Politically (in)correct – Una Norimberga per gli assassini dell’ILVA

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Quando ero bambino Virginia, la nonna paterna, bracciante agricola, era solita dirmi con fare profetico che io avrei visto la vittoria del socialismo. Per fortuna non è stato così. Ora, essendo ormai più che anziano e divenuto nonno, auspico che mio nipote, quando sarà superata – ci vorranno decenni – questa “notte della Repubblica”, un giorno possa assistere ad un piccolo “Processo di Norimberga” (magari organizzato a Barletta o a Gioia del Colle) che faccia luce – insieme con tanti misfatti – sulla tragedia dell’ILVA e pronunci una sentenza di condanna (per carità, soltanto di carattere etico e storico) per i responsabili.

 

Allo stato dei fatti non sappiamo come finirà questa vicenda. Mentre l’acquirente Arcelor Mittal dichiarava che «l’acquisizione di ILVA è stata approvata dalla Commissione Ue e noi pensiamo di chiudere questa acquisizione entro il secondo trimestre del 2018», si è consumato un grave strappo tra il ministro dello Sviluppo Economico, Carlo Calenda, e i sindacati, i quali (sia pure con toni diversi) hanno bocciato il piano presentato dal Governo, perché, a loro avviso, non garantiva l’assunzione da parte del compratore di tutti i 14 mila lavoratori dell’Ilva, mantenendo, tra l’altro, le stesse condizioni contrattuali. «C’è solo il no a tutti e tutto – ha replicato Calenda – Un altro caso di populismo sindacale».

 

L’offerta sul tavolo, secondo il ministro, era quella tratteggiata nelle decine di incontri e riunioni tra ministero e sindacati. Ricapitolando in estrema sintesi, l’acquirente si impegnava ad assumere 10 mila persone a tempo indeterminato con tanto di articolo 18 ancien régime (questi lavoratori pertanto non sarebbero considerati “nuovi assunti” ai sensi del dlgs n.23 del 2015 istitutivo del contratto a tutele crescenti) e di mantenimento delle condizioni contrattuali; altri 1.500 lavoratori sarebbero stati assunti con le stesse garanzie in una società costituita con l’agenzia pubblica Invitalia. Per il resto dei lavoratori (circa 2.400) il piano prevedeva che rimanessero in capo all’amministrazione straordinaria, beneficiando di un incentivo all’esodo pari all’equivalente di 5 anni di cassa integrazione e fino a 100 mila euro. I sindacati hanno rifiutato queste proposte; la Cgil per di più si è allineata con le affermazioni stupefacenti di Michele Emiliano, il Governatore della Puglia, il quale non solo ha accusato di incapacità il ministro, ma ha messo in discussione che Calenda possa legittimamente occuparsi ancora della vertenza, il cui dossier dovrebbe passare, secondo Emiliano, sul tavolo del nuovo esecutivo. Il che, ad avviso di chi scrive, è segno palese di conclamata irresponsabilità. Lapidario il commento di uno dei protagonisti della vertenza, il leader della Fim-Cisl, Marco Bentivogli: “È successo che in una parte del sindacato hanno prevalso ragioni politiche estranee al tavolo sindacale e all’interesse dei lavoratori”.

 

Alcuni credono che sarà più facile trattare con il nuovo governo, che fin d’ora percepiscono come un “governo amico”. Altri sperano in un’impossibile nazionalizzazione. La maggioranza, probabilmente, in tutte e due le cose. Sta di fatto che un sindacato che si vanta di aver fatto saltare la trattativa dovrebbe spiegare ai lavoratori che ora l’azienda ha le “mani libere”. È vero che nel contratto che il Governo giallo-verde dovrebbe varare sembra aver prevalso l’orientamento della Lega, favorevole alla sopravvivenza dello stabilimento. Ma chiunque avesse a cuore la sorte dei lavoratori dell’ILVA sarebbe lì con il cronografo tra le dita ad accertarsi della permanenza in carica dell’attuale Governo, per chiudere l’accordo prima dell’arrivo di quello che si annuncia.

 

Questi giudizi di inadeguatezza, sproloquiati da un amministratore che dovrebbe badare a se stesso, sono veramente ingenerosi, poi, nei confronti del vice ministro Teresa Bellanova, la quale, da ex sindacalista della Cgil pugliese, ha seguito la vertenza con una tenacia encomiabile e con la passione e la competenza che ha sempre dimostrato nelle attività in cui è stata impegnata.

 

È evidente che ci sarà un impasse nel negoziato, con ulteriori aggravi per il bilancio dello Stato (per dare un minimo di continuità allo stabilimento sono già stati impiegati 900 milioni), mentre si intensificherà il rischio di un ritiro dell’acquirente, al quale non è dovuta sicuramente gratitudine particolare (Arcelor Mittal avrà avuto di certo il suo tornaconto nel compiere l’operazione), ma non può diventare il tavolo su cui si scarica il barile degli errori del passato. Non è certo la prima volta che significative e lunghe crisi aziendali impongono, per garantire una ripresa, processi di ristrutturazione e riorganizzazione con tutte le conseguenze che si rendono necessaria anche per quanto riguarda gli esuberi. Lo stabilimento è stato per anni costretto all’inattività con addosso tutti i guasti che il blocco della produzione determina nelle lavorazioni a ciclo continuo. Pensare che all’improvviso tutto ritorni come prima non sta nell’ordine delle cose possibili. L’alternativa è chiudere.

 

L’ILVA era il più grande stabilimento siderurgico d’Europa, i suoi laminati servivano – e non solo – tutta l’industria manifatturiera nazionale. E che dire di Taranto? L’acciaieria rappresentava il 75% del Pil di quel territorio e il 76% della movimentazione del porto (uno scalo su cui vi erano forti interessi per farne un importante hub dell’Europa meridionale). Per il solo approvvigionamento delle materie prime dell’ILVA (il suo parco geo-minerario era di 78 ettari) approdavano nel porto, annualmente, ben 1300 navi. L’85% dei prodotti ILVA transitava per il porto. In sostanza, tra occupazione diretta ed indiretta, 20mila famiglie, solo a Taranto, dipendevano dall’ILVA. Durante la vertenza sono stati previsti stanziamenti pubblici (336 milioni) per la bonifica ambientale, mentre i nuovi acquirenti si sono impegnati ad effettuare massicci investimenti per la ripresa produttiva e il risanamento.

 

Certo, l’ILVA non era un’azienda floro-vivaista. Ma i suoi impianti, un tempo fatiscenti, erano stati messi in linea con gli standard di settore. Questo è un punto importante, anche sul piano delle responsabilità penali e civili e dei provvedimenti da adottare. È fin troppo facile affermare che lavoro e salute non possono essere in alternativa tra di loro. La tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori ha costituito l’embrione di quei diritti sociali che hanno formato, nel tempo, un moderno sistema di welfare. Basta risalire alla fine del XIX secolo per trovare l’affermazione, nelle prime legislazioni di carattere sociale, del principio del “rischio professionale” in forza del quale il datore, proprio perché si avvale del lavoro dei propri dipendenti ha il dovere di garantire loro condizioni di sicurezza e di risponderne in presenza di eventi negativi quali gli infortuni e le malattie professionali sulla base di una presunzione assoluta della pericolosità del lavoro, soprattutto in ambienti in cui siano operativi e funzionanti, in autonomia, impianti e macchinari.

 

Le normative più recenti (ma risalenti ormai ad alcuni decenni) hanno individuato, progressivamente, dei nessi di responsabilità dell’impresa nei confronti del territorio circostante. Così esistono precise regole sulle emissioni, gli scarichi, lo stoccaggio dei materiali di scarto, specie se pericolosi, e quant’altro: regole la cui frequente violazione ha prodotto devastazioni ambientali inaccettabili, avvelenando i fiumi, il mare, l’aria, la terra, le acque. Nel contesto della globalizzazione la possibilità o meno di saccheggiare il territorio (al pari di quella di sfruttare la forza di lavoro) è diventata una componente di quella corsa alla competitività che spesso non si dà cura di quanto può diventare un costo, un vincolo o un impedimento. Ma la legislazione in materia di tutela ambientale (come in tema di sicurezza del lavoro) si è evoluta ed evolve in conseguenza di tanti fattori, tra cui è prevalente l’apporto innovativo della tecnologia, ma non sono estranei anche gli aspetti economici. Si pensi alle emissioni dei motori diesel installati sulle autovetture: venti anni or sono erano ammesse in misura quasi doppia di quella consentita oggi. Basti pensare ai diversi “bollini” numerati in sede europea (indicativi del grado di inquinamento prodotto) che contraddistinguono le automobili in circolazione. Ma si è mai visto un giudice che, all’uscita di una nuova direttiva che raccomanda modelli dotati di una tecnologia più avanzata e sicura, ordini la rottamazione di tutte le auto fabbricate in precedenza secondo regole meno severe? Eppure, anche le polveri sottili provenienti dal traffico urbano provocano la diffusione dei tumori. E perché non proibire il tabacco e chiudere le distillerie?

 

Vi è sempre un rapporto biunivoco tra l’essere umano e l’ambiente in cui vive. Ai tempi dei nostri nonni e bisnonni si moriva di fame, di pellagra, di malaria, magari di influenza (ricordate la c.d. Spagnola che seminò milioni di vittime nel mondo?) ad un’età in cui, oggi, i giovani si pongono il problema se sia venuto il momento di lasciare la casa paterna e mettere al mondo dei figli. Adesso, anche le patologie sono differenti. Ma dal Paradiso Terrestre Adamo ed Eva furono cacciati milioni di anni fa. Da allora nessuno ci ha più rimesso piede. Ed anche nel giardino dell’Eden, vi era un frutto nocivo: quella stessa mela che, mangiata adesso una volta al giorno, “toglie il medico di torno”.

 

Fuor di metafora, lo stabilimento è stato progressivamente autorizzato in ciascuna delle fasi di aggiornamento degli impianti e delle procedure secondo le disposizioni di volta in volta vigenti. Probabilmente, gli impianti e le tecnologie a cui sono imputati standard anomali di tumori al momento dei sequestri giudiziari non esistevano più. Poi c’è la questione del quartiere Tamburi dove piovono gli scarichi delle emissioni. Ce lo hanno raccontato in mille modi, mostrandoci le auto ricoperte di caligine, i lenzuoli stesi anneriti, le strade ricoperte di ceneri e quant’altro. È vero. Ma dove sta l’anormalità? In uno stabilimento siderurgico che inquina un quartiere o in un quartiere costruito a fianco di uno stabilimento siderurgico? In Italia abbiamo visto di tutto: componenti di commissioni condannate perché non essendo indovini non avevano previsto uno scisma; sindaci condannati per non aver intuito l’intensità di un nubifragio che ha devastato la città; amministratori delegati anch’essi condannati perché mentre dormivano a notte fonda nel loro letto, un vagone ferroviario ha preso fuoco a diverse centinaia di km di distanza. È mai possibile che in procura, a Taranto, nessuno si sia mai posta la seguente domanda: chi sono stati quei pazzi di amministratori che hanno autorizzato una lottizzazione vicino ad uno stabilimento siderurgico? Sempre che di lottizzazione si tratti e non di abusivismo tollerato.

 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

 

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