Una inaspettata, ma culturalmente interessante, distrazione legislativa: il Fondo Nuove Competenze

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Bollettino ADAPT 3 giugno 2020, n. 22

 

Dei limiti contenutistici e culturali del c.d. DL Rilancio (Decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34) si è scritto ampiamente. Nella confusione dei 266 articoli vi sono però anche disposizioni interessanti, magari involontarie, comunque capaci di generare qualche buona pratica, qualche esperienza meritevole di attenzione.

 

Nell’ambito delle «Altre misure urgenti in materia di lavoro e politiche sociali» (Capo II), il riferimento è all’articolo 88, dedicato al «Fondo Nuove Competenze». In sintesi, la norma prevede che imprese e sindacati possano realizzare mediante contrattazione collettiva territoriale o aziendale intese di rimodulazione dell’orario di lavoro per mutate esigenze organizzative e produttive che comportino la destinazione di parte dell’orario a percorsi formativi. Gli oneri relativi alle ore di formazione (comprensivi dei contributi previdenziali e assistenziali) saranno pagati dall’inedito «Fondo Nuove Competenze», dotato di 230 milioni di euro e gestito dall’Agenzia Nazionale delle Politiche Attive del Lavoro (ANPAL).

 

Non si conoscono ancora pattuizioni su questa materia, è passato troppo poco tempo dall’entrata in vigore del decreto ed è ragionevole che le parti sociali aspettino la conversione in legge prima di disporre del nuovo Fondo. Vi sono inoltre alcune particolarità che hanno fatto un poco storcere il naso alle stesse parti sociali: la natura dei fondi (risorse Pon Spao), che genera un potenziale conflitto tra ANPAL e Ministero del lavoro e delle politiche sociali, e allunga molto i tempi di distribuzione; la scelta del Governo di non indirizzare queste risorse ai fondi interprofessionali, immaginando meccanismi premianti di co-finanziamento che avrebbero valorizzato gli enti bilaterali e avrebbero ricompreso nella misura anche i lavoratori in cassa integrazione e i lavoratori licenziati.

 

Ad ogni modo, in questa disposizione vi sono diversi spunti che è opportuno evidenziare.

Primo. In un momento di pericolosa ri-centralizzazione normativa come quello che sta vivendo il nostro Paese, questa è una norma che incentiva l’autonomia collettiva a livello aziendale o territoriale, quindi in prossimità al bisogno. È una sorta di beneaugurante distrazione di un legislatore che ha dimostrato di credere molto poco nella sussidiarietà.

In seconda battuta, non è dogmaticamente affrontato un fenomeno che certamente osserveremo, quantomeno nel breve e medio periodo: la rimodulazione verso il “basso” (meno quantità) degli orari di lavoro. D’altra parte, la ripresa dalle crisi economiche, quali che siano le ragioni della recessione (finanziarie o, come in questo caso, sanitarie), è resa possibile anche dai processi di ristrutturazione che si attuano nelle aziende. Non è raro che queste riorganizzazioni comportino maggiore disoccupazione e una contrazione delle ore di lavoro per chi rimane occupato. In questo particolare momento, vigente e prorogato con lo stesso DL Rilancio il divieto ai licenziamenti economici (proprio quelli che avvengono in questi casi), l’unica leva riorganizzativa azionabile è quella della re-impostazione dei turni e dei processi produttivi. Saranno quindi numerosi i luoghi di lavoro nei quali sindacati e imprenditori discuteranno di ristrutturazioni organizzative, potendo così scoprire questa nuova norma. In questo senso appare ragionevole l’identificazione del target: non tanto i lavoratori sospesi o i disoccupati, ma coloro che sono a maggiore rischio di disoccupazione. Un timido tentativo di anticipare le politiche passive mediante formazione e politiche attive: strategia molto utilizzata all’estero, ma praticamente sconosciuta in Italia.

 

È allora ragionevole, terzo elemento, che il Governo provi, contemporaneamente, a non “perdere” le ore di lavoro che saranno messe in discussione suggerendone una finalizzazione formativa, garantendo contemporaneamente il reddito dei lavoratori oggetto degli accordi sindacali. Sarebbe inutile, anzi dannoso, imporre per legge una sostituzione tra ore di lavoro e ore di formazione: per questo la norma, di natura promozionale e non prescrittiva, dispone che sia lo Stato a pagare questa rimodulazione, se approvata a livello di azienda o territorio.

 

Come accade sovente alle norme-incentivo, l’opportunismo è dietro l’angolo: è possibile che sindacati e imprese si accordino per l’uso del “Fondo Nuove Competenze” non per una sincera fiducia verso la capacità della formazione di incrementare l’occupabilità delle persone, ma per garantire ai lavoratori lo stesso reddito percepito prima della crisi causata dal COVID-19. Tuttavia, è un rischio che vale la pena correre, perché possa accadere che in singoli contesti sia invece compresa la potenzialità di una norma di questo genere, che prova a scommettere sulla centralità della formazione continua e dell’apprendimento permanente non solo con frasi di circostanza, ma con un fondo di 230 milioni. Non è una cifra imponente, questo è indubbio, ma è inutile cedere al benaltrismo (“molto bello, ma serviva 1 miliardo!”): a questo punto ben più interessante aspettare di studiare gli esiti effettivi, nella speranza che il Governo non li “nasconda” dietro procedure inefficaci e frustranti come il “click-day”.

 

Tra qualche mese avremo modo di verificare se sia risultato più convincente l’atteggiamento opportunistico o se sia stata colta la sfida, ancor più culturale che legislativa, contenuta tra le righe di questo inaspettato articolo 88. Come spesso è accaduto nella storia delle relazioni industriali, è possibile che la contrattazione collettiva riesca ad escogitare soluzioni di contrasto alla crisi ben più efficaci e funzionali delle ricette politiche e delle norme di emergenza.

 

Emmanuele Massagli

Presidente ADAPT

@EMassagli

 

Una inaspettata, ma culturalmente interessante, distrazione legislativa: il Fondo Nuove Competenze
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