Proposta di legge a tutela dei soggetti vulnerabili: la “funzione sociale” del diritto alla protezione dei dati personali alla prova della videosorveglianza

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«Misure per prevenire e contrastare condotte di maltrattamento o di abuso, anche di natura psicologica, in danno dei minori nei servizi educativi per l’infanzia e nelle scuole dell’infanzia e delle persone ospitate nelle strutture socio-sanitarie e socio-assistenziali per anziani e persone con disabilità e delega al Governo in materia di formazione del personale» è il titolo della proposta di legge C. 1066 discussa dalla Camera dei Deputati dal 18 al 23 ottobre, ed attualmente sottoposta all’esame del Senato (S. 897), nota anche come proposta “Calabria ed altri” per il nome della deputata che ha capeggiato il proponente gruppo di Forza Italia.

 

Strumenti, finalità ed esigenze di bilanciamento

 

Obiettivo primario del progetto di legge, che rappresenta l’evoluzione e la riproposizione di una proposta avanzata nel corso della precedente legislatura, è quello di rispondere al crescente allarme sociale derivante dai ripetuti episodi di violenza realizzatisi nei confronti di soggetti particolarmente vulnerabili della società, quali infanti, disabili ed anziani, incredibilmente vittime nei luoghi in cui dovrebbero sentirsi maggiormente al sicuro, come le strutture deputate alla loro educazione, accoglienza o assistenza e cura.

 

Gli strumenti eletti a tal fine sono, da un lato, un massiccio sistema di videosorveglianza da implementare nel luogo di lavoro e, dall’altro lato, il potenziamento della formazione, in una ottica di continuità della medesima tale da superare il momento della preselezione in vista dell’accesso all’attività di educazione o assistenza: alla luce di questo secondo obiettivo l’art. 2 della proposta di legge contiene la delega al Governo per l’emanazione, entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore della proposta, di un decreto contenente le prescrizioni utili per la valutazione dell’attitudine professionale dei lavoratori al momento dell’assunzione nonché per la formazione, obbligatoriamente iniziale e permanente, del personale, nel rispetto dei criteri e dei principi enunciati dallo stesso art. 2.

 

A latere della reazione a questo distorsivo fenomeno si colloca, tra le finalità perseguite dal nascente intervento normativo ed elencate all’art. 1 dello stesso, il fine di «disciplinare la raccolta di dati utilizzabili a fini probatori in sede di accertamento di tali condotte», considerata l’incapacità di agire dei soggetti vittime o testimoni di tali episodi, che ne preclude la possibilità di deporre in giudizio, rimettendo perciò la perseguibilità dei reati esclusivamente alla proattività dei familiari delle vittime e alla solerzia e fattività delle forze dell’ordine.

 

Già in apertura di testo, dunque, emerge il carattere compromissorio della futura legge, chiamata a mediare tra diverse esigenze e finalità che, tuttavia, non si esauriscono in quelle individuate dal progetto stesso: come ben evidenziato dall’Autorità Garante della protezione dei dati personali nell’audizione del 2 ottobre 2018, la «disciplina di questa materia deve, infatti, necessariamente coniugare la tutela di soggetti in condizione di particolare vulnerabilità (quali minori e incapaci) rispetto al rischio (purtroppo non remoto) di abusi e violenze, l’esigenza di ricostruzione probatoria di reati (…), la libertà del lavoratore nell’adempimento della prestazione e, infine, il diritto alla protezione dei dati personali dei vari soggetti ripresi dal sistema di videosorveglianza», non soltanto, quindi, dei lavoratori ma anche dei soggetti terzi rispetto alla relazione di lavoro.

 

Il successo concreto della proposta di legge, dunque, è legato alla sua capacità di dare sostanza a quanto prescritto dal Considerando 4 del GDPR (Reg. UE 2016/679) che, sancendo la non assolutezza del diritto alla protezione dei dati personali, ne rivendica la “funzione sociale” e, con essa, l’esigenza di contemperarlo, alla luce del principio di proporzionalità, con altri diritti fondamentali, sulla falsariga di quanto prescritto in via generale dall’art. 52 della Carta di Nizza.

 

Questo è quanto si verrebbe ad originare nel progetto di legge, ove all’esigenza di tutela dei dati personali dell’interessato (intendendosi per tale tanto l’ospite quanto il dipendente videosorvegliato) si affiancano diverse e ulteriori prerogative sicuramente meritevoli di tutela: il testo normativo, pertanto, dovrebbe muoversi nella direzione di dar luce alla funzione sociale del diritto alla protezione dei dati personali attraverso, da un lato, la salvaguardia del contenuto minimo ed essenziale di tale diritto e, dall’altro, il contemperamento con gli altri interessi in gioco e, in particolare, l’esigenza di accertamento probatorio, la libertà di autodeterminazione del lavoratore (educatore o assistente che sia) e, soprattutto, la prevenzione dei soggetti deboli rispetto al rischio di maltrattamenti e abusi. Ed è proprio sulla valutazione di tale bilanciamento, da effettuarsi, come sempre, alla luce del principio di proporzionalità, che si concentra gran parte dell’audizione del Garante sopra richiamata, volta ad indagare «la soglia oltre la quale il diritto fondamentale alla protezione dei dati personali sia compresso in quel nucleo essenziale, di cui l’art. 52 della Carta di Nizza prescrive l’intangibilità, pur a fronte di esigenze di tutela di beni giuridici rilevanti per l’ordinamento».

 

Nel valutare la legittimità e l’opportunità del bilanciamento racchiuso nella proposta di legge, il Garante si sofferma sull’analisi delle modalità concrete dell’istituendo sistema di vigilanza. Diverse sono le precauzioni prescritte al riguardo dall’art. 4, che pretende, ferma restando la facoltatività del ricorso a tale invasivo strumento, «sistemi di videosorveglianza a circuito chiuso, le cui immagini sono criptate e conservate per sei mesi, decorrenti dalla data della registrazione, all’interno di un server dedicato, appositamente installato nella struttura, con modalità atte a garantire la sicurezza dei dati trattati e la loro protezione da accessi abusivi»: le presenti misure sono corredate da ulteriori cautele, quali l’obbligo di segnalazione di tali sistemi di vigilanza e di informazione a favore dei soggetti interessati, il divieto di utilizzo di webcam, onde attenuare i rischi di manomissione dei dati derivanti dalla connessione degli apparecchi a reti internet (che con le webcam si realizzerebbe), e, soprattutto, il divieto di accesso alle relative registrazioni, «salva la loro acquisizione, su iniziativa della polizia giudiziaria o del pubblico ministero, come prova documentale nel procedimento penale».

 

Il rapporto con l’art. 4 dello Statuto dei lavoratori

 

Tra le “accortezze” prescritte dall’art. 4, merita una considerazione particolare il comma 3, nonostante esuli dal tema del bilanciamento della tutela della privacy con altri interessi meritevoli di protezione giuridica: la norma in esame, quasi ricalcando l’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori (l. 300/1970), pretende che l’installazione di un qualsiasi sistema di videosorveglianza sia preceduta da un accordo collettivo con le rappresentanze sindacali (aziendali, unitarie, territoriali o anche nazionali, qualora l’ente esplichi la propria attività in più province o regioni), o, in mancanza di accordo, «previa autorizzazione della sede territoriale dell’Ispettorato nazionale del lavoro o, in alternativa, della sede centrale dell’Ispettorato nazionale del lavoro». L’effetto della norma, dunque, è di estendere, alla materia de qua, la procedura concertativo-autorizzatoria predisposta dallo Statuto dei Lavoratori in materia di controlli a distanza (di cui all’art. 4) che, altrimenti, non troverebbe spontanea applicazione nei confronti dell’impianto di supervisione ipotizzato dal progetto legislativo, proprio perché animato da finalità, quali la tutela di soggetti deboli e la semplificazione dell’accertamento probatorio, che, come illustrato dal Garante in termini di eccedenza tra le due fattispecie, trascendono il rapporto di lavoro, né ricadono tra le «esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale» che, ai sensi dell’art. 4 Stat. Lav., giustificano ed ammettono l’utilizzo di apparecchiature suscettibili di determinare un controllo a distanza.

 

Dalla sorveglianza prospettata dalla proposta di legge si verrebbe a realizzare, in altri termini, non un “controllo difensivo” (per alcuni tipizzato e attratto dallo stesso art. 4 nella finalità di tutela del patrimonio aziendale), né tantomeno un “controllo preterintenzionale” come disegnato dalla nota disposizione statutaria, bensì un vero e proprio “controllo intenzionale” avente ad oggetto il rapporto di lavoro, nonostante questa penetrante supervisione venga predisposta non a garanzia dell’esatto adempimento da parte del dipendente ma, piuttosto, quale misura preventiva e probatoria rispetto al rischio di maltrattamenti a danno dei soggetti vulnerabili, la cui tutela costituisce l’obiettivo di fondo dell’intero disegno di legge.

 

L’esame di compatibilità con la disciplina in tema di trattamento dei dati personali

 

Sciolto, abbastanza agevolmente, il nodo relativo al rapporto con la disciplina dei controlli a distanza, l’Autorità si presta ad una rapida analisi di compatibilità del progetto di legge con il quadro normativo di riferimento, costituito dal binomio composto da GDPR e Direttiva UE 2016/680 (recepita con d. lgs. 51/2018) valida per i trattamenti effettuati per finalità di indagine e di perseguimento di reati da parte delle autorità competenti, quali quelli oggetto appunto della proposta di legge in esame. Ricordato come le fattispecie prospettate legislativamente ricadano nel perimetro applicativo dell’art. 35 GDPR, che pretende appunto una preventiva valutazione d’impatto per tutti i trattamenti che integrano una sorveglianza su larga scala o che, sempre effettuati su larga scala, abbiano ad oggetto categorie particolari di dati, l’attenzione si sposta sull’analisi del regime sanzionatorio: in merito, il suggerimento del Garante di integrare il blando richiamo, contenuto nel comma 8 dell’art. 4, all’art. 166 del “Codice della Privacy” (d. lgs. 196/2003, come modificato dal d. lgs. 101/2018) con il rinvio all’art. 83 GDPR e ai capi V e VI, della sezione II del d.lgs. 51/2018, viene accolto solo parzialmente dalla Camera che, nel riportare il testo approvato al Senato, trascura la parte relativa al d. lgs. 51/2018 nonché il rinvio, anch’esso auspicato dall’Autorità di controllo, all’art. 167 Cod. Priv. in materia di illeciti penali. Nella stessa sede, però, l’Assemblea dà seguito al monito del Garante di inserire un richiamo all’art. 2-quinquiesdecies del Cod. Priv., che abilita il Garante stesso all’emanazione di un provvedimento generale, da emanarsi ai sensi dell’art. 36, paragrafo 5 GDPR, che definisca gli «adempimenti e le prescrizioni da applicare in relazione alla tutela e al trattamento dei dati personali, nonché alla installazione dei sistemi» di videosorveglianza (art. 4, c. 1 della PDL), la cui trasgressione risulta sanzionabile ai sensi dell’art. 166 Cod. Priv.

 

Il bilanciamento e la “funzione sociale” del diritto alla protezione dei dati personali

 

Superata l’analisi di compatibilità con la cornice normativa di riferimento, l’Autorità si concentra sul vero e spinoso nocciolo della questione, ovvero il bilanciamento degli interessi coinvolti e, quindi, la “funzione sociale” che assume il diritto alla protezione dei dati personali nelle fattispecie prospettate dalla futura normativa. Fermo il principio di proporzionalità quale parametro cui ancorare la ponderazione degli interessi in gioco, il Garante apprezza la bontà delle modifiche intervenute rispetto all’originaria “bozza” di legge presentata nella scorsa legislatura, in particolare per ciò che riguarda la previsione della facoltatività del sistema di controllo (dunque, non più obbligatorietà, scelta maggiormente conveniente anche in un’ottica di contenimento dei costi delle strutture pubbliche) e della cifratura dei dati raccolti con conseguente divieto di accesso.

 

Ciò nonostante, sottolinea come la disciplina sia, tutt’ora, viziata da un eccesso di indeterminatezza che viola il principio di proporzionalità insieme a tutti i corrispondenti corollari di necessità, liceità e finalità del trattamento, di minimizzazione ed esattezza dei dati personali e, più in generale, tutti i principi che vanno a rappresentare il minimo comune denominatore del binomio, composto dal GDPR e della Direttiva UE 2016/680, che costituisce la cornice normativa di una qualunque operazione di maneggiamento di dati.

 

Il punctum dolens è rappresentato dal fatto che le prescrizioni normative sono destinate indiscriminatamente a tutte le strutture deputate all’accoglienza di soggetti deboli, senza perciò attuare una differenziazione che tenga conto delle diverse caratteristiche degli ospiti stessi, alludendo, in particolare, al differente grado di percezione della realtà, consapevolezza e capacità di espressione dell’interessato, così come anche al disomogeneo livello di vulnerabilità del medesimo. Alla luce delle presenti considerazioni, il Garante auspica un ritocco normativo che, riducendo la discrezionalità delle strutture nella scelta dell’apparecchiatura da installare, induca le medesime a graduare la pervasività dei sistemi di controllo in base alle caratteristiche percettivo-sensoriali degli interessati, alla durata della permanenza e ad eventuali e determinati rischi insiti in ciascuna sede. Compito del legislatore sarebbe, in altre parole, predisporre i criteri e le misure tramite cui circoscrivere la libertà di scelta delle strutture, evitando che degeneri in arbitrarietà, e far sì, inoltre, che il ricorso alla videosorveglianza avvenga in una logica di extrema ratio, soltanto allorquando l’utilizzo di strumenti meno invasivi risulti inefficace per la tutela della riservatezza dell’interessato.

 

L’obiettivo dell’Autorità, in estrema sintesi, è quello di evitare l’implementazione di modelli di controllo svincolati dalle caratteristiche reali e concrete della situazione pratica, assicurando pertanto che il principio di proporzionalità del trattamento trovi attuazione in concreto e non soltanto su un piano meramente formale: e tale pretesa del Garante, d’altronde, si dimostra in linea con l’atteggiamento generale indotto dall’avvento del GDPR in materia di privacy, foriero di un approccio sostanzialista alla materia, incentrato non tanto sul semplice rispetto della norma di legge quanto, piuttosto, su una concreta analisi e gestione preventiva del rischio.

 

In definitiva, dunque, può certamente dirsi che, pur avendo apprezzato i progressi raggiunti rispetto alla versione presentata nel corso della precedente legislatura, il Garante si dimostra preoccupato del complessivo impianto normativo, soprattutto per ciò che riguarda il sistema di videosorveglianza e la sua attitudine a compromettere la libertà di autodeterminazione del lavoratore e, con essa, indebolire il vincolo fiduciario che lo lega al cliente/paziente. All’esame del Garante è invece sfuggito, in quanto aggiunto a seguito della sua audizione, il termine dei sei mesi alla conservazione dei dati raccolti che, se da un lato evidenzia il nobile tentativo di circoscrivere il trattamento di dati personali e, tramite ciò, preservare la riservatezza degli interessati, dall’altro lato potrebbe risultare troppo breve, rischiando di vanificare uno dei principali effetti dell’intervento normativo, ossia la semplificazione dell’accertamento probatorio. Le notizie di cronaca riportano infatti episodi di violenza e maltrattamenti ripetuti e risalenti nel tempo, ma le medesime condotte potrebbero realizzarsi anche con carattere estemporaneo, per cui rischiano di rimanere fuori dal raggio di protezione normativa tutti quegli eventi realizzatisi prima dei sei mesi e magari capaci di sfuggire ad ogni sospetto di reato.

 

La protezione della libertà di autodeterminazione

 

Il Garante, inoltre, denota una spiccata sensibilità verso le esigenze di protezione dei minori, soprattutto se infanti, rispetto ai quali segnala il rischio, sfuggito alle Commissioni parlamentari e all’Assemblea, che un sistema perenne di videosorveglianza possa in loro ingenerare la percezione e poi convinzione che essere controllati sia del tutto lecito e normale, quasi fossimo in un disegno orwelliano, minando, di tal guisa, la libertà di autodeterminarsi in futuro del bambino.

 

La massiva e continua opera di vigilanza, inoltre, lederebbe non soltanto il diritto di autodeterminazione futura del minorenne, ma anche quello attuale del lavoratore, funzionale, a detta del Garante, «alla spontaneità che deve necessariamente caratterizzare prestazioni lavorative quali quelle di tipo formativo o assistenziale, la cui qualità potrebbe risultare pregiudicata dalla consapevolezza dell’interessato di essere sottoposto a una vigilanza costante, con implicazioni inevitabilmente negative sulla stessa relazione educativa o di cura».

 

Alla luce di queste considerazioni, il Garante sembrerebbe “puntare”, ai fini del perseguimento delle finalità di cui alla proposta in commento, sul secondo strumento offerto dal nascente impianto normativo, e dunque una formazione continua e un efficiente sistema di valutazione del personale, tale da prevenire e affrontare eventuali sintomi di stress da lavoro, ritenuti tra le principali cause di un’assistenza ed un’educazione di qualità inferiore a quella necessaria. In tal modo, infatti, si preserverebbe e si incoraggerebbe quel vincolo fiduciario che sta alla base dei rapporti di assistenza ed educazione, come sottolineato più volte non soltanto dal Garante ma anche nel corso delle discussioni parlamentari finora svolte, ove, con toni talvolta accesi, si è più volte messa in discussione l’opportunità della previsione normativa di un sistema di videosorveglianza, nei cui confronti si indaga, con scetticismo, rispetto al “dove” (verranno installate telecamere in ogni angolo?) e al “quando” (le telecamere saranno sempre accese?) della sua implementazione.

 

La fiducia del Garante in questo prezioso strumento di valorizzazione della libertà di autodeterminazione del lavoratore e del corrispondente vincolo fiduciario si traduce in un monito conclusivo, rivolto alle Camere ma in particolare al Governo che dovrà dar forma alla delega di cui è stato investito, a rinforzare il sistema formativo, anche in chiave prodromica risetto all’assunzione, del personale di queste delicate e importanti strutture, respingendo la minaccia orwelliana di un controllo perenne, atteso che, nei «contesti di relazione quali quelli esaminati- nei quali ciò che conta è la qualità del rapporto instaurato tra le parti – nessuna telecamera potrà mai sopperire a carenze insite nella scelta e nella formazione del personale deputato all’educazione e all’assistenza dei soggetti meritevoli della maggiore attenzione».

 

Andrea Tundo

Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro

Università degli Studi di Bergamo

@tundo_andrea

 

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