Politiche del lavoro, i vantaggi dell’arretratezza

Negli anni ’60 l’economista Gerschenkron, analizzando l’origine dello sviluppo industriale in diversi Paesi, teorizzò il vantaggio dell’arretratezza. I late comers (ossia gli Stati arrivati in una seconda fase alla rivoluzione industriale), potettero godere dei vantaggi derivanti dalla possibilità di utilizzare – senza gli errori e il rischio iniziali – le innovazioni sperimentate dai first comers, ma è evidente che essi dovettero confrontarsi con modelli reali  e contesti ormai ben diversi da quelli da cui erano partiti i Paesi pionieri. Da qui, quindi, la necessità di superare strategie di raggiungimento basate sull’imitazione per trovare, invece, un cammino differente, sforzandosi di andare oltre l’immediato orizzonte che avrebbe suggerito di accodarsi al già fatto.

 

La suggestione storica del vantaggio dell’arretratezza, potrebbe essere utile oggi per posizionare nella contemporaneità strumenti e metodi di politiche del lavoro che – sperimentati da anni in Italia in maniera embrionale guardando a quanto si attuava in Francia, Germania o Gran Bretagna – rischiano, nel momento in cui saranno resi diffusamente operativi, di non essere più supporto funzionale, nelle modalità applicative immaginate, ad un mondo del lavoro che sta profondamente mutando per effetto dell’innovazione tecnologica.

 

E’ il caso, ad esempio, del profiling, tecnica perlopiù statistico-predittiva, tesa ad individuare l’appartenenza dell’utente ad una classe a rischio disoccupazione di lunga durata. Il profiling, cosi come utilizzato in Italia nel Programma Garanzia Giovani  – e sembrerebbe soltanto lievemente in via di aggiornamento per essere applicato su larga scala secondo i dettami previsti dal decreto 150/2015 – calcola come varia la possibilità di ingresso nel mercato del lavoro rispetto a determinate caratteristiche individuali (età, genere, titolo di studio, condizione professionale precedente) e territoriali (tasso di occupazione, densità imprenditoriale).

 

Anche alla luce di quanto stanno ridefinendo Paesi europei che hanno già utilizzato nell’ultimo decennio il profiling come strumento di politiche di attivazione, questa potrebbe essere l’occasione per riflettere sulla pertinenza di alcuni indicatori utilizzati per definire livelli di occupabilità e targettizzazione e sull’eventualità di individuarne anche altri che restituiscano meglio l’aggregazione di bisogni e potenzialità.

 

Quanto il territorio di appartenenza e la sua densità imprenditoriale, ad esempio, potranno ancora essere una variabile determinante – soprattutto per alcuni profili – nel momento in cui la tecnologia rende possibile lavorare da remoto e si incentiva lo smart working? E quanto sarà ancora una variabile determinante per definire l’occupabilità il titolo di studio, visto che da almeno dieci anni l’Unione Europea delinea un quadro di riferimento per l’apprendimento e la spendibilità professionale in cui le 8 competenze chiave hanno l’accento posto sul pensiero critico, la creatività, l’iniziativa, la capacità di risolvere problemi e di imparare ad imparare, la competenza matematica e quella tecnologica e digitale, la capacità di esprimersi nella propria e in altre lingue?

 

E si potrebbe continuare con gli esempi di strumenti che, nel mentre si stanno perfezionando, rischiano di diventare anacronistici se non si deciderà di tener conto di variabili che, se pure in Italia appaiano futuristiche, sono solo future se viste dalla parte di un sistema che sta andando avanti più velocemente di quanto non facciano norme e organizzazione.

 

Il rischio, altrimenti, potrebbe essere quello di “escludere” ulteriormente, ad esempio, gli aspiranti lavoratori con autonomia limitata con i quali si discute se sia preferibile sappiano compilare un curriculum nel formato europass o in quello americano, mentre i recruiter cominciano a trovare nella gamification– uso, anche attraverso piattaforme on line, dei meccanismi del gioco per simulare un’attività lavorativa e tracciare il profilo dei candidati – uno dei modi più proficui per valutare non le esperienze di lavoro passate, bensì le competenze e attitudini utili alle professioni del futuro già presente.

 

Oppure mentre si prova ad individuare i modelli, gli enti, le formule più idonee a certificare competenze acquisite in maniera formale o informale, la questione sia superata dalle certificazioni social di skills ed endorsements di Linkedin – generate dagli utenti sui singoli profili – e dai distintivi multimediali  degli open badges – che riconoscono ad un individuo particolari competenze o qualità inseribili nel proprio e-portfolio – che potrebbero portare alla riprogettazione dei sistemi di apprendimento.

 

O, ancora, mentre si discute con veemenza di collaborazione/integrazione/concorrenza tra Agenzie per il lavoro e Centri per l’Impiego in riferimento all’incrocio domanda/offerta di lavoro, le piattaforme della sharing economy – come Uber – pongano di fronte a nuovi interrogativi sulla natura dei rapporti di lavoro parcellizzati in micro-attività, sulla configurazione di impiego subordinato,  sull’individuazione del datore di lavoro (il cliente, la piattaforma o entrambi?) e sull’intermediazione di manodopera (la piattaforma deve essere considerata un’Agenzia per il lavoro?)

 

O, infine, mentre si costruisce una cornice normativa e una campagna di comunicazione per convincere i lavoratori della necessità di abbandonare l’idea di puntare il proprio progetto professionale all’interno di una sola azienda, attraverso l’apprendistato si sostenga la costruzione di percorsi formativi tarati proprio sulle esigenze e peculiarità di una sola azienda, quella appunto che ospita l’apprendista.

 

Ritornando, in conclusione, ai late comers, quindi, per afferrare il vantaggio dell’arretratezza, bisogna essere in grado sì di sfruttare le tecnologie e le metodologie gestionali importate dai Paesi che hanno già sperimentato, ma bisogna soprattutto avere la consapevolezza che i nuovi modelli non richiedono un semplice lifting normativo e organizzativo ma un ripensamento dei concetti tradizionali.

 

Questo vuol dire disporre ed attivare, ad esempio, capitale umano altamente qualificato. Dove c’è gradualità la sostanziale lentezza del decollo può consentire un progressivo assorbimento, da parte dei lavoratori e della popolazione, delle innovazioni che cominciano a trasformare il modo di lavorare. Per i late comers, invece, è necessario avere strutture, istituzionali e di stakeholders, con una vision chiara e in costante “manutenzione” per far si che sia sempre coerente e anticipatrice delle evoluzioni del contesto, che sia in grado di promuovere quella straordinaria mobilitazione economica e sociale fuori da calcoli contingenti,   e che, conoscendo punti di partenza, percorsi e punti d’approdo auspicati, assicuri che gli strumenti utilizzati non siano vecchi già appena disponibili.

 

 

Tonia Maffei

Esperto dell’organizzazione del lavoro

 

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