Politically (in)correct una rubrica ADAPT sul lavoro – La salita del Jobs act Poletti 2.0 dopo il tornante del Senato

A dire la verità, grazie al maxi-emendamento presentato dal Governo (ed approvato attraverso il ricorso al voto di fiducia), il testo del Jobs Act Poletti 2.0 ha assunto un profilo proprio di un disegno di legge delega. Si vede che qualcuno si è ricordato dell’articolo 76 Cost. e dell’obbligo di determinare criteri e principi direttivi quando il Parlamento delega all’esecutivo la funzione legislativa. In precedenza, il testo, più che ad un insieme coordinato di norme di legge, somigliava ad un manifesto di buone intenzioni. Nonostante questo doveroso riconoscimento, perdurano molti problemi. La versione che si accinge a varcare le forche caudine che l’aspettano alla Camera mantiene, al proprio interno, degli evidenti squilibri per quanto riguarda l’ambito in cui dovranno muoversi i decreti delegati: alcune parti contengono indicazioni molto dettagliate per la predisposizione dei decreti legislativi, altre restano generiche e, soprattutto, equivoche in quanto aperte e suscettibili di evoluzioni sostanzialmente differenti e di sviluppi non univoci. E, purtroppo, il chiaroscuro normativo è molto più intenso laddove più pressante e controverso è stato ed è tuttora il dibattito politico. Resta pertanto tuttora presente, sui temi più delicati, una notevole discrepanza tra ciò che emerge obiettivamente dalle norme (secondo i principi generali della interpretazione delle leggi) e quanto si afferma nel dibattito, tanto che l’aspra polemica in corso tra i sostenitori e gli oppositori del provvedimento quasi mai si rivolge al testo, ma alle dichiarazioni – spesso estemporanee – dei principali protagonisti della vicenda. In sostanza, sia quelli che pensano di aver vinto, sia gli altri che ritengono di essere stati sconfitti (e che hanno votato una fiducia “doppia”- data la vaghezza delle norme – solo per disciplina di partito) sembrano sicuri di sapere già adesso ciò che dirà il premier-demiurgo al momento dei provvedimenti attuativi: dimenticando che le leggi non nascono – come Atena – dalla testa di Zeus, sofferente di emicrania, ma da un voto del Parlamento. Tutto ciò premesso è il caso di passare ad una prima e sommaria ricognizione del maxi-emendamento approvato, con un solo articolo, a Palazzo Madama, ovviamente cercando di cogliere, per ogni problematica affrontata, non tanto il possibile quadro normativo che dovrebbe scaturire dalle deleghe specifiche, quanto piuttosto il modello che il Governo ha in mente di realizzare in quel determinato settore.
 
 
Ammortizzatori sociali
 
Se si trattasse di dare dei voti ci sentiremmo autorizzati ad affermare che quanto definito ai punti 1 e 2 costituisce una delle parti più interessanti e condivisibili del provvedimento relativamente agli “strumenti di tutela in costanza di rapporto di lavoro”. Viene tracciato, infatti, un disegno di più intensa razionalizzazione e di maggior rigore nell’utilizzo di queste forme di tutela. Il ricorso ai contratti di solidarietà e ad ogni possibile forma di riduzione dell’orario di lavoro diventa prioritario rispetto all’accesso ai trattamenti connessi alle politiche passive; sono abolite le integrazioni salariali in caso di cessazione dell’attività aziendale (ciò significa che si applicherà solo l’Aspi); è prevista una maggiore compartecipazione da parte delle imprese utilizzatrici nonché una rimodulazione in rapporto all’uso effettivo, viene sollecitata la costituzione dei fondi di solidarietà istituiti dalla legge Fornero (in sostituzione della CIG in deroga); le prestazioni sociali vengono rapportate, nella durata, alla storia contributiva dei lavoratori, sono introdotti dei massimali in relazione alla contribuzione figurativa; è richiesta la partecipazione ad attività a beneficio delle comunità locali a chi fruisce dei trattamenti di trattamenti di integrazione; è eliminato il requisito dello stato di disoccupazione per l’accesso a servizi di carattere assistenziale (bisognerà capire bene di che cosa si tratti); sono rafforzate le sanzioni per il lavoratore, beneficiario di una forma di tutela al reddito, che non si renda disponibile ad una ricollocazione o alla partecipazione ad un piano formativo o ad attività a beneficio delle comunità locali. A fronte di tali norme più severe è prevista l’estensione (l’“universalizzazione”) dell’Aspi anche ai contratti di collaborazione coordinata e continuativa (è ancora corretta la formulazione?), da realizzarsi dopo un biennio di sperimentazione con risorse definite (così stiamo più tranquilli).
 
Politiche attive
 
Oltre ad un programma di razionalizzazione (mirata alla maggiore e migliore occupabilità) degli incentivi a favore delle assunzioni, dell’autoimpiego e dell’autoimprenditorialità e al proposito di incentivare la bilateralità, protagonista di questa parte è certamente l’istituzione dell’Agenzia nazionale per l’occupazione, vigilata dal Ministero del Lavoro, al cui funzionamento si provvede con risorse umane, finanziarie e strumentali già disponibili. L’Agenzia, per i compiti che le vengano assegnati, dovrebbe svolgere un ruolo centrale nel campo delle politiche attive, a partire dalla mission prioritaria nel campo della ricollocazione e della promozione dei relativi accordi; a saper leggere, tuttavia, tra le righe, emerge con chiarezza il limite di un’operazione politica (l’Agenzia, appunto) compiuta a metà, che lascia aperte numerose contraddizioni, di cui le più significative sono le seguenti: si afferma solennemente che all’Agenzia vanno attribuite (lett.e) “competenze gestionali in materia di servizi per l’impiego, politiche attive ed Aspi”; poi si scrive (lett.r) che sono da prevedere “meccanismi di raccordo tra l’Agenzia e l’Inps sia a livello centrale che territoriale”. È facile ritenere che insorgeranno dei conflitti di competenza destinati a dare luogo, quanto meno, a confusione, dal momento che non è agevole capire quali potranno essere le “competenze gestionali” attribuite all’Agenzie, ma diverse da quelle che rimarranno come prerogativa dell’Inps. Ma la buccia di banana su cui scivola tutto l’impianto (e le speranze) dell’Agenzia si trova alla lett. u): “mantenimento in capo alle regioni e alle province autonome delle competenze in materia di programmazione delle politiche attive del lavoro”. Probabilmente, non era possibile fare altrimenti dal momento che i poteri alle Regioni in materia di politiche attive sono attribuiti da norme di rango costituzionale e che l’attuale Governo è fortemente influenzato dalla lobby degli amministratori degli enti territoriali; rimangono, però, tanti dubbi che l’Agenzia si trasformi in una sovrastruttura di scarsa utilità, benché l’esigenza di una maggiore centralizzazione in materia di politiche attive sia diffusamente avvertita.
 
 
Semplificazione amministrativa
 
Poteva mancare un capitolo dedicato a regole che semplifichino gli adempimenti a cui sono tenute le imprese in materia di lavoro? Vista la filosofia efficientista dell’attuale Governo era normale aspettarselo. Meritano una particolare segnalazione il fatto che la semplificazione e la razionalizzazione devono riguardare anche le norme (invero complicate) di igiene e sicurezza sul lavoro nonché il programma riguardante l’attività dei servizi ispettivi che, oltre a combattere più adeguatamente l’evasione contributiva, sarà rivolto a stabilire, grazie a procedure coordinate, un rapporto meno (inutilmente) oppressivo e persecutorio tra gli enti preposti e i datori di lavoro.
 
Riordino dei rapporti di lavoro
 
Siamo arrivati, così, al punto 7, dove sono contenute le questioni sulle quali è in corso un logorante “tormentone,, tra i partiti e soprattutto all’interno del Pd. Eppure, ad avviso di chi scrive, sul disegno complessivo contenuto nella delega dovrebbe riconoscersi maggiormente la sinistra che non il centro destra. Spieghiamo il perché. Paradossalmente il punto in esame rimane oscuro per quanto riguarda l’impianto normativo (come si fa a parlare di articolo 18, di reintegra o di licenziamento se queste parole sono del tutto assenti dal testo?), ma è nettamente evidente il taglio del progetto. Si abbandona la concezione galileiana del mercato del lavoro e si torna a quella tolemaica, rimettendo il contratto di lavoro a tempo indeterminato (si badi, quello vigente, non quello di nuovo conio, “a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio”, che varrà solo per i nuovi assunti) al centro del mondo del lavoro “come forma privilegiata del contratto di lavoro rendendolo più conveniente rispetto agli altri tipi di contratto in termini di oneri diretti e indiretti”. Da quando questa è anche l’opinione del centro destra, i cui esponenti sono sempre solleciti a citare, in ogni circostanza, il pensiero di Marco Biagi? Invece, il professore bolognese, assassinato dalle Br, non pensava affatto di introdurre, nella legge che porta il suo nome, tipologie flessibili in entrata, allo scopo di consentire ai datori di aggirare, in uscita, la trappola dell’articolo 18. Biagi riteneva, giustamente, che la frammentazione esistente nella realtà del mercato del lavoro potesse essere affrontata in modo adeguato e pertinente – ed utile alle imprese ed ai lavoratori – solo attraverso la previsione di una gamma di contratti specifici mirati a regolare le diversità dei rapporti di lavoro, anziché imporre loro, per via legislativa, una sorta di reductio ad unum nell’ambito di un contratto a tempo indeterminato (non più “unico”, anche se a lungo si era pensato che questa fosse una soluzione possibile) sia pure meno oppressivo e poliziesco per quanto riguarda la tutela del licenziamento. Se le norme del Jobs act Poletti n. 2, andranno in porto e i decreti delegati saranno coerenti con quegli oscuri principi che si possono decrittare tra le righe, il progetto è rivolto, oltreché a rimettere al centro del mercato del lavoro il contratto a tempo indeterminato (tout court), a potare il più possibile quei rapporti atipici che, ordinati e disciplinati appunto dalla legge Biagi del 2003 (insieme al Pacchetto Treu del 1997), consentirono, pur in un contesto di modesta crescita economica, di incrementare di 3,5 milioni di unità il numero degli occupati e di dimezzare la disoccupazione. Correrà dei seri rischi anche la riforma del contratto a termine , che pur rappresenta la chiave di volta della flessibilità, dopo l’abolizione del “causalone” per l’intera durata dei 36 mesi e la possibilità di ben 5 proroghe. Ma tale tipologia non potrà non essere “resa coerente” con il nuovo contratto a tempo indeterminato, proprio perché le due forme contrattuali marcerebbero in parallelo, svolgendo la medesima funzione. E la convenienza per i datori nell’uso del contratto a termine liberalizzato, ancorché più oneroso, non lascerebbe “spazio vitale” al nuovo contratto, nonostante i benefici che gli sarebbero riconosciuti. Da segnalare, sempre in questa parte, il sostanziale ridimensionamento, rispetto alle iniziali pretese, riguardante l’introduzione, eventuale e sperimentale, del compenso minimo orario (riservato alle aree non coperte da contrattazione collettiva e ai titolari dei rapporti di collaborazione). Bene l’estensione dell’esperienza dei voucher, di cui deve essere fatta salva la piena tracciabilità. Resta arduo convincersi che in sei mesi sia possibile redigere quel Testo organico semplificato che dovrebbe divenire la Bibbia del nuovo diritto del lavoro (ed essere “traducibile in inglese”), a meno di non prendere a scatola chiusa, e senza adeguate verifiche, alcuni di quei lavori prodotti in questi anni, (auto)proclamati dai loro autori codici del lavoro semplificati.
 
La conciliazione
 
A valle di una ricognizione delle normative esistenti verrà estesa a tutte le categorie di donne lavoratrici la tutela della maternità. Positivo che si applichi anche alle madri parasubordinate l’art. 2116 cod. civ. in materia di automaticità delle prestazioni. Altrettanto positivo che gli accordi per favorire la conciliazione, tramite forme di flessibilità dell’orario di lavoro, siano incentivati nel contesto dei premi di produttività. Si ritorna (per semplificarne le modalità?) sul tema delle dimissioni e si inseriscono i servizi per l’infanzia all’intero delle attività svolte dagli enti bilaterali. Si è poi pagato un prezzo al demone della comunicazione attraverso il c.d. dono delle ore di permesso e delle giornate di ferie ai colleghi di lavoro che hanno dei gravi problemi personali o famigliari.
 
Demansionamento e controlli a distanza dei lavoratori
 
Ambedue questi aspetti evocano indirettamente lo Statuto dei lavoratori (uno dei grandi Innominati del Jobs Act Poletti 2.0). Per quanto riguarda la revisione della disciplina delle mansioni la norma propone un intervento articolato: da un lato, sul piano generale, tende ad introdurre dei limiti alla modifica dell’inquadramento come se volesse ricondurre all’interno di un perimetro definito la funzione normativa fino ad ora svolta dalla giurisprudenza; da un lato, affida alla contrattazione aziendale (ma non c’era già l’articolo 8 della legge n. 148/2011?) la possibilità di individuare ulteriori ipotesi. Quanto ai controlli a distanza si tratta di una norma cerchiobottista di cui sfuggono totalmente le modalità attuative.
 
Giuliano Cazzola
Membro del Comitato scientifico ADAPT

Docente di Diritto del lavoro UniECampus

 

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