Ritenute fiscali in appalto: fra legge e prassi la patetica mazurka dell’illogicità

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Bollettino ADAPT 17 febbraio 2020, n. 7

 

Se volessimo definire con amara eleganza la manovra ideata dall’art. 4 del D.L. n. 124 del 26.10.2019 (conv. in L. 157/2019) potremmo prendere a prestito una celebre espressione kantiana: “un nido di pretese dialettiche”.

 

Ma non kantiana bensì kafkiana è la situazione in cui si trovano le imprese ed i loro consulenti, alle prese con una legge a dir poco farraginosa ed istruzioni operative tardive  ed incomplete (la circolare AE 1/2020 è stata emanata il 12 febbraio 2020, per adempimenti da realizzare entro il successivo 17 febbraio (tre giorni lavorativi dopo); né poteva essere altrimenti perché se è vero che da un pero non possono nascere mele, da una norma assurda non possono che discendere disposizioni operative disperatamente casuali ed ipotetiche. Senza contare, peraltro, l’applicazione “a macchia di leopardo” su tutta la Penisola, con sedi dell’Agenzia anche contigue che si comportano in modo del tutto differente l’una dall’altra.

 

Il tutto, per iniziare, con la solita violazione dello Statuto del contribuente (L. 212/2000), che nella norma in commento avviene  in almeno due passaggi:

 

– è violato l’art. 3, comma 2 che stabilisce l’impossibilità di prevedere adempimenti a carico dei contribuenti prima di 60 giorni dall’entrata in vigore delle norme  o dei provvedimenti di attuazione delle stesse;

 

– è violato altresì l’art. 8, comma 1 che prevede che l’obbligazione tributaria possa essere estinta anche per compensazione.

 

Ogni deroga  allo Statuto del contribuente, ai sensi dell’art. 1 dello stesso, può esser effettuata solo espressamente, in altre parole si richiede al legislatore la coscienza (espressa) di intervenire per motivazioni gravi con modalità differenti rispetto a quelle previste dallo Statuto.   Il che nel caso in questione manca del tutto.

 

Ma al di là di queste pur importanti annotazioni, e dell’estrema complicazione burocratica che consegue alla norma (praticamente alle aziende interessate è richiesto di tenere quasi una contabilità separata del personale per ogni singolo appalto), è la logica complessiva della soluzione normativa che non sta in piedi, perchè la stessa non porterà presumibilmente i risultati sperati né  alla lotta all’evasione (o al recupero fiscale)  né alla penalizzazione del mondo della somministrazione illecita: in sostanza, una manovra complicata, opprimente ed inutile.

 

La norma infatti si propone il contrasto “all’interposizione illecita di manodopera”; tuttavia per la fattispecie, tutt’altro che inconsueta, esistono  specifiche sanzioni proprie. Probabilmente  anche a causa di una depenalizzazione improvvida del sistema sanzionatorio e di un mancato potenziamento del ruolo e delle funzioni ispettive, il fenomeno imperversa in modo irrefrenabile e la sua intercettazione latita. Però invece di perseguirlo di petto lo si prende – come vedremo, inefficacemente – alle spalle, con un irrigidimento normativo che colpisce indiscriminatamente.

 

Se si perdona il paragone-paradosso, è un po’ come se in una città in cui si rubano molte automobili si togliesse la patente di guida a tutti gli abitanti. Con l’unico risultato, a cui siamo spesso abituati, di danneggiare gli onesti lasciando ad imperversare gli scorretti (se uno non ha problemi a rubare un’auto, avrà forse problemi a guidare senza patente ?).

 

Qui la soluzione operativa ha anche una pseudo-giustificazione di natura tributaria: questi delinquenti – ce ne sono tanti ed alcuni anche famosi,  e sono un vero cancro del tessuto economico italiano –   non contenti di eludere la normativa sulla somministrazione illecita e/o fraudolenta, realizzano cospicui guadagni con la compensazione indebita di poste tributarie e contributive. Pertanto la norma in questione, come soluzione,  vieta la compensazione e costringe tutti coloro con determinate caratteristiche  (NB indipendentemente se siano effettivamente elusori, si spara nel mucchio) a produrre una documentazione onerosa che dovrà essere controllata dal committente.

 

Ma il meccanismo, come detto, ha punti di inefficacia clamorosa (senza possibilità di correzione perché è sbagliata in sé la logica di partenza) che sono ancor più acuiti dalle considerazioni contenute nella circolare 1/2020.

 

Elenchiamone succintamente alcuni.

1) Si mischiano le fattispecie.

Può, in astratto ma anche in concreto, sussistere (ai sensi dell’art. 29 del D. Lgs. 276/03) un legittimo appalto con le caratteristiche “sospette“ individuate dalla legge (assenza di mezzi propri, esecuzione in luoghi del committente, prevalenza del costo della manodopera sull’opera complessiva).  Tali appalti legittimi “labour intensive” verrebbero in sostanza penalizzati dalla norma in quanto in pericolosa compagnia con quelli illegittimi. In compenso, l’elusione a cui la norma si riferisce e che vorrebbe intercettare (l’evasione attraverso le compensazioni) non è assolutamente appannaggio dei contratti terziarizzati con quelle particolari caratteristiche: i prezzi al ribasso e le conseguenti elusioni si fanno in molte altre catene di esternalizzazione, comprese sicuramente quelle del  settore pubblico (!). Quindi si colpisce a casaccio.

 

2) I limiti economici  individuati sono ridicoli e facilmente aggirabili.

La soglia di allarme oltre cui si attuano i controlli è individuata in 200.000 euro annui.

Ora, se proprio si volevano colpire i somministratori illeciti, si doveva notare come questi spesso facciano somministrazioni episodiche o limitate a pochi elementi, con offerte “cash and carry”  (non sono difficili da individuare, con una navigazione mediamente sapiente su un qualsiasi motore di ricerca spuntano come funghi), mentre  il valore  in questione è grossomodo riferibile al costo di  circa 6/8 dipendenti annui; in caso di superamento della soglia predetta, all’elusore basterebbe spezzare i contratti con soggetti appaltatori differenti (che peraltro  è tecnica già usata oggi per confondere le carte e rendere più difficili gli accertamenti ed i recuperi ispettivi). Quindi: poca intercettazione della maggior parte dei fenomeni elusivi e possibilità di aggiramento.

 

3) Altre scappatoie

Resisi conto della enormità di oneri messi in capo alle imprese, con la circolare 1/2020 (giustamente, nella logica complessiva, altrimenti  la penalizzazione degli onesti avrebbe raggiunto condizioni obbrobriose)  è stata esclusa dal divieto di compensazione una serie di codici di recupero legati alla attività del sostituto di imposta. Il che, tuttavia,  vuol dire che gli evasori avranno a disposizione quei codici (a pag. 26 della circolare ne sono elencati circa una trentina) per continuare a fare compensazioni fasulle (anche qui basta notare che gli stessi codici sono usati anche oggi a tal fine).

Inoltre, se un appaltatore scorretto avesse un nucleo di lavoratori in cui supera, solo per un committente, il valore dei predetti 200.000 e un cospicuo numero di altri appalti in cui questo importo  non è superato, per tutti gli altri lavoratori potrebbe continuare tranquillamente ad effettuare compensazioni inique.

 

4) La falsa responsabilizzazione del committente.

Al committente si impongono  controlli, che però lo stesso non è in grado di fare nemmeno con la mole di dati ricevuti dall’appaltatore.  La congruità, al contrario, è fissata  “a braccio” in un 15 %   della retribuzione imponibile ai fini fiscali (pag. 31 della circolare). La suddetta percentuale non si sa da dove l’abbiano pescata, ma è tutto l’insieme che rende comunque poco fattibile il controllo del committente. Oppure, lo rende al contrario, talmente ossessivo o penetrante da ingerire nella normale gestione dell’appaltatore.

 

5) La soglia del 10 % dei versamenti.

Uno dei parametri di esenzione è l’aver effettuato, per i tre anni a ritroso, versamenti sul conto fiscale pari ad almeno il 10 %  del volume d’affari, considerando a tal fine tutti i versamenti sul conto fiscale, anche quelli a titolo contributivo.

La soglia è assurda. Facciamo un esempio per chiarire.

Diciamo che abbiamo un’attività labour  intensive del valore (costo del personale ) di 1.000.000 di euro.

Diciamo che a questa attività consegue un volume d’affari di 1.300.000 (il ricarico del 30 %  è tutt’altro che disprezzabile, di solito gli scorretti non ci arrivano perché lucrano non sui prezzi, che devono tener bassi per essere concorrenziali, ma con l’evasione).

Il carico contributivo su tale costo sarebbe di circa 200.000 euro. Quello relativo alle ritenute fiscali valutabile in circa 100.000 euro. La parte Iva sarebbe intorno a 250.000 euro (abbiamo ipotizzato unì’aliquota media, tenendo presente che non sono tutte uguali). La somma di tali debiti sarebbe 550.000 euro, mentre il 10 % di 1.300.000 è di 1300.000 euro. Quindi il legislatore considererebbe non sospetto chi  regolarmente versa molto meno della metà del teorico dovuto (un invito ad evadere con moderazione ?).

 

6) E il dumping ?

Allibisce che la norma, di contrasto all’intermediazione illecita, non tenga conto che uno dei fenomeni principali su cui si regge tale piaga è il dumping contrattuale,che non viene minimamente scalfito da quanto previsto. In pratica, uno Stato che pensa, e pure male,  a sé stesso (le tasse) e non ai lavoratori ?

 

7) Un regalo alle mafie.

Il colpire indiscriminatamente le aziende porterà anche un effetto particolarmente perverso: il divieto di compensazione e qualche presumibile azione di blocco dei pagamenti da parte dei committenti (molti lo usano strumentalmente anche ora) porterà soprattutto le imprese  sane – le altre, come detto, si attrezzeranno in chiave di aggiramento – a difficoltà finanziarie tali da farle diventare ghiotta preda per il riciclo di denaro proveniente da attività illecite. E’ un fenomeno che dall’istituzione del DURC in poi, complice anche la crisi,  si è osservato ripetersi sempre più frequentemente.

 

Potremmo continuare a lungo, ma speriamo di aver dato una sufficiente rappresentazione del fatto che si è cercato di risolvere un problema – esistente e molto, molto serio – con una soluzione rabberciata ed improvvisata, priva del minimo buon senso, che preoccupa ed appesantisce gli operatori seri e presumibilmente scalfirà in modo  non sensibile chi vuol vivere di espedienti, soprattutto se è scientificamente attrezzato a farlo con il supporto di una schiera di professionisti (che solo per questo sarebbero da espungere a vita dal contesto professionale) che potrebbero ideare altri mille artifici oltre a quelli ingenui esposti nelle righe precedenti.

 

Non si vuole assolutamente negare che una grave situazione di irregolarità negli appalti e nelle esternalizzazioni in genere  esiste. Tuttavia l’auspicabile messa in soffitta di questa norma inconcludente potrebbe,anzi dovrebbe, essere l’occasione per costruire forme di controllo veramente efficaci e mirate.

 

Le soluzioni alternative da mettere in campo  – ci fosse una volontà politica diversa dalla propaganda e dagli slogan ad effetto – sarebbero molteplici.

 

Facendo parte del mondo professionale,  chi scrive si permette, a chiusura di queste riflessioni,  di considerarne una che a tale mondo si riferisce e che potrebbe essere efficace su molteplici fronti.

 

Basterebbe far asseverare da professionisti ordinistici (sottoposti a precise regole deontologiche) l’ingente mole di adempimenti e documentazione (versamenti compresi)  del personale occupato nelle varie forme di esternalizzazione, con valore esimente rispetto alla responsabilità solidale. Insieme a ciò, obbligare alla certificazione dei contratti di esternalizzazione, non solo appalto, con  l’esclusione di quelli di valore minimo, ed approfittare di tale passaggio per verificare, oltre alla  genuinità del contratto, la strutturazione,  la qualificazione e l’idoneità professionale dell’esecutore, ai sensi dell’art. 26 comma 1 del D. Lgs. 81/2008.

 

Ritornando all’asseverazione, da estendere certamente anche a tutto il settore pubblico,  la stessa permetterebbe in un sol colpo:

– di sveltire e rendere efficaci le operazioni di controllo, specie se l’asseverazione  proviene dal professionista che segue normalmente l’appaltatore;

– di assicurare la regolarità della filiera, garantendone l’autenticità e regolarità verso il committente, i lavoratori e gli Enti (anche sotto il profilo del dumping contrattuale e della sicurezza sul lavoro)

– di individuare i professionisti seri dai praticoni e dagli illusionisti (per usare degli eufemismi), mettendo questi ultimi fuori dal mercato.

 

Del resto  soprattutto per questo ultimo aspetto, si assisterebbe in tal modo ad una seria ed opportuna inversione di tendenza rispetto alla situazione attuale: oggi la ricchezza di competenze del mondo professionale  è votata troppo spesso alla produzione di adempimenti burocratici per conto dello Stato, con gravi costi per le imprese, e oltretutto spesso inutili come nel caso della norma in argomento. Contemporaneamente, d’altro canto,   al professionista è spesso chiesto dal cliente  un alleggerimento degli oneri (fino ai limiti dell’elusione, e talvolta anche oltre): d’altronde in rete imperversano e fanno furore escapologi e alchimisti fiscali della peggior fatta.

 

In entrambi i casi, comunque, anche al netto dei predetti criminali, c’è uno spreco ed un cattivo utilizzo di competenze professionali, che sarebbero più utili se rivolte ad  una funzione di terzietà e garanzia.

In un Paese serio, si intende.

 

 

Andrea Asnaghi

Consulente del lavoro

ADAPT Professional Fellow

@AsnaghiAndrea

 

Ritenute fiscali in appalto: fra legge e prassi la patetica mazurka dell’illogicità
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