Politically (in)correct una rubrica ADAPT sul lavoro – Un giudice al Club Eurostar

Venerdì scorso, il 13 dicembre, mi sono recato, in serata, al Club Eurostar della Stazione Termini a Roma per chiedere di anticipare il rientro a Bologna. Mi sono rivolto ad una giovane hostess la quale era completamente afona anche se con un soffio di voce mi ha assistito gentilmente convincendomi a conservare la mia prenotazione, tenendo conto dei disservizi e dei ritardi dovuti ad un controllo sulla linea dell’Alta velocità. Vedendo le sue oggettive difficoltà a parlare quando mi sono allontanato dal bancone le ho rivolto un invito paterno – in verità avrei potuto essere suo nonno – a curarsi. Più tardi, in treno ho riflettuto su questo incontro chiedendomi se mai questa ragazza non fosse una precaria costretta a lavorare, per timore di perdere il posto, pur essendo visibilmente indisposta.
 
Con l’età ho imparato a non fidarmi delle certezze apparentemente assolute e a non chiudere gli occhi davanti all’evidenza soltanto perché si è convinti che, in tema di precariato, vi sia in giro molta letteratura d’antan e tanti luoghi comuni. Ma per quanto si considerino utili ed indispensabili rapporti di lavoro flessibili non è possibile negare a qualcuno il diritto di curarsi. Durante il viaggio in treno, consultando l’Ipad, ho dedicato la solita attenzione, nella newsletter DLA PIPER di Giampiero Falasca, alle segnalazioni sulla recente giurisprudenza della Corte di Cassazione civile in materia di lavoro. Devo necessariamente premettere che si tratta di descrizioni sintetiche di sentenze che intervengono a dirimere situazioni concrete a cui occorrerebbe risalire per meglio comprendere le specifiche fattispecie.
 
La Suprema Corte però non si pronuncia sui fatti ma sugli aspetti di legge; così, anche se valgono solo per il caso concreto e non costituiscono fonte di diritto nel nostro ordinamento, i suoi provvedimenti finiscono per costituire un riferimento di carattere generale. Cominciamo dalla sentenza n.27057 del 3 dicembre scorso. La Cassazione ha ritenuto illegittimo il licenziamento intimato nei confronti di un dipendente resosi irreperibile durante il periodo di ferie con conseguente impossibilità per il datore di lavoro di contattarlo e, quindi, di richiamarlo in servizio. Ciò in ragione della natura costituzionalmente tutelata del bene-ferie e delle esigenze di privacy del lavoratore che altrimenti sarebbe tenuto a far conoscere al proprio datore tutti i suoi spostamenti pur essendo, di norma, non reperibile durante le ferie.
 
Premesso che da anni esistono i telefoni cellulari, immaginiamo che il datore di lavoro non fosse una persona perfida ostinata nel perseguitare i propri dipendenti mentre sono in ferie. E che quindi esistesse un valido e pressante motivo per chiedere al proprio dipendente di rientrare in servizio. Probabilmente il lavoratore svolgeva una funzione di rilievo per il buon funzionamento degli impianti o comunque dell’attività della impresa; e certamente il non avrebbe preteso che rientrasse da Bali o da una località tanto lontana che lo costringesse a sottoporsi ad un viaggio lungo e faticoso, tale da rovinare un periodo di riposo insieme alla famiglia. Certamente questi aspetti di merito saranno stati esaminati dai giudici competenti che avranno pure valutato l’eventuale danno recato all’impresa in conseguenza del mancato rientro del dipendente. Ma siamo sempre al solito punto. E’ ancora possibile, in un mondo cambiato, sottoposto a quotidiane sfide, per di più nel mezzo di una grave crisi, mantenere una idea dei diritti come se fossero una variabile indipendente da tutto il resto, tutelandoli all’insegna del principio ? Possiamo ancora permetterci che l’interesse collettivo di più persone, unite in una comunità aziendale, subisca un danno soltanto perché un loro collega ha diritto di non essere disturbato durante le ferie ?
 
Proseguendo nell’esame delle sentenze ci imbattiamo in quella che reca il n. 26957 del 2 dicembre c.a., la quale stabilisce che l’esecuzione da parte di un lavoratore di un provvedimento di trasferimento non comporta, di per sé, acquiescenza tacita alla decisione aziendale. In sostanza, se il lavoratore ha accettato una volta di trasferirsi è assolutamente libero di rifiutarsi in una successiva occasione. È sufficiente, perché possa avvalersene, che dopo il trasferimento comunichi all’azienda di attenersi alla sua aziendale soltanto per evitare di incorrere in sanzioni disciplinari.
 
Arriviamo, infine, alla sentenza n.26514 del 27 novembre scorso riguardante il problema della impugnazione del licenziamento (una vexata quaestio dopo quanto disposto dalla legge n.183 del 2010, il c.d. collegato lavoro). In questo caso vi erano state decisioni difformi tra il Tribunale e la Corte d’Appello. Era stato infatti un rappresentante sindacale – senza mandato scritto del lavoratore – ad impugnare il licenziamento entra i termini di decadenza di 60 giorni. Così in prima istanza era stata dichiarata l’illegittimità del licenziamento, ma la sentenza era stata riformata in senso contrario nel giudizio di secondo grado. La Corte di Cassazione ha invece ribadito l’illegittimità del recesso ritenendo quella del dirigente sindacale una rappresentanza ex lege. Sarebbe, quindi, conferito, secondo la sentenza al sindacato in modo diretto (ovvero senza necessità di una procura ex ante o di una successiva ratifica da parte del lavoratore) il potere di impugnazione del recesso. Tralasciamo di commentare la sentenza n. 27055 del 2 dicembre c.a. nella quale viene dichiarato illegittimo il licenziamento di una lavoratrice nel corso del primo anno di matrimonio anche se si riconosce che l’azienda ha avviato un processo di esternalizzazione del servizio alla quale la dipendente è addetta. Verrebbe solo da chiedersi se la tutela contro il licenziamento per causa di matrimonio prefiguri comunque un diritto alla conservazione del posto anche quando questo viene abolito in una riorganizzazione aziendale.
 
Qualcuno a questo punto si chiederà che cosa c’entri la giovane hostess afona del Club Eurostar. Mah ?! A noi sembra che sia lei, alla fine, a pagare il conto di una giurisprudenza eccessivamente protezionista del lavoro standard.
 
Giuliano Cazzola
Membro del Comitato scientifico ADAPT
 
 
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