Ricerca e innovazione nelle imprese italiane: cosa manca per generare crescita e produttività

In crescita debole o negativa da oltre vent’anni, la produttività è oggi la vera leva che manca per rilanciare la crescita dell’economia italiana. Guadagnata la consapevolezza che il potenziamento delle attività di ricerca e innovazione all’interno delle imprese è una necessaria condizione per colmare il divario che ci separa dalle economie più dinamiche dello scenario europeo, la prossima legge di bilancio punterà su strumenti automatici e incremento della generosità dei finanziamenti alla ricerca.

Un ventaglio di misure che costituiscono al contempo uno degli assi strategici del piano italiano Industria 4.0 sulla manifattura digitale. In attesa di conoscere i dettagli operativi e finanziari, ne abbiamo parlato con Lucio Cassia, Professore Ordinario presso il Dipartimento di Ingegneria gestionale, dell’informazione e della produzione e presidente del Research Center for Young and Family Enterprise (CYFE) dell’Università degli Studi di Bergamo, e Tommaso Minola, Professore Aggregato presso lo stesso Dipartimento e direttore del CYFE.

 

Incremento e automatizzazione dei finanziamenti per la ricerca, proroga del superammortamento per digitalizzare la produzione e eliminazione degli incentivi a bando. Queste misure vi convincono?

 

Professor Minola – Semplificare le procedure e snellire la burocrazia sono sicuramente scelte in prima battuta convincenti, vi sono tuttavia due criticità evidenti che devono essere indirizzate: in primo luogo bisogna conoscere quello che c’è sul territorio e le relative dinamiche. L’attività di finanziamento sul territorio effettuata centralmente può essere pericolosa se il soggetto centrale non ha è consapevolezza del tessuto socio-economico su cui si interviene e dei bisogni che questo esprime. In secondo luogo, per fare politiche per l’industria servono risorse, e l’attuale scarsità di risorse costituisce un problema enorme. Da questo punto di vista ricorrere alla defiscalizzazione di spese fatte dall’impresa è una buona scelta e valorizza e responsabilizza l’iniziativa del singolo attore inteso come impresa.

 

Professor Cassia – Concordo, e potremmo anche discutere, in momenti di scarsità di risorse, se non sia necessario correggere l’inefficienza che deriva dalla polverizzazione dell’assegnazione delle risorse. È recente un’analisi dei 3000 progetti finanziati con i fondi strutturali europei PON “Ricerca e Competitività” 2007-2013, che mostra come parte dei 7 miliardi di euro siano stati assegnati in molti rivoli, alcuni difficilmente riconducibili alla ricerca. Forse più che distribuire incentivi a pioggia sarebbe bene concentrare l’attenzione sui progetti che hanno davvero il potenziale di crescere, per evitare che la semente finisca su terreno arido, com’è già successo tante volte.

 

 

È possibile intervenire riorganizzando il sistema di incentivi già disponibili ma molto dispersi e selezionare i destinatari delle risorse per ottimizzarle?

 

Professor Cassia – Potremmo già sapere in anticipo se il terreno su cui si intende seminare è terreno fertile o arido. O meglio, prima di investire non è difficile trarre indicazioni e criteri circa i terreni più fertili rispetto ad altri. Alcuni degli studi che l’Università dei Bergamo ha promosso tramite il proprio Centro  per la Nuova Imprenditorialità (CYFE), vanno in questa direzione. Una ricerca svolta dal prof. Minola ha mappato le start-up innovative che si sono registrate in Italia nel 2014. Si tratta di 1431 nuove imprese, noi ne abbiamo contate 1471, per la precisione. Gran parte della ricerca guarda ai risultati d’impresa (es., crescita, innovazione, raggiungimento del breakeven, produttività). Dall’analisi di 268 di queste imprese, per le quali sono stati ottenuti anche dati di natura economico-finanziaria, appare evidente come il contesto che genera le start-up influenza i risultati di impresa. In particolare, le start-up che nascono dall’esperienza in impresa o in ambito accademico performano meglio di altre start-up in termini di crescita e innovazione. Dallo studio, sebbene limitato alle start-up, si può trarre una lezione importante: le strutture ad alta densità intellettuale e ricche di capitale umano che arriva da un contesto universitario o da esperienza d’impresa hanno un terreno più fertile e le attività sono più performanti che altrove.

 

Professor Minola – Credere che semplificare sia solamente sinonimo di alleggerire la burocrazia, eliminare i bandi e snellire gli adempimenti amministrativi che gravano sulle aziende sarebbe un errore. Bisognerebbe infatti pensare le politiche in termini di ecosistema della ricerca. Semplificare significa anche e soprattutto tenere conto delle competenze territoriali, politico-istituzionali e scientifiche in cui vengono condotte le attività di innovazione.

 

 

Il MIUR e il MISE individueranno cinque atenei tra quelli più performanti nella ricerca sui quali concentrare i finanziament. Questa scelta non rischia di mortificare atenei minori in territori che stanno cercando di crescere?

 

Professor Cassia – L’aspetto meritocratico va salvaguardato, è una considerazione sulla quale non si discute, né in ambito nazionale, né locale: si mettono risorse dove le cose funzionano. Ma c’è un ampio dibattito in merito su quale sia l’unità che definisce le performance; ci si sta chiedendo se sia l’Ateneo nella sua interezza il soggetto corretto su cui investire. Dobbiamo notare che i grandi Atenei comprendono al proprio interno molte competenze scientifiche distribuite in differenti Dipartimenti. Nonostante l’Ateneo possa avere una grande reputazione, tutti i suoi Dipartimenti esprimono eccellenze? Forse sarebbe più opportuno aumentare la granularità nell’allocazione quando si discute d’investimenti strategici; forse sarebbe opportuno non individuare i migliori Atenei tout court, quanto i migliori Dipartimenti di tutte le nostre Università. È frequente il caso di Dipartimenti con grandi competenze scientifiche incardinati in Atenei di medie dimensioni.

 

Eccellenza che si misura anche dalla capacità di raccordarsi con il territorio e di interagire con le imprese? I ranking universitari non apprezzano adeguatamente questi elementi.

 

Professor Cassia – C’è una grande discussione attorno ai ranking mondiali di valutazione degli Atenei, anche per effetto della discrezionalità dei parametri e dei pesi, che possono favorire alcuni modelli universitari rispetto ad altri. Nella nostra Università un gruppo guidato dal prof. Paleari, che è stato Presidente della CRUI e membro dell’associazione delle Università europee (EUA), sta conducendo ricerche molto promettenti in questa direzione. Interessante sarebbe tener conto, soprattutto per gli Atenei di minori dimensioni, della capacità di istituzionalizzate una relazione con il proprio territorio e di alimentarne la crescita e lo sviluppo.

 

Professor Minola – La strategia e gli strumenti pensati anche a favore delle università vanno bene, non contengono elementi negativi, ma non ci si deve illudere che questo basti. Sono comunque insufficienti, servono stimoli di sistema per favorire la crescita di veri e proprio ecosistemi della ricerca territoriali, e una volta che questi sono nati, dargli fiducia.

 

 

Cosa manca all’Italia per costruire fruttuoso rapporto pubblico-privato e favorire la nascita di un ecosistema della ricerca?

 

Professor Minola – L’aspetto centralista italiano, o così detto approccio top-down, non è negativo in sé, ma sicuramente è meno efficiente e meno correlato al territorio. Una virtuosa cooperazione tra questo approccio e uno bottom-up, che permetta ai territori di esprimere le proprie competenze, specializzazioni e dunque necessità, rappresenterebbe l’ottimo.

 

Professor Cassia L’approccio “centralista” è utile per identificare, tutelare e valorizzare, quando il legislatore opera con dovizia d’attenzione, le realtà eccellenti già in essere. Però forse serve promuovere una valorizzazione local, perché è lì che nascono alcune competenze specifiche che spesso si consolidano presso atenei minori. Ci sono esperienze virtuose in Europa, dove l’interazione di pubblico e privato è garantita e mantenuta da istituti e centri di ricerca, penso al Max Planck o alla fondazione Fraunhofer in Germania.

 

 

Il numero dei ricercatori che in Italia lavorano nel settore privato è uno tra i più bassi dell’area OECD. Come si spiega? Il privato è una scelta di serie B rispetto all’accademia tradizionale? 

 

Professor Minola – No, non credo, l’atteggiamento degli studenti di dottorato sta cambiando, oggi a un’esplosione di dottorandi non corrisponde necessariamente un’esplosione di interesse della carriera accademica. L’aumento dei dottorandi fa riferimento a un numero crescente di persone che vogliono conseguire un titolo di dottorato per qualificare se stessi e per formarsi, per maturare il proprio capitale umano. In Germania per esempio il dottorato è molto apprezzato nel mercato del lavoro, qui ancora non lo è del tutto, però inizia a essere valorizzato. Molti miei studenti iniziano questo percorso perchè al termine vogliono intraprendere un tipo di ricerca non accademica, bensì quella del problem-based approach delle imprese. Non credo che nella testa degli studenti di dottorato ci sia un ranking di nobiltà tra accademia e imprese, certo ci sono attitudini all’attività di ricerca diverse.

 

Professor Cassia – Oggi l’accademia assorbe solo una frazione di chi consegue un dottorato di ricerca, quindi è bene che sia diffusa la consapevolezza che un dottorato è di estrema utilità sociale anche con una carriera diversa rispetto a quella accademica, ad esempio nell’attività di ricerca privata o nella costituzione di startup. È sbagliato pensare a ranking di nobiltà tra ricerca condotta in università e ricerca condotta in ambito privato. Colgo invece un ranking di complementarietà, perché chi fa ricerca in ambito accademico lo fa con un obiettivo di frontiera, ossia scoprire e dire qualcosa che ancora gli altri non sanno. Nel mondo dell’impresa è florida la ricerca che permette di risolvere problemi e realizzare concretamente le cose. Si tratta di mondi che possono arricchire di complementarietà il nuovo sapere. Fare ricerca è un’attitudine mentale prima ancora di essere un percorso di studio. E’ importante soprattutto per le PMI, che oggi con difficoltà colgono il valore di un Dottorato di Ricerca.

 

 

La figura chiave della Quarta rivoluzione industriale è dunque il ricercatore come progettista e innovatore. Serve una moderna legislazione che regoli l’opera dei ricercatori nel privato, i loro percorsi di carriera e salariali?

 

Professor Minola – Una categoria professionale che fosse funzionale ad agganciare i contributi e le deduzioni concesse anche sulla base dei costi del personale di ricerca ha una sua coerenza e logica interna. Molto spesso manca trasparenza rispetto alle spese effettive in R&S sostenute dalle imprese, capita che venga incluso anche chi svolge attività strettamente produttive o commerciali.

 

Professor Cassia – Non ho competenze in ambito giuslavoristico, ma col buon senso penso che potrebbe essere utile rendere molto flessibile il lavoro di un ricercatore in ambito privato. Per noi in Università la flessibilità nella ricerca è la norma, che assume modi e forme del tutto diverse rispetto alla didattica, che invece è confinata all’interno di un orario formale. Anche per effetto dell’internazionalizzazione del nostro lavoro di ricercatori, lavorare e comunicare nelle ore notturne tutti i giorni della settimana è la normalità, non l’eccezione. E non è un peso.

 

Elena Prodi

Scuola internazionale di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro

ADAPT, Università degli Studi di Bergamo

@Elena_Prodi

 

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