Quando la giurisprudenza contraddice il sindacato. L’obbligo di repêchage nel contratto di somministrazione, secondo la Corte di Cassazione

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Bollettino ADAPT 21 gennaio 2020, n. 3

 

È illegittimo per violazione dell’obbligo di repêchage il licenziamento irrogato da un’agenzia di somministrazione che non prova l’impossibilità di ricollocare il lavoratore, nonostante abbia adempiuto alle procedure prescritte dal contratto collettivo. Si è pronunciata in tal senso la Corte di Cassazione il 18 ottobre 2019, con sentenza n. 26607, confermando la legittimità della decisione assunta dalla Corte d’Appello di Milano che aveva condannato un’agenzia di somministrazione al pagamento del risarcimento di dodici mensilità a fronte di un licenziamento illegittimo per giustificato motivo oggettivo disposto nei confronti di una lavoratrice, in missione presso un’azienda utilizzatrice, assunta a tempo indeterminato.

 

L’agenzia aveva fatto ricorso per due motivi. Anzitutto, la ricorrente lamentava la violazione e falsa applicazione di norme di diritto in materia di licenziamento e di somministrazione di lavoro in quanto sosteneva, da un lato, di aver provato in giudizio l’impossibilità di re-impiegare la lavoratrice presso la stessa azienda utilizzatrice; dall’altro lato, di non avere, anche qualora fosse esistita una posizione disponibile presso l’utilizzatrice, il potere di disporre la ricollocazione, né tantomeno di esigerla da parte dell’azienda utilizzatrice, nel rispetto del carattere triangolare dello schema della somministrazione.

 

La ricorrente, inoltre, contestava l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, sostenendo di aver adempiuto al suo obbligo di provare a ricollocare la lavoratrice prima di disporne il licenziamento poiché aveva espletato correttamente la «Procedura in mancanza di occasione di lavoro» prevista dall’art. 25 del CCNL delle Agenzie di somministrazione. Quella richiamata è una procedura concordata e presidiata dalle parti sociali, con il coinvolgimento di FormaTemp, il fondo bilaterale che si occupa della formazione e del sostegno al reddito dei lavoratori in somministrazione, che subordina la legittimità del licenziamento di un lavoratore all’espletamento di un percorso di riqualificazione, della durata di sei mesi (durante i quali il lavoratore percepisce 850 euro mensili).

 

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso. In particolare, prima di respingere la tesi sostenuta dalla parte ricorrente, il Supremo Collegio ha osservato che la normativa di riferimento non è quella contenuta nel d.lgs. 81/2015 ma quella, ratione temporis, del d.lgs. 276/2003 poiché il contratto di somministrazione è stato stipulato nel 2014 e che ai fini dell’integrazione del giustificato motivo oggettivo, non può «essere sufficiente la cessazione della missione presso l’utilizzatore […]; ma deve anche escludersi che l’estinzione del contratto commerciale a tempo indeterminato possa di per sé giustificare il recesso dell’agenzia dal contratto di lavoro a tempo indeterminato». Il recesso da parte dell’agenzia di somministrazione, infatti, deve avvenire nel rispetto della normativa sui licenziamenti individuali. Normativa che, ribadiscono i giudici della Corte di Cassazione, prevede che il datore di lavoro dimostri la «impossibilità di reperire, per un congruo periodo di tempo, occasioni di lavoro compatibili con la professionalità originaria o acquisita del dipendente nonché dell’impossibilità di mantenere lo stesso in condizione di ulteriore disponibilità».

 

Il primo motivo di ricorso non viene accolto poiché in discussione non vi è, secondo la Corte, l’applicabilità o l’interpretazione di una regola giuridica, nel caso di specie quella dell’obbligo di repechage, sulla cui esistenza tutti concordano, né la possibilità che l’agenzia di somministrazione possa imporre all’utilizzatrice la ricollocazione della lavoratrice. In discussione vi è, piuttosto, il fatto che l’agenzia abbia o meno provato l’impossibilità di reinserire la dipendente presso l’utilizzatrice. La Corte d’Appello, infatti, sulla base della deposizione di alcuni testimoni, aveva accertato l’esistenza di «numerose attività aperte e vacanti» alle quali la lavoratrice poteva essere assegnata.

 

Neppure il secondo motivo viene accolto, poiché l’assunto difensivo secondo cui lo svolgimento della procedura di ricollocazione prevista dal CCNL delle agenzie di somministrazione sarebbe «sufficiente a soddisfare l’onere probatorio sull’obbligo di repechage non è in alcun modo fondato». Infatti, sebbene l’art. 25, comma 20 del CCNL preveda che, una volta espletata la procedura di ricollocazione e una volta verificata la permanenza della mancanza di occasioni di lavoro, il licenziamento per giustificato motivo oggettivo sia legittimo, il contratto collettivo «non può costituire valida deroga alla disciplina legale in materia di licenziamento, dovendo la legittimità dell’atto risolutivo del rapporto di lavoro essere valutata dal giudice unicamente in relazioni alle nozioni legali».

 

Tirando, quindi, le fila del discorso, possiamo affermare che le agenzie di somministrazione hanno l’obbligo di accertarsi che presso l’azienda utilizzatrice non ci sia alcuna posizione vacante dove ricollocare il lavoratore licenziato. Tuttavia, è vero anche che queste non hanno l’obbligo (né il potere) di ottenere l’effettiva ricollocazione, che rimane inevitabilmente nella disponibilità arbitraria dell’azienda utilizzatrice. La Corte di Cassazione però non esplicita se l’estensione dell’obbligo di repêchage in capo a quel particolare datore di lavoro che è la somministratrice sia tale da imporre a questa il tentativo di ricollocare il lavoratore anche presso un’azienda utilizzatrice diversa. Tra le articolate pagine con le quali i giudici di legittimità si sono impegnati a ricostruire la normativa sulla somministrazione, non figura un passaggio argomentativo di questo aspetto, che non può che essere decisivo nel definire che cos’è l’obbligo di repêchage all’interno di un contratto di somministrazione.

 

A ben vedere, anche sostenere che le agenzie di somministrazione, prima di licenziare per giustificato motivo oggettivo, abbiano l’obbligo di tentare la ricollocazione presso qualsiasi azienda, significa costruire un onere della prova diabolico. Come si potrebbe provare, infatti, di aver fatto tutto ciò che era esigibile e nelle possibilità materiali dell’agenzia per trovare un nuovo impiego al lavoratore? Occorrerebbe individuare una soglia, superata la quale si possa dire che il tentativo di ricollocazione sia stato effettivamente espletato? Forse. Anche perché, senza tale limite, le alternative sarebbero solo due: a) quella di dare un potere ancora più grande (e totalmente arbitrario) al giudice; b) o, come accaduto nella sentenza in esame, vincolare il raggio d’azione dell’obbligo di repêchage limitatamente alla singola azienda utilizzatrice.

 

Se si vuole tutelare il lavoratore somministrato ma, allo stesso modo, si vuole evitare di costruire un onere della prova diabolico in capo all’agenzia di somministrazione, ritorna utile allora il riferimento che la ricorrente fa alla procedura di ricollocazione prevista dalla contrattazione collettiva. Essa, infatti, in quanto partecipata e supervisionata dalle parti sociali, potrebbe garantire che il tentativo di reinserimento del lavoratore sia effettivo, da un lato; dall’altro lato, consentirebbe di misurare e delimitare tale tentativo, anche nella durata (di sei mesi), senza costringere l’agenzia ad oneri della prova impossibili da integrare. Come è stato già detto, «la ratio sottesa all’art. 25 Ccnl è quella di arginare il rischio che l’(eventuale) licenziamento del lavoratore somministrato non sia motivato da ragioni effettive, esigendo un impegno reale dell’agenzia a favorirne il reinserimento nel mercato del lavoro» (A. D’Ascenzo, Agenzie per il lavoro e licenziamenti. Una recente pronuncia del Tribunale di Milano, in Bollettino ADAPT 18 luglio 2016, n. 26).

 

Il giudice non sbaglia quando afferma che il CCNL non può derogare la legge, se questa non lo prevede; però sembrerebbe, allo stesso tempo, irragionevole considerare insufficiente il tentativo di reimpiego valutato come effettivo da parte dei sindacati, se si considera che proprio quella legge inderogabile in materia di licenziamento non prevede l’istituto dell’obbligo di repechage che, com’è noto, è di integrale creazione giurisprudenziale. In questa prospettiva, allora, resta da chiedersi se sia opportuno o meno valorizzare anche le creazioni delle parti sociali che, con specifico riferimento al contratto collettivo delle agenzie di somministrazione, sembrano costruire un sistema di tutele per il lavoratore incentrate sui servizi per l’impiego, piuttosto che sulla mera conservazione del posto, come invece sembra fare la giurisprudenza.

 

Concludendo, possiamo notare che da questa pronuncia emerge chiaramente come giurisprudenza e sindacato si ritrovino ancora su due sponde opposte, realizzando il controsenso evidenziato già anni fa da Gino Giugni –  e rievocato da M. Tiraboschi durante le giornate di studio AIDLASS del 2019 – per cui al potere dell’imprenditore è opposto «non uno ma due contropoteri, peraltro non sempre in sintonia o comunque comunicanti tra di loro: uno […] quello del sindacato, l’altro quello del giudice».

 

Giorgio Impellizieri

ADAPT Junior Fellow

@Gimpellizzieri

 

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