Una battaglia a metà che produce stagnazione

Pochissimi commentatori si sono accorti che l’Italia ha appena stabilito un record mondiale. Da quando, a Bretton Woods nel 1944, fu stabilito di dover misurare il Prodotto interno lordo come indicatore della ricchezza prodotta da un Paese, mai nessuna nazione era riuscita a far registrare 13 trimestri consecutivi di non crescita. Certo ci sono stati Paesi che hanno conosciuto cadute più verticali, come la Grecia ad esempio. Ma sulla lunga distanza non ci batte nessuno: il reddito pro capite di un italiano è al livello del 2000 e se la stessa Grecia oggi ricomincia a crescere, per l’Italia la crescita continua ad essere l’araba fenice che tutti cercano e che continua a sfuggire.
 
Il paradosso è che a fermarsi sia stata quella che era solo vent’anni fa la quarta potenza economica del mondo e che, da qualche mese, è uscita dalle prime dieci posizioni diventando un caso di involuzione che gli scienziati studieranno per anni. Tre anni e mezzo senza crescita: è normale che il pensiero vada ai quattro premier -Berlusconi, Monti, Letta e ora Renzi- che non sono riusciti a dare una scossa, nonostante l’urgenza assoluta di doverlo fare. In verità, Renzi appare avere molte attenuanti: sta provando a rilanciare il Paese mentre il resto del mondo e la stessa Germania rallentano; ha una maggioranza fragile; ha avuto poco tempo per cambiare verso alle serie storiche del Pil. Gli ultimi dati negativi arrivano però mentre il governo annuncia un ulteriore accordo per fare la riforma del mercato del lavoro.
 
E allora la domanda è: ne è valsa la pena di investire buona parte del proprio capitale politico su una questione -la modifica del famoso articolo 18- senza arrivare a una più proficua abolizione? Forse possono aiutare a trovare una risposta i numeri raccolti dal comitato di monito raggio della riforma del mercato del lavoro istituito da Enrico Giovannini. È auspicabile anzi che l’attuale ministro del Lavoro valorizzi quello studio.
 
Pochi sono i lavoratori che godono oggi della tutela dell’articolo più famoso dello Statuto dei lavoratori. Si tratta di 6 milioni di lavoratori dipendenti a tempo indeterminato con imprese con più di quindici dipendenti: meno di un terzo dei 21 milioni di lavoratori italiani. Lo scorso anno, tra i “privilegiati” con un contratto di lavoro a tempo indeterminato, l’articolo 18 non è riuscito a evitare il licenziamento individuale (per giusta causa o giustificato motivo come dice la legge) di circa 700 mila persone, di cui presumibilmente circa 400 mila protetti dal diritto di reintegra. Solo il 5% di questi (20 mila) arriva, però, fino al magistrato per chiedere che gli sia restituito il posto di lavoro e la restituzione avviene solo per il 10% di questi casi: 2 mila, ovvero meno di uno ogni cento licenziati. Infatti, spesso lavoratore e impresa trovano una mediazione prima della sentenza; e comunque il numero delle volte in cui è il datore di lavoro a vincere la lite non è inferiore, secondo il presidente della sezione lavoro del Tribunale di Milano, a quelli nelle quali soccombe.
 
È evidente che l’articolo 18 funziona poco e poco viene usato dagli stessi lavoratori a fronte della perdita del posto di lavoro. Per un motivo banale in fin dei conti: al di là dei proclami, se fino agli anni Settanta molti lavoravano in grandi fabbriche senza personalità, oggi è difficile sia per chi offre lavoro che per chi lo domanda pensare di farsi imporre da un magistrato di stare insieme quando si sono esaurite le ragioni della convivenza. Persino a Mirafiori.
 
Un po’ come succede per i matrimoni, per i quali fu immaginato un diritto alla separazione proprio negli anni in cui Gino Giugni stabiliva che i magistrati potessero riunire, in un’azienda, ciò che gli uomini avevano scisso.
 
Proprio in questi numeri c’è il motivo che condanna a una relativa irrilevanza una qualsiasi modifica dell’articolo 18. La riforma Fornero che voleva rendere meno rigido il contratto di lavoro a tempo indeterminato, proprio per potergli restituire “dominanza” si è rivelata del tutto ortogonale rispetto ai comportamenti delle imprese: a un anno dalla riforma del 2012, la percentuale sul totale di nuovi contratti di lavoro a tempo indeterminato si è, addirittura, ridotta; ma erano diminuiti anche i licenziamenti nonostante che se ne fosse ridotto il costo.
 
È naturale che alla fine, ancora più insensibili ai risultati di anni di battaglie attorno al totem della reintegra sono gli indicatori più importanti: il volume degli investimenti esteri attratti, il tasso di occupazione e, infine, il famigerato Pil. Anche perché come dice con chiarezza l’Oecd non è vero che gli altri Paesi europei proteggono di meno il lavoro. In Germania, anzi, è ancora più difficile licenziare e, nonostante ciò, negli anni della crisi cominciata nel 2008, il tasso di disoccupazione tedesco si è dimezzato al 4% e quello italiano è raddoppiato al 12.
 
Certo, il governo attuale ha intenzioni che sembrano giuste. E questa è una riforma che può produrre il risultato storico di spostare le tutele dall’idea del posto di lavoro come diritto proprietario (property rule) a quella di un bene la cui perdita va risarcita (liability rule). Peccato che erano queste le stesse premesse della riforma Fornero. È vero che quella battaglia fu persa anche nei dettagli applicativi nei quali si è insediato il diavolo dell’incertezza che sempre alimenta l’invadenza della magistratura. Dettagli che Filippo Taddei vorrebbe chiarire con una tipizzazione dei casi nei quali il licenziamento è illegittimo.
 
Rimane però che difficilmente la tipizzazione entusiasmerà gli investitori; che per ricominciare a crescere molto di più dell’articolo 18, vale la riorganizzazione radicale della formazione e dei centri per l’impiego, visto che ciò può fare davvero la differenza per poter creare occupazione di qualità, diminuire il rischio di “separazioni” e realizzare impegni come quelli che il governo si è assunto con la garanzia-giovani; che più di una modifica dell’articolo 18, peserebbe una sua estensione anche nella formulazione attuale al pubblico impiego, visto che non aver ammesso che possa valere per lo Stato -questo Stato- un giustificato motivo di carattere economico per poter, davvero, fare una revisione intelligente della propria organizzazione, ha significato condannare la stessa pubblica amministrazione alla obsolescenza; infine, che, se proprio avessimo voluto toccare per la seconda volta in tre anni un totem così simbolico ed impotente, valeva la pena farlo per cancellarlo del tutto, producendo una discontinuità che ci avrebbe messo in una posizione di vantaggio rispetto agli altri paesi europei: sostituendolo con un risarcimento di importo anche più elevato ma certo, in maniera tale da anticipare quella che è l’intenzione di quasi tutti i lavoratori colpiti da un licenziamento e da consentire ad un imprenditore di calcolare i costi della “separazione”.
 
In realtà, però, rimane il dubbio forte che la battaglia dell’articolo 18 si faccia per altri motivi. Altrimenti non si capisce quale è il motivo di tale agitazione. Uno dei motivi per i quali ci siamo fermati è che siamo masochisticamente affezionati alle questioni che più ci dividono. Quelle che dividono i giuristi o sedicenti tali ai quali, troppo spesso, affidiamo il compito di dirci cosa possiamo diventare. Ebbene, compito di un presidente del consiglio pragmatico è puntare più pragmaticamente ai risultati ed evitare di farsi trascinare da chi vive di conflitti in tv in quegli scontri tra nuova e vecchia sinistra che ci hanno portato al record mondiale della stagnazione.
 
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Una battaglia a metà che produce stagnazione
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