Social recruiting: una novità da perfezionare

L’avvento dei social media ha profondamente inciso sulle pratiche di incontro tra domanda e offerta di lavoro: selezionatori e candidati hanno adattato le loro attività in virtù delle potenzialità di tali strumenti. Dal punto di vista aziendale l’utilizzo dei social pervade l’intera fase di selezione del personale: dalle pratiche di recruitment advertising a quelle di employer branding, dall’individuazione di candidati passivi alla ricerca di informazioni sul candidato.
 
Parallelamente le modifiche hanno interessato anche le attività di ricerca del lavoro, all’insegna non solo dell’uso dei social per la consultazione di offerte di lavoro, ma anche delle pratiche di personal branding. L’utilizzo dei social professionali (es. LinkedIn) ha come conseguenza l’esposizione costante del soggetto sul mercato del lavoro. E una condizione di enorme rilievo in un mondo del lavoro che si presenta sempre più dinamico: con pochi click è possibile esporre in vetrina l’immagine più aggiornata di sé. Non solo. La promozione della propria professionalità vede nelle piattaforme social un mezzo di espressione di grande impatto: è possibile far conoscere non solo esperienza professionale e titoli, ma anche le proprie capacità e il proprio lavoro. E nel quid pluris offerto da forme espressive nuove (es. video curriculum) e dalla possibilità di caricare contenuti personali che si deve ricercare il successo di queste forme di contatto tra candidato e impresa.
 
Accanto ai pregi, però, ci sono rischi. Da un lato si deve considerare l’altra faccia del personal branding, la digital reputation: i contenuti caricati online possono attirare, quanto allontanare potenziali datori di lavoro. Dall’altro la raccolta di informazioni, se operata dai selezionatori consultando non solo i social professionali ma anche quelli ludici (es. Facebook), può portare alla conoscenza di dati sovrabbondanti rispetto alle attività di selezione.
 
Soccorre in questo ambito il disposto dell’ art. 8 Statuto dei lavoratori, che pone un divieto di indagine su opinioni personali e fatti che non hanno attinenza con l’idoneità professionale, assistito da sanzione penale. Nonostante si siano diffuse interpretazioni volte ad affermare la possibilità di consultazione delle pagine personali sui profili social ludici, si ritiene che una lettura della norma rispettosa della sua ratio non possa che portare all’esclusione dell’accesso datoriale a queste piattaforme. Secondo un consistente filone dottrinale all’art. 8 deve essere attribuita una duplice finalizzazione: rappresenta una tutela preventiva contro pratiche discriminatorie e fornisce una protezione rispetto ad intromissioni all’interno della sfera privata, contemperando il diritto alla privacy dei lavoratori con la necessità dell’imprenditore di disporre di un’organizzazione funzionale. Occorre, allora, rigettare la tesi più marcatamente possibilista, che fonda la libera accessibilità dei contenuti sulla loro pubblicità, perché chiaramente in contrasto con la ratio antidiscriminatoria in base alla quale la tutela deve prescindere dalla natura privata o meno dell’informazione.
 
La lettura intermedia, che riconosce la possibilità di consultazione delle pagine personali dei soggetti, purché nei limiti dell’ art. 8, si scontra, invece, con una peculiarità dei social ludici: in essi i dati consultabili si presentano come inscindibili da quelli vietati, con la conseguenza che qualsiasi attività di ricerca risulta inesorabilmente incisiva anche su profili protetti; inoltre, essendo il selezionatore conscio di tale circostanza va escluso il ricorso all’argomento dell’apprendimento preterintenzionale delle informazioni vietate.
 
Infine, anche il Codice privacy muove in questo senso affermando (art. 11/1) il principio di non eccedenza dei dati oggetto di trattamento “rispetto alle finalità per le quali sono raccolti o successivamente trattati”. Tutto ciò porta a ritenere che l’unica interpretazione applicabile sia quella definita esclusiva: l’attività d’indagine sulle pagine personali in social media ludici è tendenzialmente vietata (l’eccezione è data da chi trasforma i suoi profili da ludici a professionali, es. influencer).
 
La necessità di una lettura di questo tipo viene confermata da una considerazione di carattere più generale. La libertà di essere e apparire e la libertà di autodeterminarsi riceverebbero una grave violazione nel caso in cui non si riconoscesse questa tutela ai lavoratori: la possibilità di accesso da parte di un eventuale datore agirebbe come vincolo alla libera espressione di sé.
 
Emanuele Dagnino

Scuola internazionale di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro

ADAPT-CQIA, Università degli Studi di Bergamo

@EmanueleDagnino

 
* Pubblicato anche in Conquiste del Lavoro, 21 ottobre 2014.
 
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