Politically (in)correct una rubrica ADAPT sul lavoro – Pensioni: quando i difetti stanno nel dna del sistema

“C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole, anzi di antico”. Proprio così, nel sistema pensionistico italiano – dove c’è sempre il rischio di rimettere in discussione quei precari equilibri raggiunti dall’ultima riforma in ordine di tempo per effetto della crisi economica – si è posto con forza un problema appartenente al codice genetico del sistema stesso, voluto così dal legislatore del 1995 nella convinzione di agire nell’interesse delle generazioni future. Anche in questa circostanza il destino ha dimostrato, una volta di più, il suo cinismo: costretta a denunciare il difetto genetico della legge n. 335/1995 (la c.d. riforma Dini) è stata la persona che a quel tempo era Ministro del lavoro e che oggi siede sulla poltrona più importante del SuperInps, l’ente previdenziale più grande d’Europa e tra i primi al mondo: Tiziano Treu.
 
Il commissario straordinario dell’Inps si è limitato a ricordare quanto già si sapeva e cioè che il trend negativo del pil, secondo una corretta e meccanica interpretazione della legge, inciderà in modo egualmente negativo sul montante contributivo sul quale saranno calcolate le pensioni del futuro. Vediamo di fare sommariamente il punto della questione.
 
Mentre nel sistema retributivo la base di riferimento per il calcolo della pensione è quella degli ultimi dieci anni (i nove che precedono il decimo sono rivalutati con un meccanismo che tiene conto dell’inflazione), nel sistema contributivo si accredita – nel caso dei dipendenti – il 33% della retribuzione annua rivalutando il montante sulla base dell’andamento del pil nominale riscontrato nei cinque anni precedenti. Allora, vent’anni or sono, nessuno avrebbe mai pensato che da quel calcolo potesse derivare un valore di segno negativo. Invece è successo e si è posto il problema del “che fare?”.
 
La prospettiva è tutt’altro che incoraggiante, perché, se invece di aggiungere ai montanti l’importo della rivalutazione, si dovesse usare il segno meno, si finirebbe per incidere addirittura sui contributi accreditati, il cui ammontare serve come base per il calcolo della pensione. Il problema, poi, non riguarda solo quanto è già avvenuto negli ultimi anni sotto gli occhi di tutti, ma il futuro.
 
Se nel 1995 si pensava, infatti, che non si sarebbe mai verificata l’ipotesi di un pil nominale con segno negativo, oggi sappiamo, invece, che tale circostanza non è affatto peregrina, è tutt’altro che un classico “caso di scuola” e che negli anni a venire non dobbiamo aspettarci solo la crescita. Occorrerebbe, allora, correre ai ripari. La soluzione logica (una sorta di uovo di Colombo) sarebbe quella di “sterilizzare” gli indici negativi, come ha proposto lo stesso Tiziano Treu.
 
Ma la Ragioneria generale dello Stato (Rgs) ha messo le mani avanti ribadendo che una correzione siffatta richiederebbe una copertura finanziaria tutt’altro che contenuta negli oneri o semplice da definire, visto che dovrebbe proseguire avanti negli anni in parallelo con lo svolgersi degli effetti della riforma Dini. A posteriori viene da chiedersi se, a suo tempo, l’adozione del calcolo contributivo non sia stato determinato da un vizio di intellettualismo, con qualche venatura ideologica, dal momento che, il medesimo risultato poteva essere raggiunto rafforzando quanto aveva già stabilito la Riforma Amato del 1992 con l’applicazione del calcolo retributivo a tutta la vita lavorativa.
 
È questo, in fondo, il sistema prevalente in Europa. Da noi, nel 1995, si volle adottare, nel regime obbligatorio, un modello di “capitalizzazione simulata” coerente a suo modo con l’istituzione dei fondi pensione e delle altre forme di previdenza complementare a cui veniva affidata una funzione strategica nel quadro della riforma complessiva. Oggi, anche questo settore corre dei rischi seri che ne aggravano la vita stentata condotta dalla sua introduzione nell’ordinamento previdenziale, con la mission di compensare la riduzione del peso e del tasso di sostituzione della previdenza obbligatoria. Anche la Banca d’Italia ha criticato, nella sede ufficiale di un’audizione parlamentare, l’operazione tfr in busta paga, mettendo in evidenza – questo è un colpo mortale inferto alle motivazioni su cui si basa la misura – che i primi a rimetterci sarebbero proprio i lavoratori di reddito medio basso, per effetto tanto della tassazione sulla base dell’aliquota marginale, quanto per il venir meno del meccanismo di rivalutazione previsto per il trattamento di fine rapporto.
 
Insomma, nel suo complesso e soprattutto per il notevole incremento della imposta sui rendimenti, l’operazione tfr in busta paga è un vero e proprio atto di criminalità economica. Da circa sette anni il settore della previdenza complementare giace dimenticato dai Governi che nel frattempo si sono succeduti. Dopo la riforma del 2007, costruita sul trasferimento del tfr maturando ad una forma di previdenza complementare, non vi sono stati ulteriori interventi, salvo qualche tentativo, sempre fallito, di eliminare la Covip portando le sue funzioni sotto l’egida di Bankitalia (Renzi farebbe bene a chiudere una volta per tutte questo ente inutile) e la proposta, rimasta sulla carta della Riforma Fornero, di consentire l’opting out volontario e parziale per stornare, dalla previdenza obbligatoria, qualche punto di aliquota pubblica alla previdenza a capitalizzazione.
 
La gelata, che a partire dal 2008, ha interessato i mercati finanziari ha prodotto un generale imbarazzo ad occuparsi di un comparto che, essendo finanziato a capitalizzazione individuale, è stato costretto a misurarsi con la crisi. Nonostante queste difficoltà gli aderenti alle forme di previdenza privata – pur con evidenti squilibri tra le possibili tipologie e tra i diversi comparti del mercato del lavoro (la previdenza privata non riesce a decollare nel lavoro autonomo e nel pubblico impiego) – hanno continuato a crescere arrivando, nel giugno di quest’anno, a poco meno di 6,4 milioni di utenti. L’ammontare delle risorse destinate alle prestazioni ha superato i 121 miliardi (anche va detto che 50 miliardi sono detenuti dalle forme preesistenti ovvero dai fondi di più antica costituzione). Alla previdenza privata sono destinati ogni anno – secondo un equilibrio abbastanza stabile – circa 5,5 miliardi provenienti dal tfr. Dal 2000 al 2013 il rendimento cumulato dei fondi pensioni negoziali, che pur ha dovuto sottostare alle oscillazioni dei mercati, è stato del 48,7% a fronte del 46,1% ottenuto, per legge, dal tfr. Nel corso del 2013 sono stati raccolti oltre 12 miliardi di euro di cui circa 8 miliardi destinati ai fondi negoziali.
 
Certo, le difficoltà delle famiglie hanno pesato anche sull’attitudine al risparmio previdenziale. Nel corso del 2013 circa 1,4 milioni di posizioni individuali (di cui un milione nei fondi aperti e nei PIP) non sono state alimentate da versamenti contributivi; molti aderenti si sono avvalsi della facoltà di chiedere le anticipazioni consentite, impoverendo così il loro montante contributivo. All’interno di un quadro difficile, ma non desolante, tra gli addetti ai lavori – a fronte dell’immutato rilievo che si continua ad attribuire ad un solido ed esteso secondo pilastro per assicurare futuri trattamenti pensionistici caratterizzati da una pur minima adeguatezza – ci si interrogava – non solo in Italia ma in ambito europeo ed internazionale – su come rilanciare un settore comunque strategico.
 
La via migliore sembrava essere quella che si persegue da vent’anni: rafforzare l’utilizzo del tfr quale principale fonte di finanziamento della previdenza privata, arrivando persino a prefigurare soluzioni semi obbligatorie. Del resto l’impiego del trattamento di fine rapporto nella previdenza privata è una scelta razionale, non comporta un incremento del costo del lavoro e rende attuale e disponibile durante il rapporto di lavoro una risorsa destinata al momento della sua cessazione. Bene. Il Governo ha deciso di #cambiareverso anche in questo campo. Il tfr finirà, per chi lo desidera, in busta paga al fine di far lievitare i consumi mortificati dalla crisi.
 
Affidiamoci, per adesso, al buon senso degli italiani, i quali sapranno compiere le valutazioni del caso, includendovi – come ha fatto notare la Banca d’Italia – la conseguenza del maggior carico fiscale (almeno 5 punti in più di aliquota) che la monetizzazione del tfr comporterebbe. Stendiamo un velo pietoso sul marchingegno escogitato per far liquidare, nel silenzio dell’Abi e della Confindustria, il tfr alle banche, salvo consentire loro di rivalersi, in caso di inadempienza dei datori, su di un apposito fondo di garanzia presso l’Inps (con relativo aumento del costo del lavoro).
 
Ma perché aggiungere al danno della diversa allocazione dei ratei di trattamento di fine rapporto anche la beffa criminale di un maggior prelievo fiscale? Salvo modifiche, l’aliquota sui rendimenti passerà dall’11,5% ad almeno il 20%. Il che determinerà una riduzione netta del montante contributivo individuale su cui, nei prossimi anni, saranno calcolate, su base attuariale, le pensioni complementari dei 6,4 milioni di italiani aderenti ad una forma di previdenza a capitalizzazione. È bene precisare che il caso della maggiore tassazione dei rendimenti dei fondi pensione ha un profilo differente rispetto a quello della tassazione più elevata dei rendimenti patrimoniali della Casse di previdenza privatizzate. Queste ultime risorse garantiscono il pagamento delle future pensioni, ma non entrano direttamente nel meccanismo di calcolo dei trattamenti; quelle dei fondi sono loro stesse pensioni. Ci auguriamo, allora, che il Parlamento modifichi una norma sbagliata, nel campo della previdenza complementare. Sarebbe il caso, anche, di cercare delle soluzioni per gli aspetti denunciati da Treu. Ma non è facile. E le difficoltà non sono tecniche.
 
Giuliano Cazzola
Membro del Comitato scientifico ADAPT

Docente di Diritto del lavoro UniECampus

 

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