Politically (in)correct – Vitalizi degli ex parlamentari: la Colonna Infame

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Nei prossimi giorni la Camera dei deputati dovrebbe esaminare, in Aula, ed approvare il Regolamento proposto dalla Presidenza sulla abolizione dei vitalizi in essere o nella quota pro rata (quella antecedente il 1° gennaio 2012, quando entrò in vigore, anche per i parlamentari, un vero e proprio regime pensionistico secondo il calcolo contributivo). Il tema è noto perché se ne è discusso a lungo sui media.

 

Un tentativo di disciplinare la materia per legge (il c.d. ddl Richetti) era naufragato nella XVII legislatura. Ora la delibera dell’Ufficio di Presidenza della Camera (quello del Senato ha manifestato dei dubbi di merito e di legittimità) si basa sul principio dell’autodichia, ovvero sul potere, riconosciuto agli organi costituzionali, di decidere in autonomia e di avvalersi di un sistema giurisdizionale interno.

 

I vitalizi già erogati (ragguagliati al numero delle legislature a partire da un minimo di cinque anni di attività parlamentare) verrebbero ricalcolati, in modo retroattivo, secondo il metodo contributivo (vedremo come), sia pure con alcune norme di salvaguardia. La delibera della Camera, infatti, introduce due soglie minime sotto le quali l’assegno vitalizio degli ex-parlamentari non potrà scendere nemmeno dopo i tagli. La prima è di 980 euro per chi abbia svolto un solo mandato. Se invece il ricalcolo contributivo causasse – per chi ha espletato più di un mandato – un taglio superiore al 50% dell’importo goduto prima della delibera, l’assegno verrebbe comunque mantenuto a un minimo di 1.470 euro. Sarebbero in tutto 1.338 (su 1.405) gli ex deputati interessati ad un taglio di misura significativa (dal 40% al 60%).

 

Non è questa la sede per esprimere delle valutazioni di carattere politico (volendo anche etico) sul provvedimento. Mi limito soltanto a far notare l’inaccettabilità di alcune motivazioni che accompagnano la delibera, come se essa avesse la mission di recuperare la refurtiva di un ladrocinio compiuto in modo continuativo, nel tempo, ai danni del popolo italiano. Ci sono, ad avviso di chi scrive, elementi di diritto a sostegno di una critica radicale della misura.

 

Metto subito le mani avanti: la questione non riguarda la violazione di presunti diritti acquisiti (caratteristica che, secondo una tesi diffusa, fornirebbe una copertura di immodificabilità delle prestazioni già erogate secondo la normativa a suo tempo vigente). “Rileva qui – viene sottolineato nei dossier a cura degli Uffici – quanto delineato nella giurisprudenza costituzionale riguardo ai trattamenti peggiorativi con effetto retroattivo. La Corte costituzionale ha escluso, in linea di principio, che sia configurabile un diritto costituzionalmente garantito alla ‘cristallizzazione’ normativa ed ha riconosciuto al legislatore la facoltà di intervenire con scelte discrezionali, anche emanando disposizioni che modifichino in senso sfavorevole la disciplina di rapporti di durata, ed anche se l’oggetto di tali rapporti sia costituito da diritti soggettivi perfetti. D’altro canto – proseguono – la Corte ha scandito che l’intervento del legislatore non possa trasmodare in un regolamento irrazionale, frustrando, con riguardo a situazioni sostanziali fondate sulle leggi precedenti, l’affidamento dei cittadini nella sicurezza giuridica (così ad esempio la sentenza n. 310 del 2013)”.

 

A voler essere essenziali il punto è dunque il seguente: esiste una parvenza di razionalità della delibera Fico? A mio parere la risposta non può essere che radicalmente negativa. Parliamoci chiaro: non nulla da dire se – in presenza delle difficoltà del Paese – si fosse chiesto agli ex parlamentari di fornire un contributo – più o meno simbolico vista la scarsa rilevanza dei risparmi acquisibili – di solidarietà, consistente in un taglio strutturale dei vitalizi – integrali o pro rata – percepiti. Peraltro l’operazione poteva essere giustificata anche da un’esigenza di maggior equilibrio all’interno della “categoria” degli ex parlamentari, dal momento che i “nuovi” vengono sottoposti ad un regime (contributivo) ritenuto meno favorevole di quello precedente.

 

Ma che senso ha la manovra concepita, per realizzare la quale è stato necessario inventarsi – come lo chiamano oggi – un algoritmo fondato su dati inesistenti ed inventati? Innanzi tutto, un montante contributivo costruito a tavolino, assolutamente virtuale, per calcolare contributi soltanto teorici (l’amministrazione delle Camere, al pari di quella dello Stato, non versava i contributi spettanti al datore, perché provvedeva a pagare direttamente il vitalizio al momento dell’insorgenza del diritto). In parallelo sono stati predisposti, con il contributo dell’Inps, coefficienti di trasformazione al di fuori della scala corrente (e cioè inferiori a 57 e superiori a 70 anni). Ciò comporterà che il coefficiente di trasformazione di un ex deputato ora ottantenne (e quindi con un’attesa di vita limitata) sarà quello vigente o reinterpretato al momento della riscossione dell’assegno. Ovvero il moltiplicatore virtuale di un montante contributivo anch’esso virtuale risalirà ad un momento anteriore quando l’attesa di vita era certamente maggiore di quella all’atto del ricalcolo (e quindi si determinerà un taglio più consistente). In sostanza nel regime del vitalizio nel quale il requisito portante era quello del numero delle legislature diventerà centrale, a posteriori, quello della età anagrafica al momento della erogazione dell’assegno, con il paradosso per cui gli ex deputati eletti in più legislature saranno quelli meno toccati dalla controriforma.

Infine, c’è un’ultima considerazione da compiere. Improvvisamente il Paese si è innamorato del sistema contributivo: la pensione deve corrispondere – dicono tutti – ai contributi versati, ancorché la quasi totalità dei trattamenti vigenti siano stati erogati secondo le regole del retributivo (dal 2012, del misto). Che questo sia un principio sacrosanto è discutibile: la migliore dottrina (si vedano gli scritti di Mattia Persiani) ritiene che non vi sia un corrispettivo tra contributi e prestazioni, essendo i primi uno strumento (insieme ad altri di natura fiscale) di finanziamento di prestazioni i cui criteri sono stabiliti dalla legge. Ma senza scomodare la dottrina, è sufficiente un modesto ragionamento. Si dice che gli ex parlamentari (nel nostro caso per ora solo gli ex deputati) devono essere trattati come tutti i cittadini. Il fatto è che i lavoratori italiani hanno sentito parlare di calcolo contributivo in tutto o in parte soltanto a partire dal 1° gennaio 1996 (infatti le prime pensioni in tutto contributive devono ancora apparire all’orizzonte). Per quale ragione, allora, a un migliaio degli ex deputati ormai anziani se non addirittura vegliardi e alle loro vedove, deve essere applicato ex tunc – unico caso in Italia – un sistema contributivo cervellotico, arzigogolato, fasullo? Ai posteri l’ardua sentenza.

 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

 

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