Smart Working: non conta “dove” lavori, ma “come” lavori

Considerazioni a margine del convegno internazionale ADAPT – UNIBG “Il futuro del lavoro: una questione di sostenibilità”,
Bergamo 10-11 novembre 2016

 

Lo scorso 3 novembre, il ddl n. 2233 sul lavoro autonomo, volto a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato, è stato approvato dal Senato. Focus particolare sulla promozione e sull’effettiva applicazione dello smart working, comunemente conosciuto anche come “lavoro agile”, di fatto già pienamente operativo in molte realtà aziendali italiane (sull’utilizzo della  terminologia “smart” o “agile” v. P. MANZELLA, F. NESPOLI, Le parole del lavoro: un glossario internazionale/22 – Agile o smart?).

 

In concreto, lo smart working può assumere due diverse concezioni a seconda che lo si inquadri esclusivamente nel testo legislativo, ossia, andando ancora più oltre, lo si intenda come una forma di organizzazione nata dalle moderne esigenze del mondo produttivo delle aziende. Nel primo caso, lo smart working, di derivazione prettamente giuridica, trova la sua ragion d’essere negli artt. 15 e ss. del ddl n. 2233, quale politica di conciliazione vita lavoro resa oggi più agevole grazie alla flessibilità spazio-temporale della prestazione lavorativa e quindi inquadrata nella fattispecie tipica del “lavoro da remoto”. Nel secondo caso, seppur il legame con gli aspetti di flessibilità spazio-temporale sia indiscutibile, l’idea si lega ad una vera e propria filosofia manageriale, che trova il suo nascere direttamente in nuovi modelli di gestione implementati nelle aziende.

 

Si conviene, infatti, come nella pratica le aziende sono di gran lunga più avanti rispetto ai “tempi morti” della legge; invero buona parte delle imprese italiane, grazie anche alla compartecipazione della contrattazione collettiva, hanno attivato innumerevoli accordi di smart working (cfr. E. DAGNINO, P. TOMASETTI, C. TOURRES, Il “lavoro agile” nella contrattazione collettiva oggi). Aspetto, altresì emerso, nel workshop sullo smart working, tenutosi durante la pre-conference dedicata alla Grande Trasformazione del Lavoro (#GTL2016), presso l’Università di Bergamo, il 10 novembre scorso.

 

In tal direzione, Stefano Bottino, Responsabile dell’Ufficio consulenza del lavoro ABI, che ha messo in evidenzia come nel settore bancario, l’evoluzione tecnologica ha soppiantato gradualmente la comunicazione face-to-face finora utilizzata come modalità preferita per rapportarsi con la clientela, prediligendo l’attivazione di accordi in smart working per la gran parte del personale dipendente, compatibilmente con le mansioni svolte. Tuttavia emergono non poche criticità interpretative, poiché molte aziende, intendono effettivo lo smart working anche nel caso in cui la prestazione lavorativa sia resa in un luogo diverso dalla sede aziendale riconducibile alla c.d. hub aziendale. Per contro, leggendo attentamente il testo normativo, si nota come il disposto, affermando che la prestazione lavorativa viene eseguita, in parte all’interno di locali aziendali e in parte all’esterno, pare non ricomprendere, l’hub aziendale come luogo “esterno” di esecuzione della prestazione lavorativa. Ragion per cui, probabilmente, si cadrebbe al di fuori della fattispecie dello smart working. Si attendono conferme legislative e prassi concrete sul punto, nonostante molti accordi, anche in fase di sperimentazione,siano favorevoli nel ricomprendere l’hub aziendale come luogo “esterno” per eseguire la prestazione in smart working.

 

Ulteriore sintomo di queste trasformazioni “smart”, è rappresentato dal sentimento di totale disorientamento e incertezza in capo al lavoratore, che a causa del caos normativo e organizzativo sulla disciplina, teme la possibilità di un allontanamento ingiustificato dall’azienda tramite forme di smart working. Esempi evidenziati anche da Patrizia Ordasso, Responsabile delle Relazioni Industriali in Intesa San Paolo, in cui il “lavoro flessibile” (così identificato negli accordi sindacali), è già decollato da qualche tempo.

 

Tutto ciò mette in chiaro una sentita e nuova esigenza: se si vuol evitare di schiantarsi contro l’iceberg del progresso tecnologico e di tutte le sue implicazioni negative, necessario è coglierne gli aspetti positivi, cambiando atteggiamento e modo di pensare. Come? Sentendosi parte di un’unica e grande job community, in cui i datori di lavoro e i lavoratori, hanno piena consapevolezza che la concezione del rapporto di lavoro subordinato è mutata profondamente, ponendosi ben aldilà di un modello di organizzazione dell’impresa di tipo fordista (v. M. DEL CONTE, La regolazione del lavoro dopo il Jobs Act -Parte I Premesse e prospettive del Jobs Act, in DRI, n. 4/2015). Solo quando questa consapevolezza si sarà effettivamente raggiunta, allora si potranno comprendere i reali scopi dello smart working e dell’impatto della tecnologia sul mondo del lavoro. D’altronde come affermato da Daniele Eleodori, Direttore delle Risorse Umane in Fondazione Telethon, siamo dinanzi alla diffusione di una cultura inversa rispetto al passato: non si lavora più a ore; l’orario non è più visto come una tecnica posta dalla legge per l’esclusiva misurazione del lavoro(cfr. V. BAVARO, Il tempo nel contratto di lavoro subordinato, Bari, 2008), bensì si lavora per obiettivi, in conformità a un patto di fiducia instaurato tra datore di lavoro e collaboratore.

 

Questa è la grande sfida posta dal “futuro del lavoro” agli attori pubblici, privati e sindacali. Lecito chiedersi, tuttavia,se tale sfida sarà realmente colta nei tempi e nei modi adeguati. Certo è, che le nuove sperimentazioni in modalità smart working hanno dimostrato come non conta il “dove” lavori (seppur nel rispetto della normativa di salute e sicurezza e degli standard minimi inderogabili fissati dalla legge), bensì il “come” lavori.

 

Malgrado ciò, molti dubbi permangono aperti e irrisolti dal ddl n. 2233 in via di definizione. Si pensi ad esempio al mancato, espresso richiamo nel testo legislativo della normativa sulla salute e sicurezza (d.lgs. n. 81/2008) e complementarmente, di quella sull’orario di lavoro (d.lgs. n. 66/2003)

 

In questo scenario, auspicabile è procedere ad un lento, ma continuo processo di armonizzazione verso una nuova progettualità nella gestione dei rapporti di lavoro subordinato in cui il ruolo delle relazioni industriali si trasforma da mero antagonista a parte fortemente collaborativa.

 

Idapaola Moscaritolo

Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro

Università degli Studi di Bergamo

@idapaola

 

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