Rapporto Bes 2014: sempre più difficile la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro

Per il secondo anno consecutivo il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (Cnel) e l’Istituto nazionale di statistica (Istat) hanno presentato il Rapporto sul Benessere Equo e Sostenibile (Bes 2014) che riprende l’analisi dei principi che fondano e caratterizzano il benessere in Italia. Il Rapporto propone l’analisi di 12 domini del benessere descritti attraverso 134 indicatori dai quali emergono criticità e potenzialità del nostro Paese. Viene proposta una lettura sistematica delle differenze esistenti per genere, età e territori e di come sta cambiando in meglio o in peggio la qualità della vita osservata attraverso i 12 diversi domini.
 
L’analisi condotta dal Cnel e dall’Istat pone l’attenzione sul calo dell’occupazione, il peggioramento della qualità del lavoro e l’aumento delle diseguaglianze territoriali.
Negli ultimi due anni si amplia ulteriormente la distanza tra il tasso di occupazione e il tasso di mancata partecipazione in Italia e quelli dell’UE28. Nel 2013 il tasso di occupazione italiano si attesta al 55,6%, mentre nella UE28 è pari al 64,1% (Istat, Rapporto annuale 2014. La situazione del Paese).
 
Tabella 1 – Tasso di occupazione di 15-64 anni – Anni 2008, 2012, 2013 (valori percentuali e variazioni in punti percentuali)
 

Caratteristiche Stati membri % Tasso di occupazione % Variazioni tasso di occupazione
Valori 2013  Periodo 2008/2013 Periodo 2012/2013
Maschi 64,8 – 5,5 – 1,7
Femmine 46,5 – 0,7 – 0,6
Italia 55,6 – 3,1 – 1,1
Ue28 64,1 – 1,6 – 0

Fonte: elaborazione Isfol su dati Istat, Rilevazione sulle forze di lavoro
 
Nel 2013 si registra un calo dell’occupazione quasi esclusivamente maschile, ciò dovuto alla crisi dell’industria manifatturiera e delle costruzioni. Per l’occupazione femminile, dopo il calo del 2009, si è osservata una crescita nel 2011 e nel 2012. Nel complesso dei cinque anni della crisi (2008 – 2013), il tasso di occupazione degli uomini si è ridotto del 5,5%, a fronte di un calo dello 0,7% per le donne (cfr. Tabella 1).
 
La quota di donne occupate continua, comunque, a essere molto bassa (46,5%) 12,2 punti inferiore al valore medio della UE28. Diminuiscono le differenze di genere, ma solo perché gli uomini sono più colpiti dalla crisi. L’occupazione femminile resiste per un insieme di fattori: il contributo delle donne straniere occupate nei servizi alle famiglie (aumentate di 359 mila unità tra il 2008 e il 2013 a fronte di un calo delle italiane di 370 mila unità). Altro fattore per cui l’occupazione femminile non è diminuita è dovuto all’aumento delle donne occupate con più di 50 anni a causa dell’innalzamento dell’età pensionabile (Legge 22 dicembre 2011, n. 214); infine si rileva l’ingresso nel mercato del lavoro di quelle donne che debbono sopperire alla disoccupazione del partner. Aumentano così le donne breadwinner, in famiglia è sempre più spesso la donna ad essere l’unica occupata. Il dato riguarda 591 mila famiglie. La crisi ha, quindi, colpito i nuclei familiari.
L’analisi elaborata da Eurofound nel 3° Rapporto sulla qualità della vita Quality of life in Europe: Families in the economic crisis (Eurofound, 2014) descrive l’evoluzione della qualità della vita nell’UE per diversi tipi di famiglie confrontando le loro condizioni di vita e la loro situazione sociale. Le famiglie che si sono trovate ad essere con un solo reddito sono quelle, che sono e saranno, più esposte a difficoltà economiche.
 
L’Europa sta continuando a fronteggiare la peggior crisi economica dal secondo dopoguerra. Nel 2011, il prodotto interno lordo pro capite di 22 dei 27 Stati membri è stato al di sotto dei livelli del 2008 e il tasso di disoccupazione più elevato che nel 2008 in 25 dei 27 paesi europei (dati Eurostat, febbraio 2013). Anche il debito pubblico è divenuto un tema critico in molti paesi. Tutto ciò è stato accompagnato da una scarsa fiducia nel futuro da parte dei cittadini europei.
Molti indicatori socio economici hanno dimostrato l’esistenza di questi trend preoccupanti, ma come sottolineato dal Commissario europeo del Directorate General for Employment, Social Affairs and Inclusion (DG EMPL) è necessario, d’ora in poi, focalizzare l’attenzione su quale è stato l’impatto reale della crisi sulla vita dei cittadini europei. La domanda che ne emerge è sostanzialmente se sia giusto parlare di benessere in tempi di crisi.
 
Il Third European Quality of Life Survey – Quality of life in Europe: Subjective well-being (Eurofound, 2103) pone in evidenza il fatto che rilevare dati sul benessere soggettivo possa essere significativo nel contesto della sfida economica che l’Europa si trova a fronteggiare. Sarebbe auspicabile monitorare i bassi livelli di benessere al fine di identificare quei gruppi di popolazione che richiedono misure di protezione dedicate, cosa non semplice utilizzando soltanto indicatori economici. In secondo luogo, tale tipo di analisi potrebbe aiutare ad identificare gruppi di popolazione che hanno un livello di benessere superiore a quello atteso, al fine di dare sia indicazioni di policy che possono essere replicate per altri gruppi di popolazione che raccomandazioni più generali.
L’impressione che ne emerge è che la crisi abbia accentuato le diseguaglianze e che l’impatto maggiore si sia registrato su gruppi di popolazione già vulnerabili.
 
Nel nostro Paese l’acuirsi della crisi economica ha determinato un aumento delle diseguaglianze territoriali e tra le generazioni sia nell’accesso al lavoro, sia in riferimento alla dimensione della qualità del lavoro, in quanto le condizioni di lavoro incidono sul grado di benessere.
Il Bes 2014 mostra come la congiuntura economica negativa si associ ad un rilevante peggioramento della qualità del lavoro, non solo in termini di stabilità dello stesso, ma anche di coerenza delle competenze acquisite nel sistema formativo. E’ sempre più evidente la difficoltà di passare da un impiego a tempo determinato a uno a tempo indeterminato, è in lieve aumento la quota di occupati che hanno un lavoro a termine da almeno cinque anni, 527 mila persone nel 2013.
 
Negli ultimi due anni diminuisce, poi, la differenza di genere nell’ambito della qualità del lavoro, sempre dovuta al forte calo dell’occupazione maschile. Gli uomini occupati a tempo determinato sono aumentati di 2 punti percentuali attestandosi al 20%, avvicinandosi così alla quota delle donne occupate a tempo determinato (21%).
 
Per quanto riguarda il livello di istruzione, possedere un livello di istruzione più elevato rispetto a quello necessario per lo svolgimento dell’attività lavorativa è sempre più frequente. In questa condizione nel 2010 erano il 21% dei laureati e diplomati, il 22% nel 2013. Se il dato viene disaggregato per genere la quota delle donne con livello di istruzione superiore a quello richiesto per lo svolgimento dell’attività lavorativa aumenta di 2 punti percentuali rispetto a quella degli uomini, confermando che le donne hanno maggiori difficoltà a trovare un lavoro adeguato al titolo di studio conseguito.
Altra dimensione cui si lega strettamente la peggior qualità del lavoro è la difficoltà di conciliare i tempi di lavoro con quelli di vita. Il Rapporto Annuale 2014 (Istat) evidenzia l’aumento della quota di donne occupate con figli piccoli che lamentano difficoltà di conciliazione (dal 38,6% del 2005 al 42,7 %).
 
Persiste il divario tra il tasso di occupazione delle madri tra i 25 e i 49 anni con i figli in età prescolare e quello delle donne, nella stessa fascia di età, senza figli, esso si attesta al 25%. Su 100 lavoratrici occupate senza figli solo 75 sono quelle occupate con figli in età prescolare. La differenza nella partecipazione al mercato del lavoro tra le donne con o senza figli si riduce, però, al crescere del titolo di studio: il gap è elevato (43,5%) per le donne che possiedono un titolo di studio fino alla licenza media, ma diminuisce al 7,9% se il titolo di studio posseduto è la laurea (cfr. Grafico 1). Rispetto all’anno 2011 il rapporto tra i tassi, per le donne laureate nella fascia di età 25 – 49 anni, migliora leggermente (Istat, Bes 2013).
 
 
Grafico 1 – Rapporto tra tasso di occupazione delle donne di 25-49 anni con figli in età prescolare e delle donne senza figli, per titolo di studio. Anni 2011 e 2013
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Fonte: elaborazione Isfol su dati Istat – Rilevazione sulle Forze di lavoro
 
In merito alla mancata partecipazione al mercato del lavoro per le madri con figli in età inferiore ai tre anni si pone, inoltre, l’attenzione sulla minore disponibilità di asili nido rispetto alle scuole per l’infanzia. Il Bes 2014 evidenzia che dopo una crescita dell’offerta dei servizi per la prima infanzia negli anni scolastici 2004 – 2005 e 2010 – 2011, nel 2011 tale offerta subisce un rallentamento. La quota di bambini che hanno usufruito dei servizi scende dal 14% del 2010 – 2011 al 13,5% del 2011 – 2012. La battuta di arresto nelle iscrizioni, secondo l’Istat, è dovuta alle ridotte capacità di spesa dei Comuni condizionati dai vincoli imposti dal Patto di Stabilità Interno, dalla crisi economica e dalle riduzioni dei trasferimenti statali.
 
Se si prendono, poi, in considerazione le donne straniere il rapporto tra il tasso di occupazione delle madri con figli in età prescolare e quelle senza figli arriva al 50%. In presenza di figli, quindi, la situazione occupazionale delle straniere è ancora più critica rispetto a quella delle italiane. Il tasso di occupazione delle madri straniere è del 42,4% rispetto al 56,2% delle madri italiane. Se poi le madri straniere hanno un figlio nella fascia di età 0 – 2 anni il tasso di occupazione scende al 28,6%. Le donne straniere hanno quindi maggiori difficoltà a conciliare il lavoro con la cura dei familiari anche perché possono far minor affidamento sulla rete parentale, considerando che il 51,5% delle italiane nel 2012 ha fatto ricorso ai nonni e soltanto il 14,1% ha usufruito di servizi pubblici per la prima infanzia (fonte: Istat, Indagine campionaria sulle nascite e le madri).
 
In ultima analisi: nel nostro Paese peggiora la qualità dell’occupazione, il che ha un impatto negativo sulla conciliazione dei tempi di lavoro e di vita rendendola difficoltosa e condizionando anche il livello di benessere. Il circolo vizioso che si è così instaurato potrà essere modificato richiamando l’attenzione dei decisori politici sulla necessità di considerare gli indicatori di benessere, oltre il PIL, nel contesto di transizione verso un modello alternativo di sviluppo.
 
Nel 2012 il Canada ha lanciato il primo rapporto sul Canadian Index of Wellbeing (How are Canadians really doing? The 2012 CIW Report, ottobre 2012) in cui è tracciato l’impatto che la recessione ha avuto sulla qualità della vita dei canadesi. Secondo il CIW Report favorire un dialogo che sia costruttivo può condurre al cambiamento: si può scegliere una via alternativa per promuovere sia una miglior qualità della vita che un’economia più sana. Le “nuove” politiche pubbliche avranno un enorme impatto sul benessere, se i policy maker ne percepiranno la natura complessa e lo stretto legame con gli aspetti economici.
La coesione economica e sociale e lo sviluppo sostenibile sono peraltro, gli obiettivi dell’UE; l’art. 3 del Trattato di Lisbona afferma, infatti, che l’Unione si prefigge di promuovere la pace, i suoi valori e il benessere dei suoi popoli.
 
Valeria Viale
ADAPT Professional Fellow
@ValeriaViale7 
 
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