Politically (in)correct una rubrica ADAPT sul lavoro – Legge Fornero: il monitoraggio conferma i problemi

Il “monitoraggio” era la linea Maginot di Elsa Fornero, eretta a difesa nei confronti dei critici della legge n. 92 del 2012 e di quanti le attribuivano effetti disastrosi sui livelli di occupazione. Nei giorni scorsi, il Ministero del lavoro, preceduto da una prefazione di Enrico Giovannini in cui sono ricordate le attività svolte e quelle in cantiere, ha pubblicato, con annesse tabelle statistiche, il Quaderno n. 1 riguardante “Il primo anno di applicazione” della riforma Fornero.
 
Si tratta di un buon lavoro, compiuto dal Gruppo incaricato in un lasso di tempo breve e con grande onestà intellettuale. Ciò premesso, il documento si sofferma, giustamente, a delineare un quadro macroeconomico che fa da sfondo e che condiziona in modo determinante il mercato del lavoro, nella convinzione che sarebbe comunque sbagliato attribuire unicamente agli effetti di una legge un trend difficile dell’occupazione nel contesto di una crisi di cui solo ora si intravvedono primi ed incerti segnali di inversione di tendenza. I dati, però, parlano chiaro e, tutto sommato, confermano quanto gli operatori del settore – mi riferisco in particolare ai consulenti del lavoro – avevano già avvertito fin dalla seconda metà del 2012, subito dopo l’entrata in vigore della legge.
 
Per quanto riguarda i rapporti di lavoro non vi è stato quel significativo aumento delle assunzioni a tempo indeterminato, mentre si è assistito ad un crollo dei rapporti c.d. atipici. Il mercato del lavoro si è ancor più ancorato al contratto a termine, anche attraverso la somministrazione, mentre – in chiave difensiva – vi è stato un incremento del ricorso al part time che, insieme alla messa in campo delle prestazioni a sostegno del reddito (gli ammortizzatori sociali), ha contribuito a contenere, almeno sul piano formale, il tasso di disoccupazione.
Se si volesse – e non è elegante farlo – liquidare la questione con una battuta, si direbbe che gli italiani assumono a tempo indeterminato soltanto le collaboratrici domestiche e le c.d. badanti (usiamo il femminile perché si tratta soprattutto di donne per di più straniere).
 
Infatti nel secondo trimestre 2013 rispetto a quello del 2012, con riguardo ai servizi per attività svolte da famiglie e convivenze, le attivazioni di contratti a tempo indeterminato sono aumentate del 3%. Tutti gli altri comparti produttivi – nel confronto tra i citati trimestri – hanno fatto registrare una variazione percentuale negativa: commercio e riparazioni (-18,8%); industria in senso stretto (-14,6%); turismo, trasporti e attività terziarie avanzate (-14%). Con riguardo alla cittadinanza le attivazioni dei contratti a tempo indeterminato nel secondo trimestre del 2013 sono diminuiti in termini tendenziali del 15,8% per gli stranieri comunitari, del 12,7% per gli italiani e solo del 2,3% per i cittadini extracomunitari, grazie all’incremento delle attività legate alle famiglie che, a quanto pare, reclutano personale da paesi sempre più lontani. Considerando, inoltre, il fatto che 6 attivazioni su 10 di contratti a tempo indeterminato sono riservati a lavoratori con più di 34 anni e che solo 1 su 10 interessa giovani con meno di 24 anni, il rapporto conclude laconicamente che «la riforma non sembra ancora aver sollecitato le imprese ad un maggior ricorso a forme di lavoro “standard” per le giovani generazioni». In sostanza, le attivazioni di contratti a tempo determinato sono di poco inferiori al 70% totale di tutte le attivazioni (sono dati di flusso non di stock). Ma anche per quanto concerne le trasformazioni dal contratto a termine a quello a tempo indeterminato si osserva una dinamica un po’ altalenante ma tendenzialmente negativa: mentre nel quarto trimestre 2012 vi era stato un incremento del 14,9% rispetto al medesimo periodo dell’anno precedente, già nel secondo trimestre del 2013 (con 73 mila trasformazioni su oltre 1,7 milioni di attivazioni con contratti a termine) vi era stato un calo del 22% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.
 
Insomma, grazie ad alcune correzioni apportate dal pacchetto Giovannini (dl n. 76/2013) alla legge Fornero e grazie, soprattutto, al requisito dell’acausalità nei primi 12 mesi il contratto a termine risulta essere lo strumento preferito dalle imprese per le assunzioni. Addirittura, a fronte delle ripetute manomissioni compiute dalla legge n. 92 del 2012 sui c.d. contratti flessibili, si sta verificando il paradosso che le imprese preferiscano avvalersi del nuovo contratto a termine, anziché avventurarsi nelle nuove regole di un contratto flessibile post riforma. Ciò ha determinato un frequente ricorso a domande di lavoro soddisfatte con contratti a termine di brevissima durata (da 1 a 3 giorni): nel 2012 si è trattato di 1,7 milioni di attivazioni pari al 17,4% del totale. Tali casi si sono verificati soprattutto nei servizi (ristorazione, accoglienza, ma anche supplenze nella scuola e nella sanità) in misura di 1,6 milioni.
 
E l’apprendistato, il fiore all’occhiello della riforma, la “Madonna pellegrina” che tutti omaggiano? Il monitoraggio è spietato nel denunciare che il trend di questo tipo di attivazioni «appare nettamente decrescente». La flessione più robusta risulta esservi tra i giovani fino a 19 anni (- 40% della base tendenziale nel secondo trimestre 2013), con una attenuazione del decremento nella fascia 25-29 anni (-9,7%) dove si concentra il maggior numero di contratti (216mila). Cresce, invece, del 3% il numero medio dei contratti di apprendistato per la componente più adulta (30-34 anni). Il che sembra avere una spiegazione prevalente: in questi casi le imprese si avvalgono dei bonus fiscali e contributivi connessi a questo contratto. Così non è una forzatura affermare che siamo lontani dalla prospettiva dell’apprendistato come normale accesso dei giovani nel mercato del lavoro.
Anche la trasformazione in contratti a tempo indeterminato dimostra parecchie carenze. Tra aprile e giugno del 2013 è stato trasformato solo 1/3 dei contratti di apprendistato attivi (6.013, il 14% in meno su base tendenziale).
 
Per quanto riguarda, infine, i rapporti di lavoro intermittente e le collaborazioni si è assistito ad un netto ridimensionamento, tanto da far presumere, pur in mancanza di indagini longitudinali, lo spostamento verso altre forme contrattuali (lavoro occasionale accessorio, somministrazione, contratti a termine di brevissima durata). Il contratto a termine è il dominus anche nel campo della risoluzione dei rapporti di lavoro. Nel secondo trimestre del 2013 le cessazioni sono avvenute in misura di 2/3 per scadenza dei termini. Solo nel 9% dei casi sono determinati da licenziamento individuale (il 75% per motivi oggettivi e quasi sempre in aziende con meno di 15 dipendenti) e solo l’1% da licenziamenti collettivi. In questo campo si prende una “triste” rivincita il contratto a tempo indeterminato: l’80% dei licenziamenti avviene nel contesto di tale tipologia. In quello a tempo determinato le cause superano di poco il 10%.
E la conciliazione? Nel primo semestre del 2013 si contano 11.430 pratiche avviate, secondo i dati forniti dalle DTL, quasi il 15% in più di quelle dello stesso semestre dell’anno precedente (con una maggiore attenzione a questa opzione in Lombardia e in Veneto). Si potrebbe quasi affermare che è in atto un consolidamento di questa prassi e che tale circostanza rientrava negli obiettivi della riforma.
 
Quanto all’Aspi (e mini-Aspi) l’introduzione di questi istituti ha comportato un allagamento della platea degli aventi diritto di circa 1,5 milioni di unità rispetto alla situazione precedente. Questo dato di fatto va tenuto presente nel considerare il numero delle domande e delle prestazioni erogate.
 
Giuliano Cazzola
Membro del Comitato scientifico ADAPT
 
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