Politically (in)correct una rubrica ADAPT sul lavoro – E se la CGIL fosse una tigre di carta?

Dopo il decreto Poletti, a Matteo Renzi va riconosciuto un altro merito (o demerito a seconda dei punti di vista): aver dimostrato che la Cgil è una “tigre di carta”. Non è trascorso molto tempo da quando erano sufficienti un cenno del capo di Sergio Cofferati (il “cinese” è sempre stato poco espressivo) o un giro di parole (che insieme lasciavano intendere tutto e nulla) di Guglielmo Epifani per intimorire fior di leader e ministri dei governi di centro sinistra. Massimo D’Alema – che pure non era un’educanda – ebbe l’ardire, da Presidente del Consiglio, di pronunciare qualche parola di velata critica nei confronti di Cofferati, ma fu costretto a chiedere scusa pur di far cessare il vespaio di polemiche suscitato. Camusso, dal canto suo, ha più volte promosso, insieme al suo miglior alleato Giorgio Squinzi, documenti e proclami di critica ad almeno tre governi, sottoscritti dalle più importanti organizzazioni economiche e sociali. Pur non avendo quasi mai ottenuto ciò che veniva rivendicato (del resto a lei interessava solo l’aspetto politico di ostilità al governo in carica), Camusso poteva almeno contare sul sostegno dei media sempre pronti a lisciare i sindacati per il verso del pelo. Ad un tratto “s’avanza uno strano soldato” che occupa Palazzo Chigi e – con un bel po’ di sicumera – si rivolge, al pari del bambino della fiaba, ad un popolo che fino a quel momento aveva continuato ad elogiare le vesti e i fini paramenti del sovrano, annunciando invece che “il re è nudo”. E non succede nulla, salvo sentir parlare di “torsione democratica” come reazione critica ad un governo che rifiuta di sottoporsi alle pratiche concertative. Si vede che il numero 17 porta male (la confederazione di Corso Italia ha celebrato a Rimini il suo XVII Congresso) anche se scritto in numeri romani.
 
Ma le disgrazie non si presentano mai da sole. Susanna Camusso è riuscita a perdere, sul piano politico, il Congresso, nonostante il sostegno di una maggioranza bulgara. Il vero vincitore è stato Maurizio Landini per almeno due motivi: 1) la Fiom ha espresso una linea chiara e coerente, ancorché assurda. È contraria alle misure adottate dal governo e quindi propone di scioperare su di una piattaforma fuori dalla storia. I metalmeccanici della Cgil sono come gli indiani d’America, costretti a difendere la propria esistenza e i propri valori in una condizione di assoluta inferiorità; ma almeno la soddisfazione di una Little Big Horn sperano di potersela togliere. 2) La lista alternativa presentata da Landini ha ampliato, nell’assise nazionale, il perimetro dei consensi ottenuti nel corso del dibattito congressuale. Ne è scaturito, comunque, un Congresso privo non solo di storia, ma anche di proposte. Il leader della Fiom insiste nel promettere ai giovani il ritorno al “paradiso perduto” del posto fisso; Susanna Camusso gli contrappone la priorità della tutela dei c.d. esodati. Del resto, il sostegno determinante del sindacato pensionati bisognerà pure guadagnarselo.
 
Si è a lungo dibattuto, negli anni, su quale potesse essere il vero segno di novità che – alla luce della loro storia parallela e comune – potesse pervenire, da un lato, dal Pd (quale erede della sinistra storica e guida di un governo sedicente progressista); da parte della Cgil, dall’altro. La cartina di tornasole della cultura di governo di un grande partito della sinistra è riposta (non solo in Italia) nella sua capacità di sopportare uno sciopero generale senza andare in crisi d’identità. Per quanto riguarda, invece, la Cgil, il suo effettivo grado di autonomia si misura sulla disponibilità a scioperare contro un esecutivo “amico”, senza che i suoi militanti debbano interrogarsi su dove stia il loro obbligo di fedeltà (e verso chi, tra il partito e il sindacato d’appartenenza). Queste prove del fuoco, questi momenti della verità, finora, non si sono mai verificati. Perché si è fatto di tutto per evitarli. Adesso, il governo Renzi sembra disposto a “farsene una ragione” se la Cgil deciderà di contrastarlo. A Rimini, invece, si è potuto notare che è la Cgil a non essere pronta allo strappo. Se non a parole: anche dure, ma sempre e solo parole.
 
Giuliano Cazzola
Membro del Comitato scientifico ADAPT

Docente di Diritto del lavoro UniECampus

 
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