Storie di azione e contrattazione collettiva – Indice IPCA e adeguamento dei minimi contrattuali nel rinnovo dei CCNL del settore energetico

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Bollettino ADAPT 15 luglio 2019, n. 27

 

Lo scorso 30 maggio, come ogni anno, l’ISTAT ha reso noti i dati relativi all’indice IPCA (Indice dei Prezzi al Consumo al netto della dinamica dei prezzi dei beni energetici importati) a consuntivo per il triennio 2016-2018 nonché la previsione per gli anni 2019-2022. Dai dati forniti dall’Istituto Nazionale di Statistica emerge chiaramente come le previsioni siano state abbondantemente al di sopra rispetto all’effettivo andamento nel periodo considerato: il documento pubblicato il 30 maggio 2016 prevedeva un aumento dell’inflazione per il triennio 2016-2018 pari al 2,72%, mentre , il dato a consuntivo  che emerge dalla pubblicazione del 2019 è pari al 1,81%, con  uno scostamento di quasi un punto percentuale.

 

Tale pubblicazione avrà ovviamente riflessi sui rinnovi contrattuali in corso. Come previsto dagli ultimi Accordi Interconfederali e, in particolare, dall’Accordo Interconfederale del 2018, infatti, “il contratto collettivo nazionale di categoria individuerà i minimi tabellari per il periodo di vigenza contrattuale, intesi quali trattamento economico minimo (TEM). La variazione dei valori del TEM (minimi tabellari) avverrà – secondo le regole condivise, per norma o prassi, nei singoli CCNL – in funzione degli scostamenti registrati nel tempo dall’indice dei prezzi al consumo armonizzato per i Paesi membri della Comunità europea, depurato dalla dinamica dei prezzi dei beni energetici importati come calcolato dall’Istat”. Va precisato, peraltro, che in sede di negoziato sono sempre entrate in gioco numerose ulteriori variabili: non solo il mero quantum dell’aumento dei minimi tabellari e il meccanismo di adeguamento di quest’ultimo in caso di scostamenti inflattivi, ma anche fattori come la decorrenza dell’aumento (che inevitabilmente influisce sul costo del rinnovo contrattuale), il parametro medio e il valore utilizzato come base di calcolo.

 

Nel corso del tempo, i singoli settori hanno adottato i più svariati meccanismi di adeguamento dei minimi contrattuali all’indice IPCA, soprattutto dopo il 2016, quando, per la prima volta dopo più di 20 anni, l’inflazione consuntivata è risultata inferiore a quella programmata. Nel settore metalmeccanico, ad esempio, proprio per far fronte a tale insolita situazione, la logica seguita nell’ultimo rinnovo contrattuale (2016 – 2019) è stata quella dell’adeguamento dei minimi “a consuntivo”: l’aumento retributivo previsto per ciascun anno di durata del contratto, infatti, che nei precedenti rinnovi decorreva da gennaio (ex ante), decorre da giugno, prendendo come riferimento l’inflazione effettivamente realizzata e resa pubblica  dall’ISTAT nel mese di maggio (dunque ex post).

Nell’ultimo rinnovo del CCNL chimici, invece, si è adottato un meccanismo di adeguamento “ibrido”: infatti, il contratto stabilisce che gli aumenti previsti sul TEM (Trattamento Economico Minimo) non saranno toccati da eventuali scostamenti tra previsione e realizzazione dell’indice inflattivo mentre è possibile  adeguare il TEC (Trattamento Economico Complessivo) rispetto a eventuali scostamenti inflattivi mediante individuazione contrattata di un elemento retributivo particolare (EDR[1])  da utilizzare, dunque, come “ammortizzatore”.

Nel settore energetico (CCNL elettrici, energia e petrolio, gas-acqua), il rinnovo avente ad oggetto l’incremento retributivo sui minimi contrattuali per il periodo 2016 – 2018 ha previsto un meccanismo di adeguamento di quest’ultimi all’eventuale scarto inflattivo che costituisce un unicum nella contrattazione collettiva. A titolo esemplificativo, le Parti nell’ambito del rinnovo del CCNL elettrici , sulla base dell’inflazione programmata (indice IPCA) all’epoca, hanno negoziato due aumenti con diversa decorrenza e diversa sorte: da un lato, si stabiliva, un aumento pari a 70 euro esente da qualsiasi riflessione relativamente all’inflazione effettivamente consuntivata; dall’altro, veniva fissato un aumento – comunque aggiuntivo rispetto all’incremento dei minimi – pari a 20 euro con decorrenza gennaio 2019 (cioè dopo la scadenza formale del CCNL nel dicembre 2018) soggetto a una disciplina del tutto particolare. Infatti, il contratto recita espressamente che, qualora l’inflazione realizzata nel triennio (2016-2019) fosse stata uguale o superiore a quella prevista alla data di sottoscrizione “si procederà all’adeguamento sui minimi, con decorrenza gennaio 2019, dell’importo stanziato di 20 €”; nel caso in cui, invece, l’inflazione consuntivata fosse stata inferiore a quella prevista “si procederà, in relazione all’inflazione consuntivata, alla ripartizione del predetto importo di 20 € pro quota nei minimi e al consolidamento della differenza sul premio di risultato”.

 

Come anticipato, gioca un ruolo fondamentale nell’adeguamento dei minimi contrattuali anche il parametro medio, vale a dire il livello di inquadramento contrattuale scelto come riferimento per l’applicazione degli aumenti.

Da questo punto di vista, la contrattazione collettiva nazionale nel corso del tempo ha dato vita essenzialmente a due criteri. Generalmente, infatti, il parametro medio viene stabilito durante la trattativa dalle Parti, senza seguire logiche matematiche e a scopo puramente negoziale/comunicativo. Nel settore elettrico, invece, è stato adottato un diverso criterio: associazioni datoriali e organizzazioni sindacali hanno scelto di utilizzare il parametro medio c.d. “reale”, ossia di prendere come riferimento l’inquadramento medio di settore. Per calcolare tale parametro, che viene aggiornato ad ogni tornata contrattuale sulla base dei dati forniti dalle aziende che applicano il CCNL Elettrici, viene effettuata la media ponderata del numero di dipendenti per ciascuna categoria contrattuale.

 

Anche la base di calcolo utilizzata è uno dei temi fondamentali dei rinnovi contrattuali, tradizionalmente oggetto di lunghe “battaglie” durante i negoziati. Sul tema, in particolare, si son sempre confrontate due posizioni opposte: da un lato, quella aziendale, secondo cui la base di calcolo dovrebbe essere costituita puramente dai minimi tabellari[2] (in alcuni settori, come quello chimico o energia e petrolio sono ricomprese anche voci fisse come gli I.P.O. o i C.R.E.A.) come peraltro sembrerebbe suggerire oggi l’Accordo Interconfederale 2018 citato in precedenza;  dall’altro, quella dei sindacati, che vorrebbe venisse utilizzata come base di calcolo la retribuzione annua lorda media del livello di inquadramento contrattuale scelto come parametro medio (comprensiva, dunque, di altre voci retributive come scatti di anzianità e superminimi individuali non soggetti a contrattazione collettiva). Durante la trattativa, in genere, tale diatriba si concludeva con l’individuazione di un compromesso tra le due contrapposte posizioni: nel settore elettrico, sotto questo punto di vista, tale compromesso negli ultimi anni si è concretizzato nell’utilizzo come base di calcolo della somma di minimo tabellare previsto per il parametro medio e scatti di anzianità considerati in funzione dell’anzianità media di settore.

 

Infine, fondamentale oggetto di trattativa tra le Parti in sede di rinnovo contrattuale sono sia la decorrenza degli aumenti sia la durata del contratto, che incidono sul c.d. “montante”, vale a dire sulla somma “incassata” da ciascun lavoratore durante l’intera vigenza del contratto. Negli ultimi anni, le organizzazioni sindacali si sono spesso mostrate inamovibili nell’esigere, senza se e senza ma, che il rinnovo contrattuale garantisse ai lavoratori quantomeno lo stesso montante ottenuto nel rinnovo precedente. Tale “dogma” perseguito dai sindacati, anche per la valenza comunicativa che il montante assume nelle comunicazioni date agli associati, si pone in netto contrasto con le reali dinamiche inflattive, tenuto conto del fatto che, specialmente nelle ultime tornate di rinnovi contrattuali, il tasso di inflazione previsto è risultato decisamente inferiore rispetto a quello previsto all’epoca del rinnovo precedente. D’altra parte, la decorrenza degli aumenti e la durata del contratto vengono anche utilizzati in sede di negoziato dalle Parti come strumenti di adeguamento dei minimi allo scarto inflattivo, attraverso la dilazione degli aumenti con conseguente contenimento del costo complessivo nel periodo dato. Un esempio, in tal senso, è rappresentato dalla scelta operata in sede di rinnovo sia nel settore metalmeccanico che nel settore energetico di far decorrere il primo aumento dei minimi solo a partire dal secondo anno di vigenza del CCNL.

 

La strada che sarà seguita dalle Parti in sede di rinnovo dei CCNL del settore energetico (e non solo) rimane ancora impervia e oscura, considerato che le trattative sono tuttora in corso e stanno entrando nel vivo dei temi sia normativi sia economici. La necessità di cambiare rotta, adottando un meccanismo di adeguamento dei minimi più rigoroso e meno “generoso” è indispensabile. La formula utilizzata nell’ultimo rinnovo del CCNL elettrici (ma anche nel CCNL energia e petrolio nonché nel gas-acqua) e descritta in precedenza ha comportato, di fatto, non solo un aumento sui minimi tabellari nettamente superiore all’inflazione effettivamente realizzata nel triennio (70 euro a fronte di un tasso di inflazione che avrebbe determinato, in realtà, un aumento pari a 46 euro), ma ha espressamente consentito, attraverso la previsione di un meccanismo di adeguamento che ha ripercussioni  sui  premi di risultato, un’ingerenza del CCNL su un tema che, per sua natura, dovrebbe essere oggetto di specifica ed esclusiva contrattazione aziendale.

 

Federico Fioni

Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro

Università degli Studi di Bergamo

@FedericoFioni

 

[1] “Elemento Distinto dalla Retribuzione” che non è base di calcolo per gli istituti indiretti (quali maggiorazioni per straordinario, turni, t.f.r. ecc.).

[2] Con tale espressione si fa riferimento, generalmente, ai minimi comprensivi di contingenza (anche definito minimi integrati).

 

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