione dell’occupazione dei paesi industrializzati (Giappone, Europa, Stati Uniti): aumentano i posti di lavoro meglio retribuiti e quelli meno retribuiti, mentre diminuiscono i posti di lavoro mediamente retribuiti. Parallelamente, la recessione ha portato i policy makers a dare maggiore enfasi non solo alla quantità dei posti di lavoro, quanto alla qualità del lavoro – nelle parole dell’OECD «not just more jobs, but better jobs». Un concetto ritenuto di centrale importanza per il benessere della persona e per una migliore performance economica, ma che tuttavia risulta ancora difficile da definire e misurare. Gli stessi accademici sostengono che sia più facile definire cosa costituisce un “cattivo lavoro” piuttosto che “un buon lavoro” (Warhurst, 2015). Per colmare questo gap l’OECD ha di recente cercato di identificare gli elementi che determinano la qualità del lavoro: la qualità del reddito (e nello specifico in che misura l’occupazione contribuisce agli standard di vita dei lavoratori e delle proprie famiglie); la sicurezza nel mercato del lavoro (intesa come il rischio di perdere il proprio posto di lavoro e la possibilità di accedere sussidi per la disoccupazione); e infine, la qualità dell’ambiente di lavoro, che comprende aspetti quali il contenuto del lavoro, orario, relazioni con i colleghi etc. Tuttavia, l’identificazione di questi elementi non pare ancora sufficiente per trovare risposte esaurienti ai numerosi quesiti che rimangono aperti – chi deve intervenire? come intervenire? quando intervenire? perché intervenire? – e che sono sempre più centrali in un’epoca in cui garantire la sostenibilità del lavoro (si legga F. Romano, Sustainable work: appunti di ricerca per un’analisi giuridica, ADAPT Working Paper n. 174/2015) a fronte della maggiore diffusione di situazioni di vulnerabilità – come ad esempio quelle derivanti da una malattia (si legga M. Tiraboschi (a cura di), Occupabilità, lavoro e tutele delle persone con malattie croniche, ADAPT LABOUR STUDIES e-Book series n. 36/2014) o dall’esposizione a fattori ambientali e naturali (per un approfondimento si rinvia a M. Tiraboschi (a cura di), Catastrofi naturali, disastri tecnologici, lavoro e welfare, ADAPT Labour Studies e-Book series n. 29/2014) – diventano punti prioritari per aziende, parti sociali e governi.

 

Ed è così che temi, fino ad oggi affrontati in separate sedi, appaiono sempre di più interconnessi fra di loro –  flexicurity e lavoro dignitoso; produttività e inclusione nel mercato del lavoro; competenze e qualità della forza lavoro; opportunità aziendali e capacità individuali etc. E strumenti di misurazione, che per lungo tempo hanno interessato la tradizionale forma di lavoro del contratto di lavoro a tempo indeterminato e isolato il livello individuale, da quello dell’organizzazione aziendale e del mercato del lavoro, stanno di recente aprendosi a nuove domande di ricerca interdisciplinari e multilivello tese ad inquadrare e approfondire la quantità e la qualità delle forme di lavoro esistenti e ed emergenti.

 

Proprio di questi temi si è discusso una settimana fa al convegno internazionale Exploring non-standard employment in inclusive labour markets – outlining key issues and metrics  organizzato dal Flexwork Research Centre e ancora se ne discuterà nel prossimo convegno internazionale su La Grande Trasformazione del Lavoro organizzato dalla Scuola di Dottorato in Formazione della persona del mercato del lavoro dell’Università degli Studi di Bergamo e da ADAPT (6-7 novembre 2015). Questo evento, nello specifico, adottando un approccio interdisciplinare e comparato, radunerà in un’unica sede più di 50 studiosi di materie diverse ma tutte utili per comprendere le mille sfaccettature della Grande trasformazione del lavoro. Oltre ai temi sopra citati, si darà spazio all’evoluzione della visione del lavoro e come lo stesso significato della parola “lavoro” si trasformi secondo il contesto produttivo di riferimento. Si tratterà anche il tema del ruolo dell’alta formazione nella formazione e collocamento dei giovani, e nella promozione della figura del ricercatore in ambito non accademico (si rinvia a M. Tiraboschi, Dottorati industriali, apprendistato per la ricerca, formazione in ambiente di lavoro. Il caso italiano nel contesto internazionale e comparato, in Diritto delle Relazioni Industriali n. 1/2014). Infine, studiosi, ricercatori e professionisti si confronteranno sull’evoluzione delle forme di dialogo sociale tradizionali e sull’impatto che i cambiamenti demografici stanno avendo a livello di mercato del lavoro, politiche del lavoro e di azienda.

Gli stessi dottorandi della Scuola di Dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro dell’Università di Bergamo si confronteranno sulle questioni più discusse a livello nazionale e internazionale sul tema della Grande trasformazione del lavoro – Scambio o relazione: quale parola descrive meglio il lavoro del futuro? Thinkers o test takers: dove va il futuro della formazione? Legge o contratto nella regolazione del lavoro futuro? Il sindacato appartiene alla modernità del lavoro? Stato o sussidiarietà per un nuovo welfare della persona? – con il fine ultimo di alimentare ulteriormente gli osservatori e filoni di ricerca della nostra Scuola.

 

Francesca Sperotti

Responsabile Relazioni internazionali ADAPT

@FSperotti

 

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