Politically (in)correct una rubrica ADAPT sul lavoro – Riforma della contrattazione: nessuna scorciatoia

Non più tardi di venerdì scorso, intervenendo a Bologna ad una manifestazione della Cisl, il Ministro Giuliano Poletti ha confermato che il Governo, già nel disegno di legge di stabilità (quindi tra pochi giorni) cercherà di individuare delle misure che favoriscano una riforma degli assetti della contrattazione collettiva, dopo il fallimento, tra le parti sociali, di un negoziato stabilmente in crisi. Di più il titolare del Lavoro non ha aggiunto; tranne un omaggio rituale all’esigenza di un maggiore decentramento alla ricerca della “produttività perduta”.

 

Nel fare queste affermazioni il Ministro ha voluto ricordare che il Governo non ha dato attuazione alla delega relativa all’istituzione di un “compenso orario minimo” proprio per rispettare le perplessità dei sindacati sollecitandoli, nel medesimo tempo, ad affrontare le esigenze di adeguamento delle relazioni industriali attraverso l’esercizio dell’autonomia collettiva. Non è il caso di infilarsi nella “fuga in avanti” delle anticipazioni, ma il Governo – se e quando uscirà dal generico intendimento di voler aggiungere una riforma in più al suo carnet – avrà davanti a sé due strade: una già tracciata, anche se bisognosa di qualche aggiustamento (e, soprattutto, di essere meglio valorizzata come arteria in grado di risolvere tanti problemi del traffico); l’altra più suggestiva, ma di complessa realizzazione, affidata addirittura ad una iniziativa legislativa organica.

 

Della prima esistono già i piloni portanti: si tratta del Testo Unico sulla rappresentanza (10 gennaio 2014), della detassazione delle quote di retribuzione destinate a promuovere la produttività (a cui si potrebbe aggiungere un più significativo impulso alle prestazioni di welfare aziendale, evitando prioritariamente di sottoporle a tassazione allo scopo di “fare cassa”).

 

Il terzo pilone, quella più importante, è costituito dalle disposizioni di cui all’articolo 8 del dl n. 138/2011, grazie alle quali viene consentita la deroga, mediante la contrattazione più vicina all’impresa, dalle normative uniformi, di legge e di contratto nazionale, con l’obiettivo di valorizzare, invece, le effettive differenze, assumendosi anche la responsabilità di promuovere flessibilità organizzative e produttive.

 

L’articolo 8 permetteva pure di negoziare, tra le altre materie, anche gli effetti e le conseguenze del recesso dal rapporto del lavoro, fatta eccezione per il licenziamento discriminatorio e per quello in occasione di matrimonio e in altri casi come la violazione delle norme di tutela della maternità (atti che restavano sanzionati mediante il diritto alla reintegra). Ed è anche per questo motivo che, a suo tempo, i sindacati non ne vollero sapere riscontrando, con facilità, l’acquiescenza rinunciataria della Confindustria di Emma Marcegaglia. Ma ora che tale problema è regolato dal contratto a tutele crescenti (d.lgs. n. 23/2015) potrebbe essere attutita l’ottusa ostilità con cui venne accolta quella norma. Tanto più che l’articolo in questione prende, come si suol dire, due piccioni con una sola fava: il superamento del principio dell’inderogabilità – se non in melius – delle disposizioni dei contratti nazionali e le stimmate della validità erga omnes per il contratto decentrato che sia stato sottoposto ad una procedura di convalida da parte dei lavoratori interessati: il che è sicuramente un elemento di ulteriore “convenienza” per la contrattazione di prossimità.

 

In fondo, la questione-chiave del riordino del sistema contrattuale è quella del superamento della c.d. gerarchia delle fonti (ereditata dal modello corporativo quando il contratto nazionale era equiparato alla legge) e dei principi dell’inderogabilità delle norme e dell’indisponibilità dei diritti, anche quando le deroghe siano definite attraverso procedure tutelate ed assistite (perché attuate e convalidate in una sede “protetta”, oppure concordate con l’assistenza di un rappresentante sindacale o sottoposte a certificazione).

 

Il Jobs Act ha liquidato (seppure con la contraddizione tra “vecchi” e “nuovi”  assunti) la cultura della job property e il principio dell’equivalenza delle mansioni nell’uso dello ius variandi (articolo 2103 c.c.) da parte del datore. Ha altresì stabilito, in un contesto di relativo equilibrio con le regole della privacy, che gli esiti dei controlli a distanza sul lavoratore possano valere anche per quanto riguarda l’esercizio del potere disciplinare. Con riferimento ai nuovi ammortizzatori sociali, si è dato rilievo agli aspetti della c.d. condizionalità ai fini della ricollocazione del lavoratore disoccupato (anche se le norme andranno inevitabilmente a sbattere contro una permanente inadeguatezza delle strutture preposte alle politiche attive, per di più in un quadro istituzionale in transizione).

 

Il passo che resta da compiere è proprio quello concernente la liberazione del lavoratore dai vincoli della inderogabilità e della indisponibilità che teorizzano e fanno di quello del lavoro un diritto diseguale, perennemente rivolto a tutelare il lavoratore alla stregua di un “amministratore di sostegno” che è convinto di proteggerlo (da se stesso, innanzi tutto) mentre lo tiene prigioniero. Come abbiamo sostenuto, la via da seguire è già tracciata. Guai, invece, se il Governo pensasse di definire per legge non solo (e non sarebbe condivisibile un siffatto provvedimento) i criteri della rappresentanza e della rappresentatività, ma anche gli assetti della contrattazione collettiva (ammesso che ciò fosse costituzionalmente consentito dal momento che l’articolo 39 Cost. non è stato abrogato e resta, “nella vigna a far da palo”, per impedire qualunque soluzione diversa da quella prefigurata nell’articolo stesso, ma “in sonno” dal 1948).

 

Come ha scritto Tiziano Treu sul n. 3/2015 della Rivista delle Relazioni Industriali, anche la legge spagnola del 2012 «si avvicina all’articolo 8 del decreto-legge n. 138/2011, convertito con modificazioni dalla legge n. 148/2011, che rappresenta analogamente un intervento diretto del legislatore – il primo della nostra storia – volto a sancire la possibilità dei contratti c.d. di prossimità di derogare, a certe condizioni, ai contratti collettivi nazionali. Ma la legge italiana – prosegue Treu – non si limita, come quella spagnola, a modificare i rapporti fra livelli contrattuali a favore di quelli decentrati, in quanto altera lo stesso equilibrio fra la fonte legale e quella contrattuale, permettendo ai contratti di prossimità di derogare, alle medesime condizioni, anche alle norme di legge riguardanti gran parte dei contenuti dei rapporti individuali di lavoro». Guai, allora, se, nel Governo, prendesse consistenza l’idea di seguire la strada indicata da qualcuno degli stregoni (non più apprendisti, vista l’età) che, in materia di lavoro, ritengono sempre di avere l’idea giusta (al momento giusto) capace di risolvere d’acchito tutti i problemi. Diceva Filippo Turati che «la via lunga è anche la più breve, se è la sola ad esistere».

 

 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

Docente di Diritto del lavoro UniECampus

 

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