Politically (in)correct una rubrica ADAPT sul lavoro – Pensioni: la flessibilità in uscita è invitata a ripresentarsi nel 2016. Che fare?

Pensioni: la flessibilità in uscita “marca visita”. Bene che vada il “periodo di comporto” scadrà nel prossimo anno. Il disegno di legge di stabilità per il 2016, per ora, si accontenta di introdurre, al raggiungimento dei 63 anni (in pratica, tre anni prima del requisito per il trattamento di vecchiaia), la possibilità per il lavoratore di concordare la trasformazione del rapporto di lavoro a part time (in misura del 50%) a fronte di una retribuzione, sostanzialmente, pari al 65% di quella precedente e della copertura figurativa ragguagliata all’intero importo della stessa. La norma è sottoposta ad un finanziamento predeterminato, esaurito il quale non sarà più possibile usufruirne. La trasformazione del rapporto non comporta obblighi di nuove assunzioni da parte del datore, diversamente da quanto previsto dall’articolo 41 del d.lgs. n.148/2015 (il provvedimento sui c.d. ammortizzatori sociali in costanza di rapporto di lavoro).

 

Di che cosa si tratta ? Nel contesto di un “contratto di solidarietà espansiva”– negoziato a livello aziendale dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative – sarà possibile, allo scopo di aumentare l’occupazione (che poi è la mission del contratto stesso) consentire anche una forma di pensionamento anticipato per quei lavoratori “che abbiano una età inferiore a quella prevista per la pensione di vecchiaia di non più di 24 mesi e abbiano maturato i requisiti minimi di contribuzione per la pensione di vecchiaia”, a condizione che gli interessati, a loro domanda, “abbiano accettato di svolgere una prestazione di lavoro di durata non superiore alla metà dell’orario praticato prima della retribuzione convenuta nel contratto collettivo”. Dunque, un mix tra lavoro (a tempo parziale) e pensione, finalizzato a promuovere forme di invecchiamento attivo collegate a nuove assunzioni a tempo indeterminato attraverso la contrattazione di prossimità.

 

Durante il periodo di anticipazione, la pensione è cumulabile con la retribuzione nel limite massimo della “ somma corrispondente al trattamento retributivo perso al momento della trasformazione del rapporto da tempo pieno a tempo parziale”. Se è più conveniente rispetto al calcolo della pensione, è “neutralizzato” il numero delle settimane a part time. È difficile sottrarsi all’impressione che quanto previsto nel ddl di stabilità finisca per “cannibalizzare” l’impianto contenuto nel decreto. Un altro intervento annunciato riguarda la c.d. opzione-donna. I problemi interpretativi insorti dovrebbero essere superati mediante l’aumento di un anno del requisito anagrafico (da 57 a 58 anni) e lo spostamento a fine 2016 della possibilità di avvalersi dell’opzione stessa, alle condizioni previste dalla legge (l’assegno è calcolato intermante con il metodo contributivo). Pur nutrendo dubbi sulla loro efficacia, potremmo attribuire a queste misure un carattere di flessibilità settoriale, riservata a particolari categorie di lavoratori e lavoratrici. Invece, tutto il dibattito di questi mesi sulla flessibilità in uscita si è rivelato essere – come direbbe il Qohelet – solo “vuoto e fame di vento”. Non occorreva essere aruspici per immaginare che sarebbe finita così.

 

Il Governo si è accorto che non è possibile ridurre le tasse e aumentare contemporaneamente la spesa in un settore – come quello della previdenza – sorvegliato a vista dalla Ue, dalle istituzioni internazionali e dai mercati. A meno di non dover ricorrere a tagli – socialmente insostenibili – sugli assegni corrisposti in anticipo a persone ancora in grado di lavorare. Purtroppo, ci scapperà la settima salvaguardia degli esodati (si parla di altri 24 mila casi). Almeno, però, questo intervento servirà a saldare qualche conto con un passato discutibile, mentre la flessibilità in uscita avrebbe, invece, manomesso un punto-chiave della riforma del 2011, ripristinando in pratica la vecchia pensione di anzianità, seppure gravata da penalizzazioni economiche.

 

Ma è davvero possibile e conveniente introdurre, come regola generale, un meccanismo di pensionamento flessibile? Chi scrive, in qualità di deputato e vice presidente della Commissione Lavoro nella passata legislatura, presentò nel 2008, insieme ad altri colleghi) un progetto di legge delega di riforma del sistema pensionistico (AC 1299) che, tra gli altri aspetti (incluso il passaggio al sistema contributivo pro rata dal 1° gennaio 2009), prevedeva quanto segue: «b) istituzione, con decorrenza dal 1° gennaio 2014 per i lavoratori e le lavoratrici cui si applica il sistema retributivo,di un pensionamento unificato di vecchiaia che, fermo restando il diritto al pensionamento con quaranta anni di contribuzione a prescindere dall’età anagrafica, promuova l’allungamento della vita lavorativa e garantisca una flessibilità di opzioni per il requisito anagrafico di quiescenza, compreso tra un minimo di sessantadue e un massimo di sessantasette anni;».

 

La norma veniva così spiegata nella relazione illustrativa: «si propone di consolidare, pur con un percorso di gradualità, l’elevazione dell’età pensionabile prefigurando, a partire dal 2014 (e quindi nel contesto dell’entrata in vigore, parziale o totale, del calcolo contributivo), un pensionamento flessibile in un range compreso tra 62 e 67 anni di età, per uomini e donne, corredato da corrispondenti coefficienti di trasformazione sottoposti a revisione triennale e automatica. Una soluzione siffatta è volta a restituire flessibilità al momento del pensionamento garantendo nel medesimo tempo un sostanziale innalzamento dell’età pensionabile».

 

La proposta non era molto diversa da quella presentata all’inizio dell’attuale legislatura da Cesare Damiano (che allora criticò la mia) e da Pier Paolo Baretta, autorevoli esponenti del Pd. Vista oggi, dopo che tanta acqua è transitata sotto i ponti (non solo per le frequenti alluvioni), si può solo constatare che si tratta di un’impostazione superata da tutto ciò che è successo dopo, nel settore della previdenza. L’idea di fondo, però, era valida: non solo perché trasferiva al sistema retributivo quella flessibilità in uscita che era una delle principali caratteristiche di quello contributivo, ma soprattutto perché intuiva che se la flessibilità stessa non fosse stata inserita in un contesto di aumento progressivo dell’età pensionabile, l’entità degli oneri da sostenere l’avrebbero resa sostanzialmente impraticabile. Non si dimentichi mai che il “superamento” del c.d. scalone previsto nella legge n. 243/2004 era costato, in un decennio, ben 7,5 miliardi, al solo scopo di consentire un’andata a regime più graduale per qualche decina di migliaia di persone. Nel 2008, l’ipotesi di raggruppare in una pensione unificata sia il trattamento di vecchiaia che quello di anzianità, per uomini e donne, all’interno di un arco temporale compreso tra i 62 e i 67 anni, con i relativi coefficienti di trasformazione (aggiornati automaticamente alle dinamiche demografiche), significava realizzare dei risparmi, attraverso un incremento complessivo (corredato di compensazioni di genere al proprio interno) dell’età pensionabile pur in un ambito di libera scelta del momento della quiescenza. La cronaca, però, non mi diede ragione (non si riesce mai ad aver ragione in anticipo): l’itinerario delle riforme prese un’altra strada. Ma ormai è ora di smetterla di “demonizzare” la povera Fornero.

 

Nella passata legislatura, le vere misure di carattere strutturale le varò il Governo di centro destra. Elsa Fornero si limitò a proseguire nella linea del rigore, ad anticipare di qualche anno talune “andate a regime”, ad abolire il sistema barocco delle “quote” (salvo che per i lavori usuranti)) e, soprattutto, a “fare la mossa” dell’estensione pro rata del calcolo contributivo, a partire dal 2012. Del resto, l’avvio della parificazione dell’età pensionabile di vecchiaia delle lavoratrici rispetto a quella dei lavoratori (attuata a marce forzate nel pubblico impiego su impulso sanzionatorio della Ue) è dovuto a Giulio Tremonti e a Maurizio Sacconi. Non solo. Nel requisito anagrafico di vecchiaia ora vigente (in transito verso i 67 anni nel 2018) sono inclusi sia i 12 mesi (18 per gli autonomi) della c.d. finestra mobile, sia gli incrementi derivanti dall’aggancio automatico all’attesa di vita: misure importanti adottate, appunto, dal Governo di centro destra (legge n. 122/2010) e soltanto confermate nel 2011. Le medesime considerazioni valgono per la pensione anticipata. Nel requisito contributivo, vigente nel 2015, di 42 anni e 6 mesi (per i lavoratori dipendenti pubblici e privati e gli autonomi) e di 41 anni e 6 mesi (per le lavoratrici di tutti i settori) sono assorbite le “finestre mobili” ed inclusi gli effetti della dinamica demografica. Tutto ciò a prescindere dall’età anagrafica. La soglia dei 62 anni (praticamente “in sonno” fino a tutto il 2017) serve solo a definire l’ambito di una possibile penalizzazione sull’assegno di chi va in quiescenza anticipata ad un’età inferiore (l’1% per i primi due anni e il 2% per quelli successivi).

 

In tale contesto, ad avviso di chi scrive, esiste uno solo percorso utile per consentire un pensionamento flessibile, applicabile anche ai soggetti sottoposti al sistema misto (dopo la riforma del 2011, anche a coloro che avevano un’anzianità pari o superiore a 18 anni alla fine del 1995). Si tratta di “rinverdire” un’opzione (peraltro tuttora vigente) prevista nella legge Dini-Treu del 1995. È consentito, infatti, optare per il calcolo della pensione interamente con il metodo contributivo a condizione di far valere almeno 15 anni di contributi, 5 dei quali versati secondo tale metodo. Optando per il calcolo contributivo e’ possibile servirsi dell’uscita di sicurezza prevista al raggiungimento di 63 anni di età a patto che l’importo a calcolo sia pari o superiore a 2,8 volte quello dell’assegno sociale (1.200 euro mensili lordi nel 2012). Non si dimentichi mai, del resto, che il sistema non deve garantire solo la sostenibilità, ma anche l’adeguatezza dei trattamenti. Esiste un ulteriore requisito per poter esercitare tale facoltà: aver maturato meno di 18 anni di versamenti prima del 31.12.1995. Si tratta, però, di una condizione che potrebbe essere superata senza alcuna conseguenza di carattere finanziario. Che è poi quello che conta.

 

 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

Docente di Diritto del lavoro UniECampus

 

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