Politically (in)correct una rubrica ADAPT sul lavoro – Pensioni: i motivi veri dello squilibrio tra versamenti e prestazione

Gli agit-prop dell’Inps-LaVoce.Info continuano ad abusare di una banca dati dell’Istituto di via Ciro il grande, la quale fa invidia alla Cia (ma che non va più indietro dei primi anni settanta per quanto riguarda il lavoro privato e del 1996 per quanto concerne il pubblico impiego) sottoponendo alla gogna – con cadenza frequente e in nome del programma “a porte aperte” – intere categorie le cui pensioni furono, a suo tempo, liquidate con il calcolo retributivo ai sensi delle leggi vigenti.
 
Ciò al solo scopo di dimostrare che, se nei loro confronti si fosse applicato il “virtuoso” metodo contributivo, oggi percepirebbero un assegno più basso. Tanto che – nel dibattito politico – si vagheggia di procedere ad una massiccia operazione di ricalcolo almeno per i trattamenti di origine retributiva più elevati. Addirittura il più autorevole quotidiano italiano, con un articolo firmato da una delle “grandi firme” più implacabili nel fustigare la Casta, ha definito “lo scassinatore dei conti pubblici” Mauro Sentinelli, ex DG di una compagnia telefonica e percettore di un trattamento pensionistico record di 91 mila euro mensili lordi. In sostanza, lo squilibrio denunciato tra contributi versati e prestazione riconosciuta – nel calcolo retributivo per sua natura rivolto a preservare al pensionato un reddito il più possibile equipollente a quello acquisito nell’ultima fase dell’attività lavorativa – riguarderebbe l’importo dell’assegno al momento della sua liquidazione e, di conseguenza, il tasso di sostituzione. Il fatto è che non è questa la causa principale del vero disequilibrio che ha alimentato, nel corso di lunghi decenni, il debito previdenziale e di conseguenza il debito pubblico.
 
Lo scostamento più rilevante (si veda la tav.1) è determinato dal confronto tra la copertura assicurata dai contributi versati e il periodo di godimento della pensione in rapporto all’attesa di vita (includendovi anche la reversibilità). Lo scostamento è tanto più vistoso nel caso dei pensionamenti di anzianità per motivi molto banali: il combinato disposto tra l’età della quiescenza e la durata della prestazione.
 
Tav. 1 – Anni di pensione coperti dal montante contributivo (a 58 anni di età e con anzianità di 35 anni)

gestione Vita residua al pensionamento 1970-2005 con calcolo retributivo 1970-2005 con calcolo retributivo 1980-2015 con calcolo misto 1980-2015con calcolo misto
N° anni coperti da montante Differenza da vita residua N° anni coperti da montante Differenza da vita residua
Ministeriali 25,3 14,9 – 10,4 16,6  – 8,7
Enti locali 25,3 15,4 –  9,9 17,2  – 8,1
Dip. Priv. 25,3 17,3 –  8,0 19,5  – 5,8
Artigiani 25,3  5,5 – 19,8 11,4  -13,9
Commercianti 25,3  5,6 – 19,7 11,6  -13,7

Fonte – Commissione Brambilla 2001
 
In pratica, un dipendente privato andato in pensione, col calcolo retributivo, nel 2005 con 35 anni di anzianità contributiva e 58 anni di età anagrafica, poteva contare mediamente su oltre 25 anni di vita residua, avendone coperti, con i propri versamenti, solo 17,3. Il sistema, dunque gliene regalava otto. Il bonus diminuiva per quanti fossero andati in quiescenza successivamente avvalendosi del sistema misto. Essendo la tabella del 2001 (in occasione del primo monitoraggio della riforma Dini) non vi erano incluse le modifiche apportate ai requisiti del pensionamento anticipato dalla riforma Fornero, ma è facilmente intuibile che la gran parte dei trattamenti erogati in precedenza abbiano usufruito del beneficio derivante dallo scostamento tra gli anni del montante contributivo e quelli della vita residua al pensionamento. Non si dimentichi che, ancora nel 2010, l’età media di coloro che percepirono il trattamento di anzianità era pari a 58,3 anni se dipendenti, a 59,1 anni se autonomi.
 
Il lettore può agevolmente notare che i trattamenti dei lavoratori autonomi sono praticamente regalati dal sistema, essendo molto ridotta la copertura assicurata dai versamenti. Anche in questo caso la spiegazione è semplice: a queste categorie è stato applicato il metodo retributivo a partire dal 1990. In precedenza, erano tenute ad una contribuzione forfetaria che consentiva, all’atto del pensionamento, l’attribuzione della pensione mini” sul piano previdenziale, nel senso che hanno avuto riconosciuta tutta l’anzianità lavorativa, ma il calcolo dell’assegno è stato effettuato con riferimento ai versamenti effettuati dopo la riforma delle loro Gestioni (un cadeau di cui l’Inps-LaVoce.Info non parla). In parole povere, la legge del 1990, votata all’unanimità dal Parlamento, ha permesso ai lavoratori autonomi in regime retributivo, di farsi una pensione su misura. Tornando al caso dei dipendenti privati se, nel 2005, fermi restando i 35 anni di versamenti, l’età del pensionamento fosse stata di 62 anni, l’arco temporale di vita residua non coperto da versamenti sarebbe stato, nel sistema retributivo, pari a 4,5 anni, ridotti fino a 2 a 65 anni.
 
Quanto ai dipendenti pubblici è sufficiente scorrere la tabella per ritrovare condizioni più vantaggiose. Quale è la conclusione che si può trarre da questi ragionamenti ? Ad avviso di chi scrive, se è vero che lo squilibrio proviene dal periodo in cui viene riscosso l’assegno, non avrebbe senso abbassare i limiti dell’età pensionabile come è intenzione di quasi tutti i gruppi parlamentari in nome di un pretestuoso principio di flessibilità del pensionamento. È vero che il calcolo contributivo per definizione si attesta sui contributi versati, ma le dinamiche demografiche spingono molto in avanti l’aspettativa di vita. Ne deriverebbe, di conseguenza, un ridimensionamento molto robusto del tasso di sostituzione per chi scegliesse di andare in quiescenza il più presto possibile, fino a mettere a rischio l’adeguatezza del trattamento, in termini crescenti con l’età e le esigenze di vita di una vecchiaia serena.
 
Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

Docente di Diritto del lavoro UniECampus

 
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