Politically(in)correct – 1969: l’autunno ‘’caldo’’ della contrattazione collettiva

Nella rubrica della settimana scorsa ci siamo lasciati  nel febbraio del 1963, quando le federazioni dei metalmeccanici (allora si chiamavano più rudemente “metallurgici”) salirono per la prima volta alla ribalta delle relazioni industriali stipulando un rinnovo contrattuale fortemente innovativo che apriva un promettente spiraglio per la contrattazione articolata, all’interno dei vincoli contenuti nella c.d. premessa. Per cogliere la portata della svolta  è opportuno ricordare che la categoria non era riuscita a conquistare  un nuovo contratto nazionale per ben otto anni (dal 1948 al 1956) e che il rinnovo del 1959 era stato  un atto di sostanziale routine. Poi, alla fine del 1962, l’Intersind (l’associazione sindacale delle aziende a partecipazione statale, separate ex lege dalla Confindustria allo scopo, appunto, di contribuire all’evoluzione dei rapporti intersindacali) aveva sottoscritto un protocollo sulla struttura  contrattuale,  nel quale, per la prima volta, veniva riconosciuto al sindacato il diritto  alla contrattazione aziendale.

Tale intesa preliminare era divenuta la leva per “passare” anche con la Confindustria e scardinarne l’accanita resistenza (il 9 febbraio del 1963). Il compromesso realizzato stava stretto anche al sindacato (più per ragioni di principio che sostanziali), dal momento che il negoziato decentrato era consentito unicamente per le materie indicate in modo espresso: i premi di produzione (un istituto tipico della cultura industriale di allora, che i sindacati volevano fosse “collegato ad elementi oggettivi” per sottrarlo alla disponibilità padronale); l’introduzione di nuovi sistemi di classificazione del personale (tipico il caso della job evaluation, un modello che commisurava la retribuzione non già alla qualifica ma al punteggio attribuito al posto di lavoro); le modifiche sostanziali alle forme di lavorazione (e remunerazione) a tempi predeterminati (il famigerato cottimo). Il diritto a negoziare nell’impresa sulle voci indicate era accompagnato da un patto di tregua su tutte le altre materie nel periodo di vigenza del contratto nazionale. Se è facile immaginare quanto fosse amaro, per la Cgil, inghiottire questo boccone (guai a stipulare clausole di tregua col nemico di classe !), va detto però che il padronato privato non era riuscito a smaltire la sconfitta ed aveva fieramente contrastato (avvalendosi di una congiuntura economica depressa) l’esercizio della contrattazione articolata da parte dei sindacati, i quali (in un clima di maggiore collaborazione tra di loro) avevano scelto, come prioritario nella contrattazione aziendale, l’istituzione dei premi di produzione o la trasformazione di quelli esistenti, spesso erogati unilateralmente dalle imprese. Nella linea del sindacato (in un clima ancora fortemente ideologizzato in ambedue i versanti del negoziato) queste erogazioni salariali dovevano essere collegate ad “elementi oggettivi” e sottratti, quindi, alla discrezionalità del datore. Così, in prima battuta venivano rivendicati dalle imprese i dati sulla produzione, per ottenere i quali i lavoratori erano spesso costretti a fare parecchie ore di sciopero.

Poi, una volta conquistate tali informazioni, si prendeva un certo arco di tempo (di solito un anno) come riferimento di base, si omogeneizzava la produzione (ossia si stabiliva quanto valeva un particolare prodotto rispetto ad altri, in termini di ore lavorate), in modo da poterla misurare in modo equilibrato. I problemi erano tanti e non sempre di facile soluzione. In sede di rinnovo contrattuale del 1966 (una storia travagliata durata un anno e costata circa duecento ore di sciopero), la Confindustria (la quale continuava a trattare direttamente gli affari degli imprenditori metalmeccanici avvalendosi di una delegazione composta dai rappresentanti delle maggiori imprese ed associazioni territoriali) aveva cercato e ottenuto la propria rivincita. In pratica, le future trattative sui premi di produzione erano state ancorate a tempi, modi e scadenze predeterminati che ne svuotavano i contenuti e ne mortificavano l’appeal presso i lavoratori.

Poi, nel 1968, il barometro della situazione economica s’era voltato di nuovo al sereno. I sindacati, trovata occlusa e non più conveniente la via del negoziato sui premi di produttività, si erano dedicati alla prime importanti esperienze sui temi dell’organizzazione del lavoro e del salario incentivante, riuscendo a stipulare accordi importanti nelle grandi imprese del Nord, compreso lo stesso gruppo Fiat, il cui “cedimento” era apparso significativo non tanto per gli aspetti economici e normativi conquistati dai lavoratori (anche se 20 lire orarie di aumento in quei tempi sembravano tante), quanto, invece, per il fatto che pure il  sancta sanctorum  del potere economico aveva scelto di venire a patti col sindacato, anzi, con tutti i sindacati confederali (compresa la Fiom).

A saperli leggere, allora, anche l’autunno caldo del 1969 – al pari di ogni altro rispettabile terremoto – era stato annunciato attraverso  evidenti e vistosi segnali premonitori. Nessuno, però, sarebbe stato in grado di immaginare (ancorché dotato di fervida fantasia) cosa si stesse preparando e quale cataclisma fosse in procinto di scatenarsi, non solamente sull’apparato produttivo ma su tutta la comunità nazionale.          

 

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Quali furono questi segnali premonitori? Immediatamente prima dell’autunno caldo, tra la fine del 1968 e i primi mesi del 1969 furono stipulati – dapprima con l’Intersind-Asap, l’associazione rappresentativa delle aziende a partecipazione statale, poi con la Confindustria – accordi per l’abolizione delle zone e delle differenziazioni territoriali.   Da allora i minimi tabellari previsti dai contratti nazionali di categoria sono uniformi su tutto il territorio nazionale. Che cosa erano le zone salariali ? Facciamo un po’ di storia. Nel 1954 (il 12 giugno) venne stipulato l’accordo sul ‘‘conglobamento’’ retributivo, allo scopo di riordinare la struttura della retribuzione ed inquadrare nella ‘’paga base’’ una serie di voci salariali che si erano venute accavallando nel tempo (spesso tramite accordi interconfederali).

Tale accordo fu molto importante per quanto riguarda l’evoluzione degli assetti negoziali perchè aprì la strada alla contrattazione di categoria. Le confederazioni non vennero private del tutto della competenza in materia salariale che però fu limitata alla definizione dei rapporti differenziali tra le diverse  qualifiche (i c.d. parametri) e tra le 14 zone (in una logica decrescente da Nord a Sud) in cui venne diviso il territorio nazionale. I nuovi minimi furono determinati secondo tale criterio, raggruppando i vari comparti industriali in tre gruppi, i quali però furono ben presto superati dalla contrattazione di categoria che condusse ogni branca industriale ad avere le proprie tabelle, organizzate nel rispetto dei rapporti differenziali per qualifiche e per territorio, come stabilito nell’accordo del 1954. Più tardi, la differenziazione in 14 zone non sembrò ulteriormente giustificabile di fronte alle trasformazioni del Paese, della sua economia e del mercato del lavoro. Le zone furono dimezzate (accordo interconfederale 2 agosto 1961) e fu prevista una diminuzione dello scarto tra la prima e l’ultima dal 29% al 20%. Prima di quell’evento (il 16 luglio del 1960) era intervenuto l’accordo sulla parità retributiva tra lavoratori e lavoratrici che in precedenza avevano dei trattamenti differenti a scapito delle donne. Unificate le retribuzioni, restarono diversi  gli standard dello sviluppo. Per ripristinare l’equilibrio le imprese meridionali si avvalsero degli sgravi fiscali e contributivi (a riduzione strutturale del costo del lavoro) a carico dell’intervento straordinario (la ex Cassa del Mezzogiorno). Quando, nei primi anni ’90 le regole europee resero impraticabili gli aiuti di Stato, la struttura produttiva del Sud restò nelle classiche ‘’braghe di tela’’, costretta a cercare riparo nell’economia sommersa, maledetta e combattuta a parole ma tollerata nei fatti. Così, se le ‘’zone salariali’’ sono un capitolo chiuso della storia del Paese, la questione dei differenziali retributivi  è un problema che si ripresenta, oggi e da tempo, in forme nuove e differenti.

Tutto ciò premesso, il 1969 si annunciò subito come un anno delicato. Dopo gli accordi sull’abolizione delle zone salariali (anzi delle ‘’gabbie’’ come si diceva allora) e la riforma del sistema pensionistico nell’aprile (con la legge delega n.153) scoccò l’ora dei metalmeccanici. La carta rivendicativa per il rinnovo del contratto venne approvata alla fine di luglio dopo una consultazione non troppo rigorosa, nel senso che le istanze di ciascuna organizzazione erano state sommate a quelle delle altre due. Su di un solo punto si era svolta una competizione effettiva. La Fim-Cisl aveva cavalcato la tigre degli aumenti salariali in cifra fissa, uguali per tutti i lavoratori: un’ipotesi contrastata dalla Fiom, ma che aveva incontrato un consenso maggioritario. Le richieste risultarono dirompenti: un aumento salariale di 75 lire l’ora; la parità normativa tra operai ed impiegati; la riduzione dell’orario di lavoro a 40 ore settimanali lasciando immutata la retribuzione. A tali aspetti si aggiungeva  un ricco pacchetto di diritti sindacali (l’assemblea in orario di lavoro, i permessi, la sede, la trattenuta dei contributi sindacali in busta paga e quant’altro trovò in seguito (nel maggio del 1970) sbocco legislativo nello Statuto dei lavoratori. Al dicastero del Lavoro, dopo la morte del socialista Giacomo Brodolini, era arrivato Carlo Donat Cattin, ex sindacalista cislino, leader estroso e spregiudicato della corrente di Forze nuove, dove confluivano i militanti del sindacato.

 

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Ai primi di settembre la frittata era fatta. La Fiat annunciò di dover effettuare alcune migliaia di sospensioni per esigenze produttive. I leader sindacali sostennero subito che questa misura era una ritorsione contro il rinnovo contrattuale; chiesero e pretesero l’intervento del Governo allo scopo di far rientrare il provvedimento. Altrimenti non sarebbero stati disponibili ad iniziare le trattative. La vicenda suscitò un enorme scalpore: tutta la categoria si metteva in gioco per i lavoratori della Fiat.

La vertenza aveva innestato, così, la quarta  fin dall’inizio. Il ministro del Lavoro convocò l’Avvocato è  riuscì ad ottenere – sia pure in due tempi – il ritiro delle sospensioni. I telegiornali dell’epoca, con la rudezza del bianco e nero,  ripresero impietosamente Gianni Agnelli all’uscita dal brutto palazzo di via Flavia, soffermandosi, in particolare, sullo sguardo, intenso e meravigliato, come quello di una persona che aveva appena assistito al nascere di una nuova era. Dopo questo movimentato inizio, poi, era partito il negoziato vero e proprio. Si svolgeva in quella che, allora, era la sede della Confindustria, a Roma, in piazza Venezia, proprio di fronte allo storico balcone, nei locali occupati adesso da una banca araba.  Ma si era trattato di un semplice “incontrarsi e dirsi addio”, nel senso che le trattative si erano bruscamente interrotte subito a seguito di una netta presa di posizione della delegazione degli industriali metalmeccanici  sulla cosiddetta premessa del contratto (ovvero la clausola di rinvio tra materie di esclusiva pertinenza del contratto nazionale e questioni affidate al negoziato in sede aziendale)  che aveva racchiuso, nel 1963, il compromesso sulla riforma della struttura contrattuale. I datori di lavoro sostenevano che, nelle esperienze di contrattazione articolata realizzate negli ultimi anni, quel patto era stato violato e i sindacati avevano ampiamente travalicato gli ambiti di contrattazione consentiti. Pertanto, la delegazione imprenditoriale chiedeva che venisse definita nuovamente la premessa, indicando i confini (magari più ampi di quelli precedenti)  della contrattazione nazionale e aziendale. I sindacati replicavano che erano state ambedue le parti sociali, nella loro autonomia, ad andare  “oltre”  gli impegni della premessa, a promuoverne  un’interpretazione evolutiva, che doveva servire di base anche per il futuro. Pertanto, nessuna modifica era necessaria. Anzi, a loro avviso, la pretesa della Confindustria costituiva una pregiudiziale sul negoziato.

Come si può notare, il confronto aveva preso una piega (anche di contenuto giuridico) di notevole spessore, con forti venature che chiamavano in causa sottili interpretazioni  mutuate dal diritto internazionale.  Non c’è da meravigliarsi: intorno a queste problematiche si cimentò la migliore cultura giuslavoristica del tempo e si pronunciò (a favore dell’interpretazione sostenuta dai sindacati)  persino un tribunale  a  Padova. Fatto sta che la richiesta della Confindustria provocò l’interruzione delle trattative e l’avvio di un’intensa fase di lotte durissime (che cessarono – questa fu una delle tante novità – solamente dopo la firma del contratto, mentre in precedenza, bastava la convocazione delle trattative per indurre a sospendere gli scioperi). Il conflitto fu immediatamente caratterizzato da una crescente e intensa mobilitazione dei lavoratori. Vennero intraprese forme di  agitazione molto articolate, interne alle aziende: scioperi di reparto, di gruppo, a scacchiera, promosse e dirette da delegati espressione delle tre sigle di categoria, sulla base di “pacchetti” di ore stabiliti dalle organizzazioni. Nello stesso tempo, si svolsero (un’altra esperienza nuova) alcune grandi manifestazioni nazionali (a Torino e a Roma). Il Governo intervenne con un lodo sulla questione della premessa che accoglieva pienamente le aspettative dei sindacati: il testo non avrebbe subito modifiche, ma sarebbe stato interpretato sulla base delle esperienze compiute. Così, in un contratto collettivo entrò una clausola che doveva essere intesa in maniera completamente diversa da come risultava dalla  lettura testuale della norma.

                             

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Finalmente, la trattativa si spostò nel merito, in un contesto di forte tensione sociale, culminata con la strage (tuttora misteriosa e non chiarita, nonostante le condanne) alla filiale della Banca dell’Agricoltura, a Milano, il 12 dicembre. Ormai alla Confindustria (al pari dell’Intersind, più disponibile) non rimaneva che capitolare. Pretese solamente che ad imporre la sonora sconfitta fosse l’Esecutivo, attraverso la mediazione del ministro del Lavoro. A Natale tutto era finito. I contenuti del rinnovo contrattuale sfioravano l’incredibile: 65 lire di aumento salariale in misura fissa e uguale per tutti; una gigantesca riduzione dell’orario (in taluni settori si trattò di ben 4 ore)  comunque all’interno della durata del contratto; una netta parificazione di taluni delicati istituti normativi (ad esempio: il trattamento economico della malattia, la durata delle ferie); un robusto pacchetto di diritti sindacali, un capitolo essenziale che praticamente nasceva in quei tempi. Le assemblee di ratifica furono un’apoteosi.

Raramente un gruppo dirigente ha goduto di tanto consenso come quello che i lavoratori metalmeccanici rivolsero ai loro sindacati. Le iscrizioni, in pochi anni, vennero triplicate. Il meccanismo della trattenuta in busta paga gonfiò a dismisura il portafoglio delle organizzazioni. Decine di migliaia di nuovi attivisti (i delegati di gruppo omogeneo) si arruolarono entusiasti nelle file sindacali. E ai dirigenti dei metalmeccanici, come se fossero il sale della terra, mancava solo di celebrare matrimoni e battezzare neonati, poiché tutto il resto era loro possibile e richiesto. La forza accumulata nei pochi mesi di quella vertenza si trasformò in una centrale energetica che alimentò per anni la cultura, le scelte, i valori del sindacato. Tutti volevano fare come i metalmeccanici, anche quando non era proprio il caso. E  i protagonisti di quella battaglia per molto tempo prenotarono  le cariche più importanti negli organismi dirigenti dei loro sindacati. Sull’autunno caldo e sul contratto dei metalmeccanici, Ugo Gregoretti girò un film-documentario che percorse in lungo e in largo l’Italia come una Madonna pellegrina. La televisione di Stato incaricò una troupe esterna di seguire tutta la vertenza. Si svolgevano le trattative sotto le macchine da presa. Donat Cattin si fece addirittura riprendere durante una telefonata riservata al presidente del consiglio,  Mariano Rumor. Ne uscirono migliaia di ore di registrazione (questo materiale sarà probabilmente conservato da qualche parte) da cui furono ricavate  alcune puntate trasmesse in differita notturna, parecchi  mesi dopo. 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico di ADAPT

Docente di Diritto del lavoro UniECampus

 

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