Politically (in)correct una rubrica ADAPT sul lavoro – Sciopero del 12 dicembre: purché vinca l’Italia

Con tutto il rispetto dovuto all’esercizio di un diritto fondamentale dei lavoratori quello che si svolgerà venerdì 12 dicembre è uno sciopero generale insensato, perché inutile e strumentale. Ha un bel da sostenere Susanna Camusso che le partite siano ancora aperte. Non è questa la realtà. Se l’astensione dal lavoro fosse davvero finalizzata a cambiare le cose, essa arriverebbe in ritardo e sarebbe un’iniziativa comunque sproporzionata rispetto alle modifiche che sarebbe possibile ottenere.
 
A tali considerazioni si obietterà che, approvato il Jobs Act Poletti 2.0, restano pur sempre da definire i decreti delegati. Per quanto riguarda poi il disegno di legge di stabilità per il 2015, il Senato dovrà rivedere parecchi aspetti che la Camera, in prima lettura, non è stata in grado di risolvere.
 
Ma ha un qualche significato uno sciopero generale proclamato nel contesto di una situazione sociale molto difficile e giocato nel momento in cui si tratta di definire – bene che vada – una tassazione meno vessatoria del tfr in busta paga e dei rendimenti delle forme di previdenza complementare e degli investimenti della Cassa dei liberi professionisti o questioni di carattere strutturale come i tagli alle autonomie locali, la tassazione sugli immobili, il patto della salute e quant’altro? Oppure potranno ritenersi vincitori i gruppi dirigenti della Cgil (ormai sottomessi ed obbedienti agli ukase di Maurizio Landini) se le particolari fattispecie di licenziamento disciplinare illegittimo, da tutelare con la reintegra, saranno più numerose di quelle previste dai retroscenisti dei quotidiani e dai parlamentari più zelanti ed introdotti? Certamente no, soprattutto perché la contestazione nei confronti dei provvedimento del Governo è tanto radicale da non apprezzare nemmeno la mediazione intervenuta, per quanto riguarda il Jobs Act, tra l’esecutivo e i settori più ragionevoli della sinistra del Pd.
 
Quanto al disegno di legge di stabilità non ci vuole molto a capire che lo scenario, a livello europeo, non è cambiato, nonostante le tiritere contro la politica del rigore per tacitare le quali sono sufficienti tre parole di Angela Merkel. Il commissario Moscovici – la persona che, secondo Matteo Renzi, avrebbe dovuto contrassegnare il cambiamento di indirizzo della UE – ha concesso ai nostri conti pubblici un periodo di libertà vigilata fino a marzo del prossimo anno.
 
È all’interno di tale quadro politico ed economico che si svolgerà lo sciopero generale. Se volessimo qualificarlo in modo pertinente potremmo parlare di sciopero di ritorsione, come se la Cgil e gli ascari della Uil volessero (e dovessero) reagire ad un’iniziativa dell’esecutivo che non sono riuscite ad impedire, come avevano sempre fatto in passato.
 
Il vero motivo dello scontro che si consumerà venerdì non è il disegno di legge di stabilità, che non è diverso dalle Finanziarie che si impostano ormai da anni. E non è neppure il merito del Jobs Act perché i dirigenti sindacali sono troppo intelligenti ed esperti per sapere che resterà – comunque – una disciplina del licenziamento individuale in grado di tutelare adeguatamente i lavoratori.
 
Lo sciopero generale è stato proclamato contro un mondo che cambia, contro una nuova visione del lavoro che vuole lasciarsi alle spalle un ordinamento intessuto di vincoli, inderogabilità ed indisponibilità, contro un progetto che intende cambiare il paradigma del lavoro e che considera insostenibili quei diritti che, ad avviso della sinistra conservatrice, appartengono ad un mondo ideale. In tutta questa vicenda, fino ad ora, le parole hanno avuto un peso maggiore dei fatti. Così, lo sciopero generale è stato proclamato contro le parole, perché come scrisse Concetto Marchesi, «di parole che tutti odono sono scritte le frasi che nessuno ha udito mai». In Italia, fino ad ora, nessun presidente del Consiglio aveva osato affermare che “il posto fisso non c’è più”. Ecco, allora, che sono presenti elementi, insieme tragici e patetici, nell’astensione del lavoro del 12 dicembre.
 
Milioni di lavoratori saranno chiamati a rinunciare ad una giornata di retribuzione, migliaia di poliziotti e di carabinieri dovranno fronteggiare disordini di piazza creati a bella posta dai facinorosi e dagli sfascisti che si inseriranno nei cortei. Gli scioperanti cercheranno di difendere un’identità perduta, sconfitta dalla economia e dalla storia, prima che da un qualunque Governo. Ma a cui non si è capaci di rinunciare. È sconfortante assistere all’involuzione del più importante sindacato italiano e ai sacrifici di tanti militanti e lavoratori. Ma la Cgil non può vincere, perché se così fosse a perdere sarebbe l’Italia.
 
Giuliano Cazzola
Membro del Comitato scientifico ADAPT

Docente di Diritto del lavoro UniECampus

 

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