Sindacati e consumatori*

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La soluzione di Claire Underwood era stata semplice. Per ammansire con successo le proteste già infreddolite degli insegnanti in sciopero a qualche metro dal suo gala di beneficenza era bastato offrire loro qualche costoletta ben cotta. Ad ispirare lo sceneggiatore di House of cards (stagione 1, episodio 5) era stato probabilmente uno spot di Pizza Hut andato in onda nel 1995. Un manipolo di operai sfida il vento e la neve e tiene un picchetto davanti a i cancelli di una fabbrica. Un manager alla ricerca disperata di un “common ground” li osserva dalla finestra finché non ha un’illuminazione: alza la cornetta e ordina un carico di pizza fumante da inviare ai lavoratori in sciopero. Conflitto risolto.

 

I detrattori italiani del welfare aziendale li vedranno come iperbolici esempi antelitteram, ma i due episodi di finzione rappresentano in realtà il modo dominante di inquadrare le relazioni di lavoro da parte dei media americani. Almeno nell’opinione del prof. Christopher R. Martin della University of Northern Iowa, uno dei pochi che ha dedicato degli studi al tema affermando che il consumo è progressivamente diventato il vero terreno comune sul quale si svolge il dibattito pubblico intavolato dai mezzi di comunicazione stelle e strisce. Terreno comune che nei casi di controversie collettive di lavoro diventa anche terreno di esclusione, ossia, diremmo oggi, un canale per la disintermediazione.

 

Il punto è chi sia ad essere disintermediato. Perché come l’azienda può fare appello al consumatore che è nei suoi lavoratori, scavalcando il sindacato, così il sindacato può fare appello al lavoratore che è nei consumatori, superando l‘azienda. Attenzione quindi, avverte Martin: anche i lavoratori e le loro organizzazioni possono trarre vantaggio dal luogo comune del consumatore. Come aveva già dimostrato per esempio il successo dello sciopero di UPS nel 1997 e come hanno poireso meglio visibile le più recenti campagne di Our Walmart svolte nei giorni del rituale del consumo per eccellenza: il Black Friday. “Amici clienti, dietro la merce ci sono i lavoratori e il loro lavoro. Mettetevi nei loro panni”, questo il semplice messaggio sul quale fare leva.

 

É stato proprio in concomitanza del giorno dei grandi acquisti USA che quest’anno il caso Amazon ha manifestato anche in Italia il ruolo dei consumatori come potenziali alleati per le rivendicazioni dei lavoratori.  Sin qui però ci troviamo nell’ambito delle situazioni emergenziali: delle crisi aziendali e delle vertenze. Il sindacato americano sembra invece essere andato oltre cogliendo a suo favore quella concezione che potremmo definire “del consumo come diritto”. Almeno se si guarda alla strategia adottata dalla grande union dell’auto, la UAW, che ormai da qualche anno compila una guida alle auto “orgogliosamente union made, tramutando così il suo brand in quello di un produttore che invita i cittadini a “comprare americano”. Senza tema di essere accomunato al vero o presunto nazionalismo trumpiano.

 

Ci sono sia delle potenzialità sia dei limiti nelle opposte strategie dell’invito al boicottaggio, ossia uno sciopero del consumo, e dell’invito all’acquisto critico, che del consumo è invece incitamento. Il primo fa infatti più spesso leva sul pathos, sull’empatia che permette di solidarizzare, e può quindi funzionare in situazioni di immediato impatto (l’orgoglio nazionale o la compassione per i territori e le famiglie in difficoltà di fronte ad aziende più o meno spregiudicate). Questa strategia può però funzionare nei settori dove gli output sono prodotti o servizi di largo consumo, quindi nel secondario e nel terziario.

 

A rigore la possibilità di boicottare prescinde dal fatto che nel mercato di riferimento ci sia concorrenza, libertà di scelta, condizione invece logica per parlare di consumo critico. L’invito all’acquisto consapevole si esercita continuativamente e quindi nei momenti “freddi” dove il valore della solidarietà difeso con tale comportamento è al centro di una scelta non per forza economicamente “più razionale”, ma comunque più meditata.

 

Infine, ed è forse l’aspetto più importante, il consumo critico fa emergere la tensione ormai esistente in diversi ambiti del vivere comune tra la dimensione del lavoratore e quella del consumatore. Pronto per esempio a solidarizzare da un lato con i lavoratori di Ryanair, ma restio a scegliere voli più costosi al prossimo giro su Skyscanner; come in una sorta di riproduzione interiore del conflitto tra capitale e lavoro. É in fin dei conti proprio per questo che il sindacato dovrebbe sperimentarsi nel parlare ad entrambi i volti del cittadino, pena inoltrarsi in scioperi o controproducenti e incomprensibili dal punto di vista dell’opinione pubblica, dove pure delle ragioni sono esistite, come a Malpensa o a Pompei.

 

Le prime iniziative sono già in campo. Certo, non si tratta di adottare in Italia una copia pedissequa della strategia osservate negli Stati Uniti, giacché ogni comunicazione si basa su una cultura e su un sistema di valori. Nel Belpaese non concepiamo un supermercato 24/7 alla stregua di un servizio pubblico e facciamo dell’export la nostra forza. Difficile (e anche assurdo) immaginarsi un sindacato italiano che propone sconti su alcuni prodotti o che invita a concepire il comprare nazionale come paradigma coerente per l’economia. Ma ciò non toglie che trovare il modo di identificarsi nel lavoratore/consumatore resta un esercizio che è anche una necessità per il sindacato di oggi, in un dialogo da costruire oltre quei casi di crisi che ne stanno indicando la possibilità.

 

Francesco Nespoli

ADAPT Research Fellow

@FranzNespoli

 

*Una versione breve di questo articolo è pubblicato anche su La Nuvola del Lavoro Corriere della Sera, 15 dicembre 2017

 

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