Riforma della PA. Il problema non è il diritto amministrativo, ma il perimetro dello Stato

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Bollettino ADAPT 15 febbraio 2021, n. 6

 

L’articolo di Vicenzo Visco “Il culto del diritto amministrativo frena la ricostruzione della PA”, pubblicato su Il Sole 24 Ore del 6 febbraio 2021 è, da un lato, un’insistenza indiretta sulla difesa delle sue norme incostituzionali che portarono all’incarico illegittimo di migliaia di funzionari come dirigenti, ma, dall’altro, un’analisi che individua spunti corretti per il dibattito sulle riforme della PA. 

Afferma che le difficoltà dell’operato della Pa italiana non derivano dalla inerzia dei burocrati o dalla loro scelta di complicare e tardare, ma in primo luogo dalle norme. Visco non lo dice, ma la conclusione che se ne deve trarre è che la principale responsabilità dei problemi operativi della PA è cagionata da Governo e Parlamento, come dimostrano 30 anni di “riforme” continue e continuamente sbagliate, quando non catastrofiche. 

 

Non è un caso, nota Visco, che “ogni volta che si desidera accelerare adempimenti per poter ottenere risultati concreti è necessario ricorrere a procedure straordinarie, eccezionali, basate sull’accentramento di funzioni e poteri. Questo è stato il caso dell’Expo di Milano, del ponte Morandi a Genova, degli acquisti di emergenza durante la pandemia Covid. Attualmente la questione siri- propone per la gestione dei fondi del Next Generation Eu”. 

L’indicazione dell’ex ministro è corretta: talmente le regole che dovrebbero disciplinare l’operato della PA sono eccessive, confuse, contraddittorie, ridondanti, pletoriche, avviluppate, che per poter cogliere obiettivi in temi tecnicamente accettabili è necessario intervenire proprio per sospendere l’applicazione delle regole generali, che invece di disciplinare imbrigliano, mettendo alle caviglie della PA vere e proprie palle di piombo. 

Quindi, la conclusione di Visco è l’epifania di una verità che molti si ostinano a non comprendere: “In altri termini, la nostra Pa viene considerata, e in realtà risulta, inadeguata a svolgere la sua funzione istituzionale. La ragione di tutto ciò va ricercata altrove, nell’assetto istituzionale che è alla base del sistema”. 

 

Se l’individuazione del problema è corretta, non occorre, allora, insistere nell’errore che si commette da decenni: proseguire su un crinale di riforme del tutto erroneo. 

Per esempio, appare sbagliatissimo e fuori tema continuare a proporre lo stanco progetto della riforma in stile “aziendale” della PA: non funziona e non funzionerà mai. 

 

Visco, per esemplificare l’incartamento della PA, forzato dalle norme, pone un esempio riguardante la sua esperienza come ministro delle finanze. Ricorda che alcune Manifatture Tabacchi avevano problemi funzionali per carenza di elettricisti. Allora, come ministro “chiese” perché detti enti non “si affrettassero” ad assumerli. Gli risposero “che la cosa non era tanto semplice: bisognava infatti indire un pubblico concorso per titoli ed esami, pubblicare il bando sulla Gazzetta Ufficiale, aspettare la presentazione delle domande, nominare le commissioni di concorso, ecc. Era necessario almeno un anno, e intanto la produzione di sigarette poteva attendere”. 

Qui intravediamo gli errori di ortografia amministrativa, nei quali si seguita ad incorrere. In primo luogo, sarebbe opportuno che nessun ministro o politico pensasse che il proprio ruolo consiste nel “chiedere” il “perchè” non ci si “affretti” a porre in essere una qualsiasi attività. 

Troppi pensano che fare il ministro, il sindaco, l’assessore si riduca all’indicare all’apparato di “fare in fretta”. Questo è un modo malato e maldestro di intendere la direzione di una struttura amministrativa.

 

Certo che ciascuno fa quanto deve per “affrettarsi”. Ma, se, come appunto rileva Visco, il problema sta nelle regole, non è che un concorso si possa “affrettare” saltando qualcuno dei passaggi previsti. 

Chi occupa scranni politici, invece di agitare il vessillo del “fare in fretta”, dovrebbe fare la cortesia di conoscere per bene proprio la disciplina e le procedure che regolano le attività, per evitare di ululare alla luna e chiedere una “fretta”, che nella sostanza si traduce non nel rischio, ma nella certezza di qualche errore che implica illegittimità e inefficienza del risultato. 

 

La conoscenza delle regole, indurrebbe chi occupa i ruoli politici a comprendere che il loro ruolo non è “fare fretta” a valle, ma programmare a monte, per evitare di ridursi a cercare il demiurgo quando è tardi. 

Inoltre, la conoscenza delle regole è la base per attivare la semplificazione. Un ministro, un assessore, un sindaco, è inutile che sfoghi sui giornali o al caffè, tra i propri collaboratori, la frustrazione per le norme che imbrigliano. Chi assume ruoli politici, invece di parlare di “riforme”, aggiungendo l’aggettivo che va di moda “strutturali”, le avvii. Sapendo che la riforma principale della PA è la semplificazione delle procedure. Compito che spetta al legislatore.

 

Nel caso dei concorsi, Visco dovrebbe sapere, spetta al legislatore perché c’è una cosa che si chiama Costituzione, che riserva appunto alla legge la disciplina del reclutamento nel lavoro pubblico. 

Visco, nell’articolo che commenta, commette un errore di logica e coerenza. Prima, giustamente, individua nell’ipertrofia delle regole e nel rimedio peggiore del male, il commissariamento a forza di deroghe, il problema. Poi, a partire dall’esempio delle assunzioni, suggerisce una soluzione che, di fatto, è la stessa cosa del commissariamento, ma un po’ più “chic”: cioè, l’espediente di estrapolare una serie di attività dalla sfera della disciplina pubblica, per attrarla verso quella del diritto civile. Infatti, racconta che proprio il reclutamento secondo le regole pubbliche “fu il motivo di fondo per cui promossi la trasformazione del ministero creando le Agenzie fiscali: per sottrarre il settore più importante della pubblica amministrazione alla tirannia e (sovente) alle incongruenze del diritto amministrativo”. 

Peccato che così decidendo: 

  1. Le Agenzie sono divenute una sorta di Stato-nello-Stato, un territorio nel quale il controllo e, in generale, l’accountability nei confronti della cittadinanza sono ridotte al lumicino. Sottrarre proprio il Fisco a regole e procedure chiare, controllabili, significa renderlo pervasivo, ossessivo e limitare il diritto dei cittadini a disporre di regole semplicissime per regolare i propri redditi e strumenti ancor più semplici e lineari di tutela;
  2. Le Agenzie, quando hanno inteso assumere i già citati dirigenti reclutandoli senza concorsi tra i funzionari, hanno creato un immenso e annosissimocontenzioso, violando la Costituzione ed una serie di norme, andando incontro a plurime sentenze che hanno stigmatizzato questo modo di agire. 

Sottrarre settori della PA al diritto amministrativo è una scorciatoia, esattamente come i commissariamenti. Che rischia, per altro, di scontrarsi senza speranza di superarlo, contro lo scoglio della Costituzione. 

Visco considera che la paralisi operativa delle nostre amministrazioni – sempre contraddicendosi rispetto all’analisi iniziale – derivi dalla “impossibilità di agire in autonomia, senza controlli preventivi, rischi di ricorsi amministrativi, interventi dei giudici amministrativi o contabili”.  

Anche questa diagnosi non può considerarsi corretta. Di autonomia, troppi enti ne hanno anche in eccesso: lo si è visto con le regioni, è un caos totale il sistema dei comuni, le Agenzie fiscali sono davvero roccaforti impenetrabili di un modo operativo di agire tutto proprio, istituti come l’Inps sono a loro volta un potere quasi assoluto, mentre le Authority sono state caricate di funzioni anche operative e gestionali, non solo di regolazione. 

In quanto ai controlli, a Visco sfugge che proprio nelle epoche dei Governi dei quali ha fatto parte, sono state disposte deleterie riforme, il cui scopo è consistito esattamente nell’opposto: altro che introdurli, eliminarli del tutto. Il che ha contribuito al disastroso bilancio della gestione delle regioni e degli enti locali. 

 

Ancora, Visco appartiene alla diffusissima scuola di pensiero secondo la quale sarebbero i Tar, brutti e cattivi, a condizionare le scelte della PA e ad imprigionarle. Non è così: i Tar applicano le norme. Se una norma, prendiamone una a caso, quella sulla composizione delle commissioni di gara prevista dal codice dei contratti, è scritta in modo sbagliato e ambiguo, le conseguenze sono per forza decisioni giurisprudenziali contraddittorie, che quindi spingono i cittadini a “provarci” comunque. La norma che abbiamo esemplificato è l’articolo 77, comma 4: “I commissari non devono aver svolto né possono svolgere alcun’altra funzione o incarico tecnico o amministrativo relativamente al contratto del cui affidamento si tratta. La nomina del RUP a membro delle commissioni di gara è valutata con riferimento alla singola procedura”. Esso scatena da anni un contenzioso infinito: si fa causa se il Rup è membro della commissione, ma anche se non lo è; si fa causa se un funzionario che ha partecipato all’ideazione della commessa ha partecipato o no alla commissione e se sì in relazione alla misura della sua incidenza sulla progettazione o gli altri atti. Un disastro. Che deriva soltanto e solo da una norma velleitaria, scritta malissimo, tendente proprio ad annullare l’autonomia della PA, prevedendo un’assurda preclusione a partecipare alle commissioni proprio degli esperti maggiori nell’oggetto della commessa, sulla base di una visione fondamentalista del divieto del conflitto di interessi. 

 

Visco non considera a sufficienza che il problema è la norma, non il giudice. Se non vi fossero i Tar, i cittadini potrebbero ricorrere comunque al giudice civile. Visco, che con la Costituzione dimostra di non andare troppo d’accordo, farebbe bene a ricordarsi dell’articolo 113, comma 1, della Carta: “Contro gli atti della Pubblica Amministrazione è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria o amministrativa”. Quindi, se non vi fossero i Tar, come detto, comunque i cittadini potrebbero tutelarsi davanti al giudice ordinario. 

 

Lo “spauracchio”, dunque, non sono i Tar: sono, giusto ripeterlo a voce alta, le norme scritte male, anche da chi fa il ministro o assume cariche politiche, pensando che il problema si risolva chiedendo di affrettarsi. Il “whatever i takes” funziona in un sistema economico-finanziario, monotematico, nel quale la fiducia nelle azioni di chi ha leve fondamentali nel sistema stesso ha una funzione fortissima. Nella gestione operativa, nella quale occorrono azioni, non suggestioni, occorrono regole funzionanti. 

La soluzione che propone Visco, quindi, non appare corretta, laddove pensa che il problema della PA sia il “diritto amministrativo”. 

 

Su un aspetto del ragionamento di Visco si può concordare: sarebbe da rispettare la diversità delle varie attività svolte dalle varie PA, considerando anche non solo la differente loro missione, ma anche la dimensione e la collocazione territoriale. Ma, il problema è sempre di qualità della normazione: è il legislatore che da sempre sbaglia nel regolare in modo identico, per Roma e per Roccacannuccia, le procedure ed i vincoli. 

Vi sono, probabilmente, anche aspetti delle attività pubbliche tali da poter essere regolati secondo le disposizioni del diritto comune. Ma, Visco dovrebbe sapere che questa astratta possibilità è già prevista dalla legge sul procedimento amministrativo, la legge 241/1990. Il suo articolo 1, comma 1-bis, da anni ed anni dispone: “La pubblica amministrazione, nell’adozione di atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato salvo che la legge disponga diversamente”. Inoltre, l’articolo 11 prevede: “l’amministrazione procedente può concludere, senza pregiudizio dei diritti dei terzi, e in ogni caso nel perseguimento del pubblico interesse, accordi con gli interessati al fine di determinare il contenuto discrezionale del provvedimento finale ovvero in sostituzione di questo”. 

Il problema, allora, consiste, oltre che nel radicale miglioramento del contenuto delle norme, nella reintroduzione dei controlli (altro che eliminazione), nella semplificazione radicale delle procedure, nel capire quale debba essere il “perimetro” delle funzioni propriamente pubbliche. 

 

Si è visto, con la pandemia, quanto sia pericoloso e inadeguato pensare che funzioni essenziali, come la gestione delle strutture addette alla salute pubblica, possano essere ridotte a logiche solo aziendali e concorrenziali. 

Dottrine economiche, sociali e giuridiche di 20-30 anni fa hanno teorizzato il principio di “sussidiarietà”, sanciuto dall’articolo 118, comma 4, della Costituzione: “Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”. Tale norma voleva favorire il riconoscimento dell’operato dei privati come ulteriore aggiunta all’operato pubblico, così riconoscendo anche un apporto “non governativo” al perseguimento di interessi pubblici condivisi. Un riconoscimento da formalizzare con “accreditamenti” o convenzionamenti. 

Ma, questo principio è stato travisato ed inteso in modo esiziale: non “supporto”, come dovrebbe ricavarsi anche dalla stessa etimologia della parola “sussidiarietà”, bensì “concorrenza”. Sicchè, si è finito per teorizzare che strutture private, nella sanità, nella scuola, nel lavoro, nella formazione, nella cultura, nel turismo, nella stessa gestione delle opere pubbliche (si pensi alle forme di “partenariato”) e così via, dovessero soppiantare la gestione pubblica, non sussidiarla, ma sostituirla, avvalendosi però comunque di risorse pubbliche. 

 

L’errore di fondo del pensiero di Visco, e molti altri, è che per incidere sul “perimetro dello Stato” basti il “trucco” di non qualificare il soggetto preposto alla cura di un certo interesse come pubblica amministrazione, bensì come soggetto con personalità di diritto privato: questo basterebbe per sottrarre, quindi, tale soggetto alle regole sulle assunzioni, sugli appalti, sulla contabilità e le altre micidiali pastoie che ingessano la PA. Ma, non si considera che se anche un soggetto che gestisce una funzione pubblica abbia una personalità giuridica di diritto privato, proprio per la circostanza che opera per garantire un interesse pubblico, e, soprattutto, che utilizzi risorse pubbliche (come avviene in particolar modo per le strutture sanitarie convenzionate), nei fatti è un soggetto pubblico. Le sue responsabilità dovrebbero essere le stesse, le cautele ed i controlli dovrebbero essere gli stessi, per evitare la confusione tra l’obiettivo del profitto e quello dell’interesse pubblico. A parole è facile teorizzare che la tensione al profitto genera efficienze: queste, però, possono essere limitate a sole certe categorie, o addirittura alla sola proprietà dell’azionariato, se il fine pubblico non sia controllato e regolato adeguatamente. 

 

Per far fuoriuscire gli enti preposti a servizi dal perimetro del diritto amministrativo, occorrerebbe poter individuare le funzioni che realmente possano essere svolte al di fuori degli “atti autoritativi”, regolati da un mercato ampio, nel quale la competitività si determini sulla base della libera scelta di un cliente e non di un cittadino, e sulla politica dei prezzi. Il cliente non è un cittadino quando il servizio che chiede non è essenziale per la natura stessa della sua relazione con la comunità. Non può essere considerato solo come un “cliente” chi debba essere formato nella scuola, chi debba essere censito per l’anagrafe, chi debba essere preso in carico per assicurare sanità e salute, chi debba fruire di luoghi salubri di lavoro e abitativi, chi debba poter ricevere servizi a rete (acqua, energia) efficienti. 

Verificato quale possa essere un perimetro dello Stato più ristretto rispetto a quello attuale, il diritto amministrativo per quelle funzioni può essere messo da parte. 

Per tutto il resto, scorciatoie e furbizie non servono. Occorre scegliere se fidarsi delle professionalità interne alle PA e come semplificare, riducendo gli adempimenti. 

 

Allo scopo, allora, tornando all’esempio delle assunzioni, occorre scegliere se tenere in piedi, o no, tutte le assurde regole sui tetti alle assunzioni, sulle programmazioni annuali e triennali per assumere, sulla validità delle graduatorie (negli enti locali nemmeno si capisce con certezza se siano biennali o triennali). Per evitare il tempo che si perde per pubblicare il bando sulla Gazzetta (lo stesso vale per gli appalti) la scelta è decidere di sopprimere il Poligrafico dello stato (per altro, soggetto rientrante tra le molte fittizie e furbesche modifiche della personalità giuridica in diritto privato) oppure ridurre le entrate che gli sono garantite da obblighi di pubblicità fuori dal tempo, onerosi ed antiquati, per puntare su una comunicazione via rete. Ancora, eliminare tutte le pastoie per incaricare i componenti delle commissioni e le regole folli sull’attribuzione di compensi. 

 

Il concorso pubblico è un baluardo contro assunzioni condizionate da spinte politiche; e, per altro, le mire corruttive che esistono, non rendono nemmeno il concorso una barriera talmente solida da scongiurare raccomandazioni e truffe. Molte delle regole pubbliche, Visco dovrebbe ricordarlo, sono previste allo scopo di ridurre il potere delle PA, che altrimenti sarebbe debordante. Molte, sono poste a rendere trasparente l’azione, prevedibile e conoscibile, così da poter essere davvero imparziale: dunque, sono poste a tutela dei cittadini. 

 

Occorre eliminare, allora, i vincoli operativi che servono solo a certe categorie ad affermare la loro “presenza” (ragionieri e revisori dei conti sono i primi responsabili dell’esplosione incontrollata delle più folli regole gestionali, condensate nell’assurdo spaventoso dei “principi contabili” introdotti con la “contabilità armonizzata”), oppure a certi enti o Autorità di esercitare forza e superiorità sulle PA, o a creare adempimenti solo compilativi e scadenze continue, prive di qualsiasi utilità (si pensi al recente scompiglio inutilmente creato dalle regole sul POLA per il lavoro agile). 

Occorre ridimensionare di molto l’estensione della responsabilità contabile, facendo sì che essa sia alternativa e non aggiuntiva a quella civile ed eradicando dalla Corte dei conti la funzione di amministrazione consultiva: questa non può e non deve essere esercitata da un organo giurisdizionale, ma da un organo amministrativo specializzato. 

 

Infine, occorre puntare su un’amministrazione che invece di autorizzare a monte, controlli a valle la regolarità dell’accesso a titoli giuridici e benefici, fornendo preventivamente servizi di consulenza. 

In mancanza di ciò, ogni riforma della PA, fondata sull’ingannevole mito della “managerialità” o del paradigma dell’estrapolazione forzata e fittizia di alcune funzioni per ricondurle al “privato” continueranno solo a riprodurre gli errori cui assistiamo da oltre 30 anni

 

Luigi Oliveri

ADAPT Professional Fellow

@rilievoaiace1

 

Riforma della PA. Il problema non è il diritto amministrativo, ma il perimetro dello Stato