Vent’anni di grandi riforme del lavoro: quali sfide per il giuslavorista di domani?

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Il 16 giugno scorso si è tenuto all’Università “Sapienza” di Roma un seminario dal titolo molto ambizioso: “Valori e tecniche delle riforme del lavoro dell’ultimo ventennio (1997/2017): continuità e discontinuità”. L’incontro è stato organizzato dai proff. Arturo Maresca, Silvia Ciucciovino e Ilario Alvino in collaborazione con il gruppo “Freccia Rossa” (composto da diversi docenti di diritto del lavoro animati dall’intento di promuovere riflessioni collettive su temi del diritto del lavoro e delle relazioni industriali) e ha visto il coinvolgimento di buona parte dei nomi più noti della scena giuslavoristica italiana. L’obiettivo degli organizzatori è stato quello di avviare una riflessione collettiva “a dadi fermi” (“Prendendo le distanze dalle asprezze […]”, riporta la locandina dell’iniziativa), una sorta di brainstorming, coinvolgendo alcuni tra i principali attori e interpreti delle ultime quattro grandi riforme del lavoro nostrane (Pacchetto Treu, legge Biagi, legge Fornero, Jobs Act) e chi ne ha osservato e commentato (e talvolta anche criticato) i valori e le problematiche attraverso il metodo universitario.

 

Dopo i saluti iniziali, ha aperto i lavori Tiziano Treu, il quale dopo aver elencato i meriti del suo “Pacchetto” (la legge 196/1997), precisando come tale provvedimento legislativo si sia collocato in netta discontinuità rispetto al passato, avendo aperto ad una ancora tenue flessibilità nella gestione dei rapporti di lavoro (e ricevendo per questo molti attacchi), ha espresso le potenzialità di uno strumento, la somministrazione di lavoro, che ha segnato l’inizio di una partnership pubblico-privata nel mercato del lavoro italiano e i cui albori risalgono proprio alla legge che porta il nome dell’ex ministro del lavoro. Lo stesso De Luca Tamajo (nel ruolo di moderatore dei lavori della mattina) ha espresso apprezzamenti per questo sistema di “esternalizzazione” della forza lavoro, elogiando soprattutto le virtù del meccanismo formativo (FormaTemp) legato ai lavoratori in somministrazione (i quali, probabilmente, sono gli unici a “trascinarsi” le competenze formative acquisite nell’arco dell’intera carriera professionale). A conclusione della prima tranche di interventi, Lorenzo Zoppoli, riflettendo sulla visione di sistema e sui valori della riforma del ’97, ha individuato nel Pacchetto Treu “il primo tentativo del diritto del lavoro di cambiare senza negare se stesso”, ossia una sorta di mediazione politica ben riuscita attraverso cui far imboccare nuove strade al diritto del lavoro, la cui concreta attuazione (ed efficacia), tuttavia, è stata rimessa, con scarsi risultati, alla contrattazione collettiva.

 

A seguire, le successive relazioni sono state dedicate alla “legge Biagi” (legge 30/2003 e D.lgs. 276/2003), la cui introduzione è stata affidata al prof. Tiraboschi. I punti chiave per un’analisi coerente dei provvedimenti normativi in commento, secondo il professore, sono da individuare nell’analisi dei dati e nel contesto in cui si inserisce una riforma (“il giurista deve imparare a fare i conti con la realtà”). La prima dovrebbe servire proprio a verificare l’impatto e l’efficacia di una manovra legislativa e, a tal proposito, l’art. 17 del D.lgs. 276/2003 aveva già previsto un sistema di monitoraggio delle politiche del lavoro. Inoltre, andrebbero aggiunti altre due valutazioni di fondo: le riforme ante Jobs Act erano realizzate a costo zero; la riforma del Titolo V della Costituzione (e il conseguente decentramento regionalista delle competenze in materia di lavoro) era appena entrata in vigore, con i suoi pro e i suoi numerosi contro. Sempre il prof. Tiraboschi ha poi concluso offrendo diversi spunti al dibattito (presente e) futuro sul diritto del lavoro: il lavoro del futuro sarà ancora imperniato sulla dicotomia lavoro subordinato/lavoro autonomo? L’idea d’impresa, su cui si fonda l’intero Libro quinto del Codice Civile, è adattabile all’attuale contesto economico? La funzione storica del diritto del lavoro è (ed è stata) quella di tutelare il cd. “contraente debole” oppure dovrebbe essere meglio inquadrato quale diritto della produzione e della concorrenza? Infine, esso andrebbe costruito sul rapporto, sul mercato del lavoro o sulla persona? Dall’altro lato del tavolo, invece, si sono alzate le critiche all’impianto di fondo del decreto 276: per il prof. Barbieri la legge Biagi avrebbe rafforzato il contraente “forte” del rapporto di lavoro, mentre secondo il prof. Marazza il giurista non dovrebbe cimentarsi con l’economia.

 

La seconda parte del Seminario è stata moderata dal prof. Santoro Passarelli, il quale ha introdotto i lavori esprimendo alcune perplessità sul ruolo contemporaneo del giuslavorista. Secondo l’attuale Presidente della Commissione Nazionale di Garanzia ex legge 146/1990, il diritto del lavoro avrebbe l’esclusiva funzione di tutelare il soggetto debole del rapporto di lavoro e dovrebbe mantenere intatta la sua indipendenza dalle materie di stampo economicistico: altrimenti il docente di diritto del lavoro, che dovrebbe essere il soggetto deputato a salvaguardare l’autonomia della disciplina, rischierebbe di sparire. Subito dopo, il prof. Del Punta, cui è stata affidata la relazione su una riforma, la legge Fornero, che non è stata particolarmente apprezzata dai suoi commentatori, soprattutto dal punto di vista tecnico. Tant’è vero che lui stesso ha definito il suo intervento “un commento senza enfasi della legge”. Legge che è stata definita “ambigua e contradditoria” dalla prof.ssa Carinci, secondo cui la Fornero avrebbe segnato il ritorno del diritto del lavoro verso il terreno civilistico. Ad ogni modo, è riconosciuto da tutti che alla legge 92/2012 debba riconoscersi il merito (o il demerito) di aver “violato” il taboo dell’art. 18.

 

Dopo le relazioni sulla legge 92/2012, è toccato al Jobs Act il ruolo di osservato speciale. L’esposizione dei valori di fondo e della tecnica adottata è stata assegnata al Presidente dell’ANPAL Maurizio Del Conte, il quale ha ricondotto nell’alveo del Jobs Act sia la legge delega e i corrispondenti otto decreti legislativi sia la neopubblicata legge 81/2017 su lavoro autonomo e lavoro agile. Il prof. Del Conte ha individuato il fil rouge dell’ultima (in ordine cronologico) grande riforma del lavoro nello strumento dell’“incentivazione”: anzitutto regolativa, in quanto sono stati ridotti gli oneri di tipo normativo connessi al lavoro subordinato (primo tra tutti il contratto a “tutela” crescente, non tutele, in quanto ci si riferisce alla sola indennità risarcitoria prevista in caso di licenziamento illegittimo); poi “contrattualcollettiva”, poiché le parti sociali verrebbero “stimolate” e non forzate (v. D.lgs. 81/2015); infine (e soprattutto!) economica, mediante la riduzione a carico della spesa pubblica degli oneri economici legati al rapporto di lavoro, che ha prodotto quale ulteriore conseguenza una maggiore diffusione della contrattazione collettiva. Per di più, a detta del numero uno dell’ANPAL, la legge sul lavoro agile avrebbe il merito di aver reso eventuali, e non più necessari, alcuni elementi del rapporto di lavoro che in precedenza erano considerati fondamentali: il tempo e il luogo della prestazione. Interessanti sono state anche le osservazioni del prof. Roberto Romei secondo cui non esiste una funzione storica del diritto del lavoro: l’errore che si commette spesso è quello di farla coincidere con il ruolo che il diritto del lavoro ha avuto nel decennio 1966-1976. Altrettanto errato sarebbe immaginare un diritto del lavoro della grande impresa e uno della piccola impresa. Il Jobs Act, secondo il professore dell’Università “Roma Tre”, avrebbe rappresentato proprio “la lenta e faticosa emersione delle ragioni dell’impresa nel diritto del lavoro”, segnando un abbandono parziale della tecnica dell’inderogabilità in favore di rinvii alla contrattazione collettiva e valorizzando, mediante una spinta alla contrattazione di secondo livello, la professionalità acquisita dai lavoratori. Non solo. Romei ha concluso sostenendo che con la legge Fornero, prima, e il Jobs Act, dopo, staremmo assistendo ad una progressiva “degiuridificazione” del diritto del lavoro.

 

La parte finale del Seminario è stata dedicata agli sviluppi più recenti della rappresentanza negoziale e della contrattazione collettiva. La relazione principale è stata quella del prof. Caruso, il quale ha offerto una lettura disincantata di alcuni “falsi miti” contemporanei legati alle tematiche delle relazioni industriali. In primis, la presunta crisi del contratto nazionale di categoria, di cui si parla dalla vicenda Fiat in poi: secondo l’ex Assessore della Regione Siciliana, i dati parlano di ccnl rinnovati con regolarità e la direzione di Confindustria non sembrerebbe essere diversa (almeno per ora). Peraltro, in tale ottica il contratto di prossimità (art. 8 legge 148/2011) si sarebbe rivelato “una tigre di carta”: la sua concreta applicazione sarebbe risultata veramente ridotta. L’unica via di sviluppo per tale strumento contrattuale discenderebbe da un possibile legame tra contratto ex art. 8 e sicurezza offerta ai lavoratori in caso di licenziamento, reso ormai più semplice. Secondo Caruso, sarebbe inoltre necessaria, oggi più di ieri, una legge sulla rappresentanza, estesa anche alle associazioni di categoria, al fine di promuoverla e concentrarla. Anche nel CCNL Metalmeccanici, a suo dire, l’innovazione sarebbe stata più paventata che reale. Infine, anche le (“puntuali”) aperture del Jobs Act alla contrattazione collettiva andrebbero viste in chiave realistica: il reale incentivo alla contrattazione collettiva è stato rappresentato dalla leva economica.

 

In conclusione, ascoltando le numerose ed autorevoli relazioni del Seminario (che per motivi di spazio non possono essere tutte qui riportate), a mio avviso sono emerse diverse questioni non di poco conto. Una di queste è stata la riflessione “pacata” sulle riforme del lavoro degli ultimi vent’anni: interventi normativi che in fase di gestazione e approvazione sono stati bollati negativamente anche dalla dottrina prevalente, adesso possono essere apprezzati o criticati con obiettività e con una visione di lungo respiro. Di essi, inoltre, adesso possono esserne carpiti i valori di cui ancora oggi beneficia il nostro mercato del lavoro (mi riferisco in particolare alla somministrazione di lavoro).  D’altronde, l’obiettivo del Seminario è stato proprio quello di avviare un confronto aperto e disteso sulle recenti grandi riforme del lavoro. Un dibattito che però non può rimanere a guardare in chiave critica il passato senza che emerga l’ambizione di prendere la rincorsa verso il futuro (che ormai è presente). Tale esigenza è stata avvertita più volte nel corso del Seminario. Questo, a mio parere, per un semplice motivo: il quadro economico che faceva da sfondo al diritto del lavoro novecentesco è radicalmente mutato; pertanto, occorrono le giuste chiavi di lettura per interpretare il nuovo scenario e integrarsi attivamente con esso. Ed è altrettanto diffusa la convinzione che il diritto del lavoro potrebbe giocare un ruolo fondamentale in questo processo di trasformazione se solo abbandonasse le vecchie “lenti” utilizzate in un contesto sociale ormai tramontato per indossarne di nuove (e magari migliori), aprendosi alla novità senza alzare barricate aprioristiche ma offrendo un contributo unico nel suo valore. Infatti, non bisogna dimenticare che il baricentro di questi ragionamenti è costituito non da una merce di scambio ma dalla persona, dai suoi bisogni, dal valore spirituale e materiale del suo lavoro e dal beneficio che ne ricava la comunità.

 

Il giuslavorista di domani intende cogliere queste nuove sfide, estendendo le proprie competenze ad altri ambiti disciplinari e utilizzando strumenti più adeguati al mutato contesto socio-economico, oppure preferisce parlare a sé stesso rimanendo arroccato su una “torre di argilla”?

 

Matteo Di Gregorio

Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro

Università degli Studi di Bergamo

@matteo_gregorio

 

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