Un’analisi del gap previdenziale a livello europeo e italiano

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Il gap previdenziale, la differenza percentuale tra l’ultima retribuzione percepita e l’importo pensionistico, non è necessariamente un fattore economico negativo. Si è evidenziato che, anche se questi due elementi non coincidono, non si riscontrano evidenti problematiche sociali per il cittadino; infatti, solitamente, il pensionato riesce a mantenere un tenore di vita adeguato anche con un reddito inferiore a quello da lavoro poiché vengono a variare dei fattori di mercato (quali il mutuo della prima casa, la spese derivanti dal nucleo familiare e quindi dalla presenza di prole) che non vanno più ad incidere sulle spese quotidiane. Secondo Aviva – grande compagnia assicurativa britannica – il gap previdenziale, per non incidere negativamente sul tenore di vita del lavoratore, deve variare in base al livello dei redditi: per redditi bassi la compagnia suggerisce un gap pensionistico non superiore al 10%; per redditi medi la compagnia suggerisce un gap pensionistico non superiore al 35%; per redditi alti la compagnia suggerisce un gap pensionistico non superiore al 45%.

Aegon – Centro per la longevità ed il pensionamento – diversamente dalle teorie di AVIVA sopra indicate, afferma che, a seguito di uno studio effettuato su 15 paesi nel mondo, i lavoratori hanno bisogno del 69% del loro reddito lavorativo una volta pensionati. Pertanto considera favorevole per il tenore di vita di un lavoratore un gap pari al 31%. Un’altra teoria è indicata dal Wall Street Journal secondo cui le persone dovrebbero mantenere almeno l’80% del loro reddito una volta in pensione. In realtà questa percentuale è troppo alta non essendoci più spese per il sistema previdenziale. Infine l’OCSE, Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, suggerisce come livello di sostituzione circa il 70%.

In base a quanto sopra riportato è difficile stimare esattamente la quota di reddito che andrebbe rispettata in quanto si rischierebbe di generalizzare il fabbisogno economico; l’importo pensionistico dovrebbe essere individuato rispettando e prendendo in considerazione le esigenze individuali, con una consulenza apposita.

 

Gli sforzi degli Stati membri dell’Unione Europea nell’omologare i sistemi pensionistici hanno indotto l’Eurogruppo a commentare ufficialmente l’argomento nel giugno 2016. In particolare nella nota dell’Eurogruppo n.346/2016 viene affermato che questi sistemi sarebbero dovuti diventare più elastici ai cambiamenti demografici e agli shock macroeconomici. Invece i meccanismi automatici appropriatamente designati dagli Stati Membri – parlando dell’incremento delle speranze di vita nei sistemi pensionistici – si sono mostrati efficaci (anche in Italia a seguito del Dl 78/2010 convertito con legge 122/2010).

 

Sono diversi fattori in Europa che hanno contribuito all’aumento del gap pensionistico a partire dal 2010. Questi fattori comprendono l’allungamento della vita media, la riduzione del livello delle pensioni pubbliche, la crescita delle pensioni al di sotto dell’aumento salariale.

Aviva, nel documento Mind The Gap (2016), ha pensato alla risoluzione del problema con due possibili strade da intraprendere (in ogni caso entrambe piene di problematicità). La prima soluzione ipotizzata è quella di aumentare l’età pensionabile di 5 anni in quanto diminuirebbe il gap di un quarto. Tuttavia tale misura, attuata in maniera così drastica, comporterebbe gravi complicazioni sociali. La seconda strada consisterebbe nell’aumentare gli importi pensionistici del 10% diminuendo così il gap di un quarto, ma in questo caso si rischia di non rispettare i vincoli di bilancio imposti.

Si stima che in Europa i lavoratori che andranno in pensione tra il 2017 e il 2057 dovranno risparmiare 2.000 miliardi di euro in più ogni anno per ottenere un reddito adeguato dopo la pensione. L’enormità di questo deficit corrisponde in media a circa il 13% del PIL del 2016. Questa divergenza varia anche in base allo Stato Membro preso in considerazione; ad esempio la Spagna dovrà risparmiare molto di più (circa il 17% del PIL) rispetto all’Italia, ad esempio, che dovrà risparmiare solo il 6%. Dal 2010 il gap previdenziale europeo è passato da €1.900 miliardi a €2.000 miliardi in 6 anni. Nonostante questo vi sono paesi in cui il gap è diminuito: il Regno Unito ha visto una diminuzione del 4% a seguito del cosiddetto “Triple Lock” che prevede un incremento delle pensioni pari al valore maggiore tra inflazione, incremento degli utili o 2,5%. In Polonia si è verificata una diminuzione del gap del 6% a seguito del notevole aumento dell’età pensionabile da 65 anni (e 60 per le donne) a 67. Quest’ultimo ha obbligato i lavoratori a svolgere attività per più tempo conseguendone un importo pensionistico più sostanzioso. I paesi colpiti maggiormente dalla crisi sono stati la Spagna con un incremento del 12% a causa di tetti massimali pensionistici imposti nel 2011; infine anche la Lituania si è vista un aumento degli stipendi superiore a quello delle pensioni portando il gap al 9%.

In Italia il gap previdenziale è pari al 6%, nella misura di 99 miliardi di euro (è aumentato dell’1% rispetto al 2010). Con l’applicazione del sistema contributivo nozionale, dal 1 gennaio 2011 previsto per tutti, e la diminuzione del numero di pensionati che andranno con il sistema retributivo, nella maggior parte dei casi più favorevole, si vedranno diminuire gli importi pensionistici e quindi incrementare il gap previdenziale. Coloro che hanno una storia contributiva breve rischieranno la povertà al momento del
pensionamento. Inoltre una proporzione crescente di lavoratori ha affrontato periodi disoccupazione, lavoro part-time o lavoro precario. Data l’esistenza di uno stretto nesso tra contributi previdenziali e prestazioni pensionistiche, l’effetto di interruzioni contributive sarà più marcato sulle prestazioni pensionistiche del futuro, con un effetto negativo sull’adeguatezza dei redditi pensionistici e contribuendo probabilmente all’aumento della povertà tra gli anziani. Ad oggi, il sistema di previdenza sociale ha svolto un ruolo importante nel cercare, attraverso misure di sostegno al reddito, di proteggere gli anziani dal rischio di povertà assicurando loro delle buone condizioni di vita rispetto ad altri gruppi di età. Attualmente in Italia, il 9.3% degli ultrasessantacinquenni vivono in situazione di povertà relativa rispetto al 12.6% nella popolazione totale. Nel 2015 i pensionati avevano redditi che si attestavano a 15.197 euro contro i 17.411 euro di tutti coloro che in quell’anno risultava già pensionato (una differenza del ben 13%).Il gap pensionistico italiano risulta essere relativamente basso poiché il governo, attuando politiche sociali, fornisce un generoso livello di sostegno ai cittadini attraverso le pensioni statali. La spesa pensionistica pubblica in Italia è, infatti, pari al 15,8% del PIL, a fronte di una media OCSE del 7,9%.

Le politiche che vanno ad apportare migliorie nel mercato del lavoro e che permettono di creare posti di lavoro ed opportunità di lavoro più produttive con migliori remunerazioni, sono essenziali per garantire l’adeguatezza delle pensioni per le generazioni future. La formazione professionale, il miglioramento e aggiornamento delle qualifiche, l’aumento delle competenze dei lavoratori nel corso della vita lavorativa e le politiche che permettano una maggiore flessibilità alla fine delle carriere sono particolarmente importanti nel sistema. Migliorare l’accesso e qualità dei servizi di cura (bambini, anziani) e di buona qualità è ugualmente fondamentale per promuovere carriere più stabili, specialmente per le donne. La recente riforma del mercato del lavoro – il Jobs Act – ha affrontato alcune delle criticità della situazione lavorativa: la creazione di una nuova tipologia contrattuale a tutele crescenti che può contribuire a ridurre la profonda segmentazione tra contratti temporanei e spesso precari e quelli a durata indefinita; l’universalizzazione dei sussidi di disoccupazione con lo sforzo di migliorare le politiche attive per il reinserimento dei disoccupati sul lavoro. Da questo punto di vista, la riforma del lavoro potrebbe aver migliorato la stabilità delle carriere così da ottimizzare le prospettive di pensione dei lavoratori più vulnerabili.

 

Ruben Schiavo

Adapt Junior Fellow

Università degli Studi di Bergamo

@ruben_schiavo

 

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